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A MONTE DELL’ART.18

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L’art.18 dello Statuto dei Lavoratori è uno di quei temi in cui la maggior parte delle persone ha già un’opinione consolidata e irremovibile. In questi casi si discute soltanto per provare all’altro che ha torto. Come se non bastasse, non tutti, e fra questi chi scrive, hanno la competenza specifica in diritto del lavoro, dati storici, statistici, micro e macroeconomici per essere sicuri di essere in possesso degli elementi fondamentali della materia in discussione. E tuttavia è lecito parlarne almeno come parte di un problema più vasto: l’identificazione della fattispecie.

Prendiamo la legittima difesa. La prima immagine è quella di un uomo che si vede aggredire e che usa la violenza per difendersi. Come negargli l’esimente? Purtroppo, il diavolo si nasconde nei particolari. Se l’aggressore dà un pugno alla vittima e questa risponde con una revolverata, bisognerà concedere l’esimente? Il codice infatti precisa che essa vale: “sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Una signora però potrebbe dire: “Se fossi un uomo, e forte per giunta, gli avrei ricambiato il pugno. Ma sono una donna. Se non avessi sparato, quel furfante avrebbe potuto massacrarmi”. E anche questo è giusto. Il giudice però potrebbe chiederle: “Ma perché gli ha sparato al cuore, non poteva sparargli a una coscia?” E l’accusata potrebbe sempre rispondere che non soltanto non dispone della mira di Buffalo Bill, ma nell’emozione del momento ha soltanto pensato a fermare l’altro, non a scegliere che cosa colpire. Insomma, nella realtà i casi possono presentare tante sfaccettature che l’esimente della legittima difesa alla fine sembra molto meno chiara dell’immaginato. Il codice infatti prevede ancora l’eccesso colposo di legittima difesa, la legittima difesa presunta, e per il caso concreto lascia comunque l’apprezzamento della scusante al giudice.

Lo stesso problema si ha nel caso dei contrasti fra lavoratore e datore di lavoro. Chi ha l’idea del datore di lavoro che getta sul lastrico un padre di famiglia senza nessuna valida ragione, o forse soltanto per ragioni personali, si batterà per l’intervento del giudice: bisogna garantire il posto di lavoro alla vittima. Chi pensa invece ad un lavoratore battifiacca, sabotatore o comunque economicamente inutile, si batterà per la libertà del datore di lavoro nell’amministrazione dell’impresa.

Probabilmente sarà più utile vedere il problema in termini economici. Chi assume lo fa perché reputa che trarrà dal lavoro del dipendente un’utilità maggiore di quella che gli corrisponderà. Se questa si restringe di molto o cessa, è inevitabile che anche il rapporto di lavoro cessi. Da un lato nessun lavoratore rimane al suo posto se gliene offrono uno migliore come paga o come condizioni, dall’altro nessun datore di lavoro si priva volentieri di un lavoratore che gli rende molto. Il che significa che chi insiste per mantenere il proprio posto reputa di non avere alternative – o per propria incapacità o per il livello della disoccupazione, o per la rigidità del mercato del lavoro – e chi insiste per licenziare normalmente ha, almeno soggettivamente, buoni motivi per farlo. Dunque la soluzione non è l’intervento del magistrato. Si immagini quanto gradevole possa essere l’ambiente lavorativo, quando un dipendente è rimesso in esso di forza. Inoltre il giudice, essendo estraneo alla vicenda, potrà occasionalmente dare ragione alla parte che ha torto.

La vera soluzione è una nazione prospera e libera. Non è l’ordinamento giuridico che deve assicurare la stabilità del posto di lavoro anche ai lavoratori che si comportano male (come si vide nella vicenda del sabotaggio a Pomigliano d’Arco, molti mesi fa) con la conseguenza che poi le imprese delocalizzano e gli investitori stranieri evitano l’Italia. È il sistema economico che deve dare – in un mercato aperto e prospero – la possibilità di trovare un altro lavoro a chi non ha più il vecchio. Se poi il lavoratore si comporterà male, sarà normale che sia licenziato anche da questo secondo impiego; se si comporterà bene, si troverà meglio in questo secondo posto di lavoro che nel precedente, e il precedente datore di lavoro si renderà conto di aver commesso un errore.

Dell’art.18 si può discutere trascurando le technicalities. I problemi economici richiedono una soluzione economica, non una soluzione giuridica. Se ci si intestardisce in quest’ultima, l’economia prende la sua rivincita de facto: un imprenditore non assume, un altro porta l’impresa all’estero, e infine abbiamo l’impresa che lavora  in nero, sfruttando il dipendente, e il dilagare dei contratti a termine.

Se una nazione vuole essere prospera, non deve mai dimenticare che l’economia fa parte della natura. E “Naturae non imperatur nisi parendo”, diceva un amico che non aveva dimenticato tutto il latino: alla natura si comanda soltanto obbedendole. Si possono portare i cavalli all’abbeveratoio, ma non è possibile obbligarli a bere.

Gianni Pardo, [email protected]

14 agosto 2014

 


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