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Le tasse al contrario: lo Stato paghi subito le imprese in crisi per il coronavirus. Solo così ci salveremo dal tracollo economico.

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di Davide Gionco
14.03.2020

Mentre gli italiani sono stati messi in quarantena per bloccare l’epidemia di coronavirus, il governo comincia a rendersi conto dei gravi contraccolpi economici che subirà il paese, mettendo sul piatto 25 miliardi di euro e facendo provvedimenti per bloccare i pagamenti delle tasse e delle rate sui mutui.

25 miliardi per 60 milioni di abitanti fanno circa 416 euro a testa. Una cifra ridicola.
Impossibile calcolare ora quanto dovrà pagare il governo per questa crisi del coronavirus, ma possiamo tentare di stabilire un ordine di grandezza.
Prima di tutto ci sono le spese vive relative alle cure delle persone malate: assunzioni di nuovo personale, adeguamenti delle strutture ospedaliere, farmaci e attrezzature. E tutta la macchina organizzativa per gestire l’emergenza. Buttiamo lì una cifra? 10 miliardi di euro.
Ma la voce più importante sono le conseguenze economiche.
Lo Stato ha bloccato gli adempimenti fiscali e previdenziali, ma dovrà comunque garantire il pagamento degli stipendi dei dipendenti pubblici e delle pensioni. E questo significa che dovrà trovare altrove il denaro necessario.
Lo Stato incassa entrate tributarie per circa 600 miliardi l’anno. Uno stop di 2 mesi significa 100 miliardi in meno di entrate. Gli incassi previdenziali dell’INPS sono di circa 200 miliardi l’anno. Uno stop di 2 mesi significa 33 miliardi di ammanco.
Il blocco dei pagamenti delle rate dei mutui. L’ammontare dei crediti bancari in Italia alle famiglie è di circa 550 miliardi. Supponendo che si tratti di mutui a 20 anni, 2 mesi di stop significano un ammanco per le banche di circa 5 miliardi. I crediti alle imprese sono di circa 650 miliardi. Supponendo che si tratti di mutui a 5 anni, significa per le banche un ammanco di circa 21 miliardi. Sono cifre per cui le banche presenteranno il conto al governo, senza ombra di dubbio.

Ma i danni economici maggiori sono quelli causati dal blocco delle attività economiche, causando mancanza di produzione di beni e servizi e mancanza di incassi. Dato che ogni mese le imprese devono pagare gli stipendi, gli affitti e tutte le spese fisse, questo stop alla produzione economica potrebbe portare molto rapidamente al fallimento di centinaia di migliaia di piccole e medie imprese.
Imprese che non saranno in grado, neanche successivamente, di fare fronte agli impegni fiscali, contributivi, con le banche e con i loro fornitori.
La quarantena dei lavoratori colpisce direttamente le imprese riducendo la loro capacità produttiva, ma la quarantena di tutti i cittadini riduce tutti gli acquisti di beni e servizi non necessari.
Il settore del turismo sarà fortemente colpito anche nei prossimi mesi, dato che molti lavoratori sono stati messi forzatamente in ferie ora (a casa) e non potranno andare in vacanza la prossima estate. Anche perché non è da escludere che le scuole restino aperte fino al mese di luglio.
Molto difficile quantificare i danni, ma l’ordine di grandezza è di un mese di Prodotto Interno Lordo perso per quest’anno 2020. Con un PIL di 1800 miliardi significa una perdita di 150 miliardi, a cui lo stato dovrà fare fronte, se non vuole ritrovarsi da qui a 2 mesi con altri 2-3-4 milioni di disoccupati, oltre ai milioni che già abbiamo a motivo della crisi economica da cui non siamo mai usciti dal 2008 ad oggi.
Sommando le varie cifre riportate arriviamo ad un conto di 309 miliardi di euro, ma è verosimile attendersi cifre dell’ordine di 400-450 miliardi di euro necessari per evitare il crollo della nostra economia nazionale.
Non a caso la Germania ha annunciato ieri un piano straordinario da 550 miliardi di euro per fare fronte alla crisi economica del coronavirus. E non a caso qualche giorno fa l’economista Ashoka Moody stimava a 500-700 miliardi il “firewall finanziario” per evitare il tracollo dell’economia italiana, che trascinerebbe con sé l’intera economia mondiale.

Il nostro governo, che per il momento ha ottenuto dalla UE il permesso di aumentare il debito di soli 25 miliardi di euro a fronte di danni quantificabili a 450 miliardi, dimostra di non avere la minima idea di quello che ci attende e di come affrontare la situazione.

La prima questione fondamentale è: dove troviamo tutti questi soldi?
La risposta è difficile per una classe politica (e relativi consulenti economici) abituata a fare manovre finanziarie dell’ordine di 25-30 miliardi di euro, mentre ci serve denaro per 15 volte tanto.

La Banca Centrale Europea, con Cristine Lagarde, ha già fatto sapere che non è suo compito finanziare i governi. E la colpa non è di Cristine Lagarde, ma dei trattati europei, firmati anche dall’Italia, che hanno inserito nello statuto della BCE il preciso divieto di finanziare direttamente gli Stati.

La soluzione di finanziamento classica è quella di emettere dei titoli di stato, indebitandoci con i mercati. Ma una immissione di 450 miliardi porterebbe ad avere un debito di 2850 miliardi e, considerando che il PIL diminuirà a 1650 miliardi, ad un rapporto debito/PIL del 172%. Stanti gli attuali parametri europei l’Italia dovrebbe impegnarsi a riportare in 20 anni questo rapporto al 60% del PIL ovvero a fare un attivo di bilancio primario del 5.6% del PIL ogni anno, sottraendo alle imprese ed alle famiglie italiane già colpite dalla crisi al netto 100 miliardi l’anno. Il che significherebbe una crisi economica perpetua.

L’economista Ashoka Moody propone di realizzare una cordata internazionale (FMI, banche estere) per mettere insieme i 500-700 miliardi da prestare all’Italia. Per noi significherebbe contrarre un alto debito estero che potrebbe diventare impagabile, come quelli dei paesi del Terzo Mondo.
E soprattutto Ashoka Moody non tiene conto del fatto che molte altre nazioni si troveranno nella stessa situazione dell’Italia, per cui l’ammontare dei finanziamenti internazionali potrebbe essere di 10-20 volte tanto. Per nulla evidente che vengano reperiti.

Incredibilmente una soluzione di viene dalla Germania, dove ieri il ministro delle finanze Olaf Scholz ha annunciato che i 550 miliardi predisposti di prestiti agevolati a lungo termine per fare fronte alla crisi economica del coronavirus, “questione di vita o di morte”, verranno creati dalla KFW, la banca pubblica che attualmente opera a sostegno delle imprese. Come se fosse la nostra cassa depositi e Prestiti.
La KFW, come la Cassa Depositi e Prestiti, non regalano il denaro, ma lo prestano. Tuttavia se il prestito di 550 miliardi avviene a tasso zero e se si prevede un tempo di rimborso di 30 anni, la rata da “restituire” diventa di soli 18 miliardi di euro l’anno, una bazzecola (lo 0.5%) per una economia che vale 3400 miliardi di euro l’anno.
Questo annuncio della Germania pone fine a decenni di politiche di austerità in Europa e forse ad un cambio di paradigma economico. Questo video presenta un quadro chiaro della situazione.

In alternativa abbiamo una soluzione “nostrana”. Gli onorevoli Pino Cabras ed Elio Lannutti hanno recentemente presentato in Parlamento la proposta di legge per l’istituzione dei Certificati di Compensazione Fiscale. In questo caso non si tratterebbe più di prestiti in euro, ma di una vera e propria forma di moneta parallela all’euro, ad uso nazionale, che potrebbe essere usata per finanziare buona parte degli interventi pubblici per evitare la crisi economica. Sarebbe una forma di denaro che non indebita nessuno con nessuno: lo Stato dà contributi a fondo perduto in CCF, famiglie ed imprese lo usano per le proprie necessità come se fossero euro e, gradualmente, li restituiranno allo Stato quando pagheranno le tasse negli anni a venire.

Un’ultima soluzione potrebbe essere il ritorno alla piena sovranità monetaria, sempre che le forze politiche di governo siano convinte a farlo. In questo caso basterebbe utilizzare la Banca d’Italia o un nuovo dipartimento del Tesoro per emettere delle neo-lire, le quali circolerebbero parallelamente all’euro. Lo Stato pagherebbe dipendenti e fornitori solo in lire ed accetterebbe pagamenti in euro e in lire. Imprese e famiglie potranno regolare i loro pagamenti in euro o in lire.
Le neo-lire potrebbero essere emesse come “moneta positiva” ovvero senza generare debito, come fa oggi la BCE con gli euro. In questo modo lo Stato potrebbe finanziarsi senza contrarre debiti con alcuno, mettendo in circolazione il nuovo denaro tramite la spesa pubblica, a beneficio di cittadini e imprese.
Questa soluzione è decisamente migliore di quella proposta da Ashoka Moody e di quella proposta dai Tedeschi, dato che si tratterebbe di ri-finanziare l’economia reale per fare fronte alla crisi economica del coronavirus, senza generare un ulteriore indebitamento dello Stato o delle imprese o delle famiglie. Questo è importante, perché nell’attuale situazione nessuno è in grado di garantire che quel debito verrebbe restituito. Per questo è meglio che la nuova moneta sia “regalata” per fare fronte alla crisi economica e non “prestata”.

E se qualche sedicente economista paventasse il pericolo di generare una eccesiva inflazione con queste immissioni di denaro, rispondiamo che si tratta solo di compensare le perdite causate dalla crisi economica, per cui non si andrebbe ad aumentare la capacità di spesa delle famiglie, spingendole a fare acquisti folli che spingono sui prezzi. Lo scopo è di evitare il crollo degli acquisti e crisi economica conseguente.

Risolto il problema di come reperire i 450 miliardi di euro per salvare l’Italia, facciamo una proposta sulle modalità di distribuzione di questi fondi.
Un generico “helicopter money” rischierebbe di non dare abbastanza denaro ai soggetti maggiormente colpiti dalla crisi economica e di darne troppo a chi non ne avrebbe bisogno.
Nello stesso tempo non c’è tempo di mettersi ad analizzare chi ha più bisogno e meno bisogno, perché molte imprese rischiano di fallire da qui a 1-2 mesi. Non è pensabile che lo Stato prometta ora dei fondi per poi erogarli fra un anno o anche solo 6 mesi, perché le imprese falliscono prima.
I pagamenti devono avvenire subito.

Anziché bloccare i pagamenti delle rate dei mutui, delle bollette, eccetera, senza arrivare comunque a bloccare tutte le spese fisse che un’impresa deve sostenere, sarebbe molto meglio che lo Stato costituisse un fondo per pagare ogni mese a ciascuna impresa e persona colpita dalla crisi gli stessi incassi mediamente percepiti nel corso del 2019.

Ad esempio una piccola impresa che abbia avuto un fatturato di 1’200’000 euro riceverebbe ogni mese dallo Stato un contributo di 100’000 euro.
Le tasse al contrario! Lo stato che paga le imprese.
L’impresa utilizzerà quel contributo per fare fronte alle spese fisse non procrastinabili, pagando fornitori e stipendi.
In questo modo nessuno subirà dei contraccolpi economici, né i dipendenti, né i fornitori.
I lavoratori dipendenti potranno andare regolarmente in vacanza la prossima estate, senza creare danni al settore del turismo.
Gli operatori del turismo non falliranno, anche se dall’estero verranno molti meno turisti.
Il patto di lealtà fra Stato e imprese deve essere: io Stato ti compenso le tue perdite, ma tu ti impegni a riavviare la tua produzione per tutto quanto ti è possibile.
Dopo alcuni mesi, quando la crisi sarà finita e la situazione stabilizzata, sarà possibile mette a punto degli strumenti di verifica puntuale della situazione vissuta da ogni impresa e dei danni realmente subiti a motivo della crisi economica.
A quel punto il denaro ricevuto in eccesso dovrà essere restituito, mentre quello utilizzato per fare fronte ai contraccolpi della crisi economica resterà concesso a fondo perduto.

Per quanto riguarda gli importi da erogare, è d’obbligo chiedersi, finalmente, se gli stimoli all’economia debbano riguardare solo i mesi della crisi del coronavirus e non anche i precedenti 20 anni di crisi economica causati dall’introduzione dell’euro e dall’adozione delle folli politiche di austerità imposte dall’Unione Europea.
Questo grafico mostra chiaramente come fra il 1998 e il 2020 il prodotto interno lordo pro capite in Italia sia rimasto sostanzialmente costante, mentre nel resto dell’Europa è cresciuto.

Questo significa che si potrebbe cogliere l’occasione per immettere nell’economia non solo i fondi per bloccare la crisi del coronavirus, ma anche dei fondi aggiuntivi, magari dell’ordine di 100 miliardi di euro, di investimenti pubblici per rilanciare l’economia del paese. Il tutto utilizzando gli stessi meccanismi di finanziamento sopra descritti.

Come dicono i cinesi, una crisi economica è un momento cruciale che può essere trasformato in una opportunità.
L’opportunità è quella di modificare radicalmente i meccanismi di finanziamento della spesa pubblica, rendendola uno strumento per lo sviluppo economico del paese e non una zavorra che porta al fallimento delle nostre imprese.
Il coronavirus ha accelerato un processo di crisi economica già in corso, di cui troppi politici non si rendevano conto (secondo l’esperimento della “rana bollita”). L’accelerazione ha reso evidenti tutti i gravi limiti dell’attuale sistema di finanziamento della spesa pubblica, che non deve essere basato sulla raccolta fiscale, ma sulla emissione di nuova moneta.

Ora non abbiamo alternative, come dicono i tedeschi. E’ una questione di vita o di morte.
O riformiamo la finanza pubblica, con lo Stato che crea da sé il denaro che gli occorre senza indebitarsi con nessuno e che, naturalmente, lo investe in modo responsabile, riducendo il carico fiscale per famiglie e imprese a livelli sostenibili (non gli attuali dell’Italia) e facendo investimenti pubblici per la crescita del paese.
O, in alternativa, siamo un paese finito e destinato all’autodistruzione.


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