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Conti pubblici

Il Buco con gli 80 euro intorno

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Guest post di Paolo Cardena’ di Vincitori e Vinti

 

 
In attesa della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto che prevede l’assegnazione del bonus di 80 euro  in busta paga dal prossimo maggio, su “Il Sole 24 Ore” di un paio di giorni fa,  si è potuto leggere a proposito delle coperture  pensate per finanziare il provvedimento varato dal governo che,  per l’anno in corso,  avendo effetti dal prossimo mese di maggio e fino al 31 dicembre 2014, valgono circa 6.9 miliardi di euro.
Nei giorni precedenti al Consiglio dei Ministri che ha approvato il decreto, il Premier, in più occasioni, aveva ribadito che non ci sarebbero stati problemi di coperture e che erano già state individuate risorse addirittura doppie rispetto a quelle necessarie. Peccato che la fantasia del Premier sia destinata a naufragare con la realtà dei numeri, assai diversi rispetto a ciò che si pensa. (LEGGI: LA RIDUZIONE DELLE TASSE PROMESSA DA RENZI E I CONTI CHE NON TORNANO)
 
Andiamo al dunque.
Si legge che buona  parte della manovra verrebbe finanziata da tagli alla spesa che dovrebbero assumere carattere strutturale  (sempre che vengano fatti), e che dovrebbero valere 4.2 miliardi di euro.
 
Vengono, poi,  individuate una serie di coperture che non hanno carattere strutturale, ossia sono una tantum.
E’ il caso, ad esempio, degli 1.8 miliardi di euro aggiuntivi richiesti alle banche che hanno beneficiato della rivalutazione delle partecipazioni in Bankitalia. Oppure il gettito Iva (700 milioni di euro) derivante dal pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione; o, ancora, i 600 milioni derivanti dal gettito previsto dalla rivalutazione dei beni d’impresa. 
 
Ovviamente, se non si conoscono i criteri di formazione di queste poste, tutto potrebbe apparire normale. Ma non lo è affatto. Vediamo perché.
 
Per quanto riguarda gli 1.8 miliardi, come dicevamo, questi derivano dalla rivalutazione delle quote in Bankitalia. A suo tempo, il governo Letta, nel provvedimento Bankitalia, aveva previsto il pagamento di una imposta sostitutiva del 12% sui maggiori valori attribuiti per effetto della rivalutazione. Non è questa la sede per tornare su quell’argomento che, a mio avviso, presenta comunque molti lati criticabili. Al tempo stesso, va segnalato che si cadrebbe in errore se si pensasse che il nuovo Governo, attraverso l’aumento dell’imposizione sulle banche, abbia voluto rendere meno criticabile e più digeribile all’opinione pubblica quella scelta. In buona sostanza, il governo Renzi, a giochi conclusi, ha di fatto modificato con effetto retroattivo l’imposizione a quell’epoca prevista, elevandola al 26%. Questo atteggiamento, troppo spesso praticato proprio in materia fiscale da  tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi anni, espone la nostra nazione a numerosi rischi, sia interni che esterni, poiché testimonia l’inaffidabilità dello Stato in materia fiscale, disincentivando gli investimenti, il fare impresa  e minando le capacità attrattive, già assai latente. Vi è, poi, un ulteriore aspetto che andrebbe considerato. Il gettito previsto di 1.8 miliardi di euro , si abbatte su un sistema bancario messo a dura prova da questi anni di crisi, alla prese con la gestione di un volume elevato di sofferenze che erode gli attivi, e comprime la redditività. Pensare che, in un simile contesto, le banche possano rinunciare ad una porzione così consistente di redditività è pura fantasia. Di conseguenza, con ogni probabilità, le  banche ribalteranno questo onere (1.8 miliardi di euro) sui correntisti, sulle imprese, e magari su quei soggetti verso i quali il provvedimento di sgravio di 80 euro è rivolto,  con effetti pressoché nulli sui consumi, e, nella peggiore delle ipotesi con un aggravio di ulteriori costi per altri soggetti, magari non meno bisognosi.
 
Discorso analogo può essere osservato  per le misure che colpiscono le imprese, già messe a dura prova dalla crisi. La Legge di Stabilità approvata dal governo precedente, aveva previsto la rivalutazione dei beni di impresa. In pratica, lo stato, al fine di aumentare la base imponibile da colpire e poter contare su risorse aggiuntive, aveva previsto la possibilità -concessa alle imprese- di poter rivalutare i beni aziendali, adeguandoli a maggiori valori. A fronte dei maggiori valori fiscali riconosciuti e usufruibili fiscalmente da parte delle imprese a decorrere dal periodo di imposta 2016, le imprese avrebbero dovuto corrispondere allo stato un’imposta sostitutiva sulla rivalutazione (12% o 16%, a seconda che si rivalutino beni ammortizzabili o meno) in tre rate, dal 2104 al 2016.
L’intervento normativo, con un semplice tratto di penna, ha anticipato a giugno 2014 il pagamento totale dell’imposta dovuta, nonostante i benefici a favore delle imprese derivanti dalla rivalutazione decorrano dal 2016. Con buona pace per quel che resta della pianificazione fiscale delle imprese, che,in questo sciagurato paese, rimane un concetto del tutto astratto.
 
C’è da aggiungere che Lo stesso provvedimento ha poi previsto l’aumento della tassazione su quelle che vengo impropriamente definite rendite finanziarie. Peccato che i percettori di queste rendite siano solo ed esclusivamente  le famiglie e i piccoli risparmiatori (quindi, non le banche, le assicurazioni e i fondi che, essendo investitori lordisti, scontano il prelievo fiscale destinato a queste categorie) che  verranno stangati con l’aumento della tassazione  del 30% sulle rendite finanziare, includendo tra queste anche i conti deposito, ed escludendo i titoli di stato che rimarranno tassati al 12,5%. Il tema lo abbiamo già discusso approfonditamente in numerosi articoli (LEGGI: TUTTE LE RAGIONI PER ESSERE CONTRARI ALL’AUMENTO DELLA TASSAZIONE SUI RISPARMI).
Qui ci limitiamo a ricordare che le imprese che si rivolgono al mercato dei capitali per finanziarie i progetti di investimento, saranno costrette ad aumentare i rendimenti delle obbligazioni offerte sul mercato, al fine di mitigare l’impatto concorrenziale derivante dalla tassazione dei titoli di stato che, scontando un prelievo assai più ridotto, si pongono in concorrenza con altri strumenti di investimento, facendo aumentare il costo della raccolta. Proprio per questo motivo, è verosimile pensare che le banche si troveranno a ribaltare sulle imprese e sulle famiglie il maggior onere sostenuto per la raccolta bancaria.
Per concludere, giova ricordare che l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie e sui conti deposito, è una misura destinata a finanziare la riduzione dell’Irap sulle imprese che, per l’anno in corso, incidendo solo sugli acconti del prossimo novembre, vale appena 700 milioni di euro, già assorbiti assorbiti per 600 milioni dall’anticipo del versamento delle imposte sulla rivalutazione dei beni di impresa, anticipato al 2014. Quindi, con effetti pressoché nulli per le imprese, che invece patiranno l’aumento dei costi di finanziamento

 


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