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Quell’incerta crisi. Dall’utopia dell’aumento di capitale per le medie imprese nel decreto Rilancio alla costrizione del ricorso alle procedure concorsuali. (di Lisa Taddei)

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Salvare l'Italia

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Il decreto legge n. 34/2020 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 128 del 19 maggio 2020) conosciuto come del Rilancio propone, tra l’altro, alcuni interventi riguardanti le seguenti imprese di medie dimensioni: S.p.A., s.r.l., cooperative, società europee, società cooperative europee dotate di sede sociale in Italia e società assicurative.

L’archetipo di media impresa configurato dal d.l. Rilancio diverge dalla definizione di piccola e media impresa stabilita nella Raccomandazione n. 2003/361/CE e recepita dall’Italia con il D.M. 18 aprile 2005 che all’art. 2 stabilisce due requisiti: il primo di natura occupazionale “meno di 250 occupati, il secondo, invece, fissa il “fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro o un bilancio non superiore a 43 milioni di euro” (di per sé il bilancio non superiore a 43 milioni non significa nulla, sarebbe stato corretto indicare: “lo stato patrimoniale non superiore a ..”).

L’art. 26 del d.l. n. 34/2020 denominato “rafforzamento patrimoniale delle imprese di medie dimensioni” disegna una serie di misure che, seppur rigide, dovrebbero, secondo il legislatore, guidare l’impresa nella ripartenza post Covid-19 secondo due ordini di direttive: il riconoscimento di un credito di imposta per i soci – investitori e la creazione di un fondo ad hoc denominato “Fondo Patrimonio p.m.i.”.

Circoscrivendo l’analisi alla misura del rafforzamento patrimoniale da parte degli investitori tramite l’aumento del capitale, si esigono tre requisiti: un certo ammontare dei ricavi conseguiti nell’anno 2019, una riduzione dei ricavi nel secondo bimestre del 2020 e la deliberazione dell’aumento di capitale a condizione che sia a pagamento integralmente versato.

a) Con riguardo ai ricavi, il decreto individua due tipologie (una terza è valevole soltanto per il fondo patrimonio p.m.i.): deve ammontare a più di cinque milioni di euro oppure, se si tratta di un gruppo di impresa, “si fa riferimento al valore dei citati ricavi su base consolidata, al più elevato grado di consolidamento, non tenendo conto dei ricavi conseguiti all’interno del gruppo”.

Il primo punto sul quale porre l’attenzione è la dizione “ricavi”: non si comprende se il legislatore intenda le componenti positive di reddito del conto economico (il guadagno) ai sensi dell’art. 2445 c.c. o se si riferisca all’accezione utilizzata nel linguaggio comune per indicare la somma totale di fatture emesse comprensive anche delle spese sull’impresa.

Stabilire la corretta definizione dei ricavi non è un vezzo, un mero orpello definitorio, ma permette all’impresa potenzialmente interessata di fruire del beneficio quali dati analizzare; già il legislatore con il decreto Rilancio ha destato dubbi interpretativi discostandosi dal concetto di media impresa rispetto alla pacifica definizione contenuta nel d.m. 18 aprile 2005.

Un altro particolare degno di nota riguarda la cifra dei ricavi “più di cinque milioni di euro”: appare un indicatore non soddisfacente, poiché privo di alcun collegamento logico-giuridico e/o logico/economico.

Il legislatore pone maggiore cura nell’indicare il requisito dei ricavi dedicato ai gruppi di impresa: “nel caso la società appartenga ad un gruppo, si fa riferimento al valore dei citati ricavi su base consolidata, al più elevato grado di consolidamento, non tenendo conto dei ricavi conseguiti all’interno del gruppo”.

Per il gruppo di impresa appare sufficientemente chiaro che si faccia riferimento ai ricavi del bilancio consolidato; semmai potrebbe destare perplessità il requisito dei ricavi da cinque milioni di euro valido sia per la singola impresa sia per il gruppo di impresa che, come è noto, comprende la società capogruppo, le società controllate e le eventuali società collegate.

Analizzando i requisiti dei ricavi per il gruppo di impresa, l’elemento che suscita maggiore interesse riguarda l’omessa indicazione dei vantaggi fiscali per i gruppi che sono esonerati dalla redazione del bilancio consolidato così come stabilito prima dall’art. 1 del d. lgs. 31 marzo 2011, n. 56 riguardante le cosiddette imprese irrilevanti e successivamente modificato con il d. lgs. 139/2015.

b) Le perdite devono corrispondere almeno ad un terzo dei ricavi (il 33%) afferenti soltanto ai mesi di marzo e aprile 2020 rispetto agli stessi mesi dell’anno 2019.

Non solo dette perdite devono essere causalmente riconducibili al fenomeno epidemico; lo stesso requisito è richiesto per i gruppi di impresa dove si fa riferimento ai ricavi del bilancio consolidato.

Un ultimo aspetto, non secondario, riguarda la difficoltà per le imprese di dimostrare il nesso causale intercorrente tra le perdite subite nei mesi di marzo e aprile 2020 e l’emergenza Covid-19 confrontata agli stessi mesi del 2019; infatti è ben possibile che vi siano imprese già inclini alla crisi prima di marzo 2019 o da maggio 2019 ecc..

c) L’aumento di capitale deve essere “effettuato entro il 31 dicembre 2020” e “non inferiore a duecentocinquantamila euro”; l’art. 26, comma1, lett. c), ammette solo l’aumento di capitale a pagamento, estromettendo, di fatto, le ulteriori due ipotesi: l’aumento di capitale gratuito o virtuale ex art. 2442 c.c. (consente all’impresa di attingere dalle somme accantonate a titolo di riserve) e l’aumento di capitale in forma mista, ossia composto da titoli a pagamento e l’assegnazione gratuita di nuove azioni.

Osservando le “spinte centrifughe” del decreto verso un discostamento della Costituzione, si può notare che la violazione dell’art. 2467 c.c. che prevede la libertà di forma dei finanziamenti sociale all’aumento di capitale, la quale potrebbe essere sottoposta al sindacato di legittimità costituzionale in riferimento alle norme parametro degli artt. 41 Cost. (libertà di iniziativa economica) e 3 Cost. (uguaglianza).

Un ulteriore rafforzamento della libertà di forma si può ricavarlo dall’art. 150 legge fall. che prevede la possibilità del giudice delegato, su proposta del curatore fallimentare, di ingiungere tramite decreto i versamenti non ancora dovuti sia ai soci attuali che precedenti, a condizione che non siano scaduti i tempi entro i quali poterli richiedere.

Sempre a proposito dell’art. 2467 c.c. si sottolinea la questione della postergazione del rimborso dei finanziamenti soci: il comma 5 dell’art. 26, pone un limite temporale alla distribuzione delle riserve – soltanto dopo la data del 31 dicembre 2023 – e, sempre fino alla stessa data, impone il possesso della partecipazione rischia di stagliarsi ulteriormente contro le libertà costituzionali economiche: è infatti ben possibile che l’impresa prima del 2023 soddisfi integralmente i debiti verso i terzi e che quindi superi lo squilibrio di natura patrimoniale-finanziaria che ne ha causato la postergazione.

d) Gli ulteriori requisiti previsti dal decreto Rilancio sono:

– non rientrare nella categoria delle imprese in difficoltà ai sensi del Regolamento UE n. 651/2014 riguardante gli aiuti di Stato (disposizione modificata con il successivo Regolamento della Commissione n. 2017/1084, che il legislatore non menziona), del Regolamento UE n. 11388/2014 riguardante gli aiuti a favore delle imprese produttive nel settore ittico e del Regolamento UE n. 702/2014 concernente gli aiuti nel settore agricolo, forestale e delle zone rurali;

– non essere tra le imprese che abbiano ricevuto e non rimborsato aiuti ritenuti illegali o incompatibili dalla Commissione europea;

– una serie di regolarità di natura contributiva e fiscale, senza peraltro specificare il periodo temporale della regolarità, se si trovasse in detta condizione prima della situazione emergenziale, durante e/o successivamente; nonché l’assolvimento degli obblighi derivanti dalle normative in materia edilizia, urbanistica, giuslavoristica e della salvaguardia dell’ambiente;

– infine, si pretende che gli amministratori, i soci e il “titolare effettivo” (non si comprende se con detta dizione il decreto voglia evidenziare la figura del socio occulto, l’amministratore di fatto, ecc., se intendesse effettivamente, l’accertamento avverrebbe con giudizio separato e non nei tempi sufficienti per beneficiare degli incentivi fiscali) non siano stati condannati con sentenza definitiva, negli ultimi cinque anni per i reati tributari.

I requisiti, raggruppati per comodità topografica di chi scrive alla lettera d), tratteggiano la provincia logica del legislatore che funge da pedagogo: l’impresa non deve mai aver sbagliato, non deve essere stata in difficoltà, i vertici non devono essere stati condannati per reati tributari, ecc., pena l’esclusione da un beneficio fiscale che prende una piega architettonica di difficile utilità.

Paradossalmente, l’impresa non può godere dei vantaggi fiscali se i vertici sono stati condannati per reati tributari ma ben potrebbero esserne ammessi qualora risultassero condannati ad esempio per reati commessi nei confronti della pubblica amministrazione o per esempio per i reati societari della l. 231/2001 (responsabilità amministrativa da reato); del pari, l’imprese ne è ugualmente ammessa se versa regolarmente i contributi fiscali e previdenziali dei lavoratori ma non le retribuzioni spettanti a questi ultimi.

Dai rilievi fin qui svolti, il finanziamento all’impresa di medie dimensioni gode, secondo il decreto Rilancio, solo di una mera partita contabile, corrispondente al credito d’imposta in compensazione, che sconta il rischio di dover essere restituito qualora la Commissione europea ritenga illegittimo l’aiuto di Stato ai sensi degli artt. 107 e 108 TFUE (quest’ultimo richiamato espressamente dal decreto Rilancio art 26, comma 3; inoltre si rileva come non vi erano segnali di divieti per impedire l’estensione del beneficio anche alla piccole imprese.

Da qui, la realistica presa d’atto: appare insufficiente l’incentivo del decreto Rilancio (anche) per le medie imprese poiché non appone alcuna tutela per il credito dei finanziamenti soci in caso di successivo fallimento; inoltre non si comprende perché gli incentivi valgano solo per le medie imprese e non siano state estese anche alle piccole imprese.

Ciò detto, le misure del decreto Rilancio poiché di difficile applicazione considerate con una adeguata perizia manovriera la soluzione che indichi la più adatta procedura di composizione della crisi d’impresa; infatti se con il decreto legge l’unico vantaggio consiste in un credito d’imposta in compensazione, con l’assoggettamento ad una procedura concorsuale, le perdite su crediti sono deducibili in ogni caso, ai sensi dell’art. 101, co. 5, d.p.r. n. 917/1986.

I punti deboli o poco convincenti del decreto Rilancio rischiano di essere, d’altro canto, il punto di forza di investitori che potrebbero segnare significativi passi indietro al fenomeno della lotta alla criminalità organizzata, ove attraverso il riciclaggio di denaro viene rafforzato il loro sodalizio criminoso tramite l’espansione delle loro “policy” nelle attività economiche condizionandone le scelte societarie, spesso non in linea con gli obiettivi che un’impresa dovrebbe avere come sano miraggio.

Un altro pericolo è costituito dagli investitori interessati solo a conoscere il know out aziendale per poi delocalizzare in un paese in cui l’imposizione fiscale risulta nettamente inferiori oppure investono in una impresa italiana con lo scopo di farne cessare l’attività dopo qualche anno per diventare così monopolista sul mercato di quella tipologia merceologica, con tutte le conseguenze geopolitiche del caso.

Le operazioni di aumento di capitale sociale nell’ambito dell’attuale legge fallimentare e alla luce della nuova riforma della crisi di impresa “Rordorf-Bonafede” (cenni).

Le misure previste dal decreto Rilancio e dagli altri decreti emergenziali appaiono di difficile applicabilità per l’imprenditore “onesto e sfortunato”, al quale rimane da percorrere (ad eccezione di alcune determinate imprese le quali sono soggette ad amministrazione straordinaria o a liquidazione coatta amministrativa) il tentativo di soluzione / sistemazione della crisi attraverso determinate procedure atte a comporle.

L’attuale legge fallimentare disciplina diversamente i finanziamenti: gli aumenti di capitale, che rientrano nei cd. finanziamenti ponte (182 quater l. fall.) e i finanziamenti interinali – sia urgenti che attestati – (182 quinquies l.fall.), nella riforma Rordorf-Bonafede, invece, vengono disciplinati tutti allo stesso modo dall’art. 99 c.c.i. e ne richiedono la preventiva autorizzazione, altrimenti si corre il rischio di non beneficiare della prededuzione.

Una autorizzazione preventiva implica avere già un quadro chiaro sulle scelte di risanamento aziendale da intraprendere, mentre nell’attuale prassi non è così ben delineato il piano che si vorrà intraprendere; tuttavia, in occasione del decreto Liquidità, tramite il quale le imprese possono chiedere un finanziamento fino a 25.000 euro, l’ente creditizio ha richiesto, tra i vari documenti, anche il business plan, segno che la riforma Rodorf-Bonafede è impaziente di entrare in vigore.

La prededuzione, che consiste nel primato assoluto di alcuni creditori – dotati di determinate caratteristiche – di essere soddisfatti integralmente, pur entro i limiti della capienza della massa, rappresenta uno dei più importanti incentivi al fine di ricorrere agli accordi di ristrutturazione dei debiti e al concordato preventivo.

Volendo compiere solo un breve sondaggio esplorativo, risulta utile menzionare gli altri incentivi, non tutti sono però applicabili a tutte le procedure, si ricordano: gli effetti protettivi del patrimonio del debitore già durante la fase delle trattative (cd. automatic stay), la sospensione dei processi cautelari o sospensivi pendenti, l’effettuazione di pagamenti preferenziali in favore di fornitori strategici, l’“esenzione” penale, l’“esenzione” revocatoria, vincolatività della maggioranza dei creditori sui creditori non aderenti al “piano”, ecc..

Nella remota ipotesi che si benefici degli incentivi del decreto Rilancio o l’impresa si trovi in una situazione di “ordinaria amministrazione”, il finanziamento dei soci risulta postergato ai sensi degli articoli 2467 e 2497 c.c., oltre al rischio – peculiare del decreto Rilancio – di dover restituire i crediti in compensazione qualora la Commissione europea li qualificasse come aiuti di Stato illegittimi.

Diversamente, in presenza di una procedura di composizione della crisi, i crediti sono prededucibili – ai sensi dell’art. 182 quater, comma 3, l. fall. – nella misura dell’ottanta per cento a condizione che: i) siano versati dai soci attuali; ii) in funzione o in esecuzione di un concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione e spetta la prededuzione integrale per quei soggetti che diventano soci durante l’esecuzione della procedura.

Il codice della crisi d’impresa conosciuto anche come riforma Rordorf-Bonafede approvato con il d. lgs. 14/2019 e che entrerà in vigore nel settembre 2021 si discosta sotto molteplici aspetti all’attuale legge fallimentare e dai già menzionati articoli 182 quater e 182 quinquies l. fall. che saranno sostituiti dal 46, comma 4; 6, comma 1; 99, 101 e 102 del codice della crisi d’impresa.

La normativa del nuovo codice della crisi d’impresa pone ulteriori limiti ai finanziamenti alle imprese in crisi, che va ad aggiungersi alla stringente normativa bancaria europea, la quale non permette agli istituti di credito di soddisfare il mondo delle piccole e medie imprese.

Lisa Taddei


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