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Stefano Sylos Labini: “L’Italia stretta dai vincoli europei” Intervista all’economista Stefano Sylos Labini a cura di Margherita Furlan

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In questo momento una procedura per debito è giustificata”. La lettera inviata a Bruxelles dal presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, non basta a smuovere le convinzioni del commissario agli Affari economici dell’Ue, Pierre Moscovici. Secca la risposta del premier: “Quello che è scritto nella lettera non vuole dire che non rispettiamo i vincoli attuali, ma il nostro candidato ideale alla presidenza della Commissione Ue è quello che si predispone a cambiare le regole europee.” E sottolinea: “Se siamo in un sistema integrato dobbiamo competere con le sfide globali ma all’interno dell’Ue le regole devono essere uguali per tutti. Io voglio competere, ma a parità di armi.”

Per Stefano Sylos Labini, fra gli autori del saggio ‘Per una Moneta Fiscale gratuita: uscire dall’austerità senza spaccare l’euro’, “i vincoli europei impediscono l’attuazione di politiche economiche espansive. La politica economica perseguita dal governo Conte, come dai suoi predecessori, mantiene un avanzo primario che drena invece di aggiungere risorse all’economia reale. L’Italia non è dunque ancora vicina alla ripresa, secondo il noto economista. Anzi, non si è mai rialzata dalla crisi economica del 2007/2008”.

Soluzioni?

I Certificati di Credito Fiscale (CCF) sono sconti fiscali non rimborsabili alla scadenza e dunque non generebbero alcun impegno dello Stato a sborsare euro. Proprio per tale motivo vengono classificati come “non payable tax credits” che non danno luogo a un aumento del debito all’emissione. Inoltre, non sono moneta ma titoli fiscali. Il trucco che adotta Bruxelles per bloccarli è sostenere che se circolano e vengono scambiati – se cioè esiste una cedibilità illimitata dei crediti d’imposta corrispondenti alle detrazioni – allora si potrebbe determinare di fatto l’assimilazione di tali bonus a strumenti finanziari negoziabili con il rischio di una riclassificazione degli stessi e conseguenti impatti negativi e immediati sui saldi della finanza pubblica. Il gioco è quello di trasformare una definizione di tipo statico in un’interpretazione di tipo dinamico che invece non è scritta da nessuna parte. Una moneta fiscale complementare all’euro, infatti, consentirebbe d’immettere potere di acquisto addizionale nell’economia, evitando di chiedere soldi in prestito ai mercati finanziari. Oggi il Pil reale italiano è inferiore ai livelli del 2007/8 – 80 miliardi di euro – mentre le prospettive non sono incoraggianti senza capacità di manovra. I CCF invece godrebbero di un controvalore monetario certo e, funzionando come mezzo interno di pagamento verso la pubblica amministrazione, potrebbero stimolare la crescita della domanda e finanche della produzione interna”.

Il presidente della BCE, Mario Draghi, durante il simposio delle banche centrali di Sintra, in Portogallo, ha rilanciato il programma di quantitative easing e non ha escluso un “ulteriore taglio dei tassi” per stimolare l’economia, considerati “i fattori geopolitici, la crescente minaccia del protezionismo e le vulnerabilità dei mercati emergenti”. Come valuta l’operato di Draghi?

Mario Draghi sta proseguendo sulla strada che ha intrapreso nel 2012, quando ha evitato la disintegrazione dell’euro con una politica monetaria espansiva. Questo tipo d’intervento però può evitare il crack ma non è in grado di rimettere in moto l’economia, specialmente nei Paesi ad alto debito, a meno che non sia accompagnato da una politica di bilancio espansiva capace di mettere in moto una cinghia di trasmissione tra la moneta addizionale e l’economia reale. Il quantitative easing, in assenza di una robusta ripresa, si è fermato dentro le banche, che, a loro volta, non aumentano il credito vista la mancanza di aspettative di crescita. In ogni caso, all’interno dell’attuale architettura dell’eurozona, il quantitative easing è l’unico tipo d’intervento attuabile: le politiche di bilancio sono infatti bloccate e appena aumenta il deficit, subito arrivano le lettere di Bruxelles che, invece di favorire l’espansione della domanda interna, obbligano a politiche di restrizione fiscale controproducenti – come già dimostrato dal governo Monti – dato che affossano l’economia e fanno aumentare il peso del debito sul reddito. Nella risposta inviata a Bruxelles, Giuseppe Conte accetta di rispettare i vincoli dell’Ue ma chiede nuove regole per la governance economica. E così facendo non fa altro che ripetere cose che sentiamo dire da anni. In realtà, in particolare modo oggi che l’espansione della domanda interna è impedita anche dalle politiche sanzionatorie che imperversano a livello internazionale, in primis andrebbero cambiati i trattati europei – procedura tra l’altro molto complessa e lunga, dal momento che richiede l’unanimità dei 19 Paesi membri della zona euro. Sono quindi necessarie ampie dosi di compattezza politica e di determinazione: nessun governo può godere di adeguati margini di manovra all’interno degli attuali vincoli europei.”

Libra sì, mini-bot no. Perché?

Dai tempi della svolta neo liberista della Thatcher e di Reagan stiamo vivendo nel cosiddetto capitalismo finanziario: tutto è consentito al settore privato, mentre al settore pubblico tutto è vietato. La Commissione europea e lo stesso Draghi si sono scagliati contro i mini-bot ideati dalla Lega perché nelle remote stanze dei palazzi europei non è palesemente tollerata la possibilità che lo Stato si sganci in qualche modo e dal sistema bancario e dai mercati finanziari. I mini-bot sono titoli fiscali, ad accettazione volontaria, con applicazione mirata al pagamento dei debiti della pubblica amministrazione – ad oggi circa 50 miliardi di euro. Il cittadino sarebbe libero di scegliere di aspettare (con calma) un pagamento in euro oppure di mettersi in tasca (subito) dei mini-bot che gli consentirebbero di pagare le tasse. Il punto debole della proposta però è la mancanza di una scadenza: i mini-bot sono infatti utilizzabili immediatamente. Ma così facendo nelle casse dello Stato entrerebbero meno euro, diversamente da quanto succederebbe con i CCF, che, con scadenza a due anni, genererebbero un differimento nell’uso che posticiperebbe l’impatto sul bilancio pubblico. Nell’intervallo tra l’emissione e la scadenza i certificati potrebbero circolare nell’economia come un mezzo di pagamento il cui controvalore sarebbe, per l’appunto, garantito dalla possibilità di pagare le tasse. Sarebbero dunque titoli sicuri, stabili e garantiti perché il giorno in cui bisogna pagare le tasse arriva sempre. I CCF non si pongono dunque l’obiettivo dell’uscita dall’euro, bensì rafforzerebbero la situazione dell’Italia all’interno dell’eurozona rendendo sostenibile il debito pubblico e rimettendo in moto la crescita dell’economia italiana”.

Secondo il presidente della Commissione finanze del Senato, Alberto Bagnai, “l’Italia è sottoposta a un atteggiamento ricattatorio e mafioso; evidentemente c’è bisogno di creare un incidente che tenga l’Italia sotto un sostanziale potere di ricatto: ti faccio la procedura se tu non accetti una serie di cose.” E’ davvero questa la situazione dell’Italia in Europa?

Bruxelles preferisce che Roma resti, sotto i riflettori, in uno stato di soggezione permanente. ‘L’Italia è il Paese che non rispetta le regole’ – dicono. In realtà il cosiddetto Belpaese sta conseguendo un avanzo primario strutturale da circa 25 anni. Quindi cos’altro vogliono dopo la gigantesca operazione di privatizzazione che ha attraversato l’intera penisola? Il vero problema è che queste ricette non funzionano. Ma non dimentichiamoci che l’Italia è per molti un concorrente temibile perché forte della sua industria manifatturiera. D’altronde chi si appella al rispetto delle regole a volte è il primo a calpestarle; anche con una discreta dose di malafede.”


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