Attualità
La secessione dei ricchi è una fake news (di Roberto Bin)
Da Costituzione.info vi proponiamo questo interessante punto di vista sulla riforma delle autonomie regionali. Buona lettura!!
Il libro di Gianfranco Viesti, Verso la secessione dei ricchi? (liberamente scaricabile grazie a Laterza) ha un pregio e un difetto. Il pregio è di stimolare l’attenzione e il dibattito attorno al tema delle autonomie e delle istituzioni. Il difetto è di creare un allarme che va molto oltre il ragionevole. Sembra che ci si trovi davanti a una svolta nella storia della Repubblica, forse irreversibile, a una lacerazione dell’unità nazionale che lascerà il Sud sprofondare… Merita quindi mettere in chiaro alcuni punti, per evitare che il dibattito scivoli nella denuncia e nell’accusa.
- Non c’è nulla di nuovo. Il meccanismo dell’attribuzione di “maggiore autonomia” alla regione ordinaria che lo chieda c’è dal 2001 ed è regolato da una norma costituzionale (art. 116.3). La novità è che in questo periodo il tentativo di alcune regioni di avvalersene sembra poter aver successo. Perché sia chiaro, questo non è causato dalla presenza della Lega al governo (e questo spiega perché anche l’Emilia-Romagna sia salita a bordo): il procedimento, che aveva già avuto un vagito durante il Governo Prodi II (2007), ha poi compiuto un primo passo negli ultimi giorni del Governo Gentiloni (2018). È proprio da quel passo che oggi si è ripreso il cammino.
- Quello che si può fare con il meccanismo dell’art. 116.3 non è quello che vorrebbero – o dichiarano di voler – fare Zaia e altri esponenti leghisti. Non è poco, ma neppure la secessione. Si tratta di riconoscere alcune competenze amministrative (che necessariamente si portano dietro le competenze legislative) in specifiche materie. Nella misura in cui queste competenze, la cui gestione passerebbe dallo Stato alla regione, abbiano un costo, il loro finanziamento verrebbe trasferito alla regione, perché così si è sempre fatto ed è imposto dalla Costituzione. È vero che Zaia e i suoi amici hanno inserito nella loro richiesta di autonomia tutto ciò che sembra rientrare nelle materie “trasferibili”, sperando così di eguagliare le province autonome di Trento e Bolzano, e di giustificare un riconoscimento finanziario pari al 90% dell’Irpef: ma non è così, e anche se lo fosse vorrebbe solo dire che le regioni si accollano compiti il cui costo è attualmente a carico dello Stato. In linea di principio, per l’erario pubblico non dovrebbe cambiare nulla e, soprattutto, nulla cambierebbe per le atre regioni.
- Tutto ciò si è già visto. Negli anni della crisi finanziaria, il governo ha imposto tagli pesanti al finanziamento delle regioni, di tutte. Le province autonome e il Friuli-Venezia Giulia hanno proposto al governo di non subire tagli all’entrate, ma di accollarsi i costi di alcune funzioni molto onerose svolte sino allora dallo Stato nei loro territori. Così la provincia di Trento si è accollata l’Università, Trento, Bolzano e il Friuli-VG la sanità ecc. Questo vuol dire che da allora non c’è più un Servizio Sanitario Nazionale? Nient’affatto, è semplicemente che la sanità in quelle regioni/province non è più a carico del Fondo sanitario nazionale. È cambiata la regola contabile, allargata l’autonomia organizzativa locale, in nessun modo derogata l’universalità delle cure sanitarie. E non sembra affatto che il risultato sia negativo: da quando pesa sulle finanze degli enti autonomi, il bilancio sanitario è migliorato e così anche il servizio erogato.
- Si denuncia il metodo, il fatto che cose così importanti si decidano a “trattativa privata” tra il governo e la singola regione. È esattamente quello che prevede la Costituzione: tutto deve partire – non dal dispendioso referendum promosso in Veneto e Lombardia, che è stato perfettamente inutile (se non per un surplus di campagna elettorale) – dall’accordo “bilaterale” tra il Governo e la regione (ed è questo che si sta discutendo in modo confuso in questo periodo). Poi deve approvarlo il Parlamento, con una legge votata a maggioranza assoluta (quindi non la legge normale). Si dice che il parlamento non potrebbe cambiare l’intesa raggiunta? Non è così: se al parlamento non piace qualcosa dell’intesa, sospende la discussione è vota un ordine del giorno con cui invita il Governo a riaprire i negoziati. Lo si è fatto nel 1984, quando si trattava di approvare il “nuovo concordato” con il Vaticano, che non era cosa da poco: la via c’è ed è semplice. Certo implica che il Parlamento funzioni a dovere, e questa dovrebbe essere la vera preoccupazione di tutti, e non solo per il “regionalismo differenziato”!
Dopo l’approvazione della legge opererà probabilmente (sarà uno degli elementi dell’intesa) una commissione paritetica Stato-regione, con il compito di mettere a punto i mille particolari dei rapporti centro-periferia. Anche questo non è un meccanismo inedito: è dal 1948 che le regioni speciali trattano i problemi con lo Stato tramite commissioni paritetiche. Avendo avuto l’esperienza diretta, posso assicurare che servono a qualcosa e possono funzionare bene, ma non sovvertono un bel niente del riparto delle competenze o della distribuzione dei soldi. Il MEF vigila con ossessiva attenzione sulle conseguenze finanziarie di ogni accordo.
- Tutto tranquillo, allora? Nulla affatto, nei contenuti delle competenze trasferite bisogno davvero vederci chiaro. E non è facile. Sono le burocrazie ad occupare il tavolo e a imporre il loro lessico, dietro al quale è spesso molto difficile vedere cosa c’è e che cosa potrebbe comparire. Spesso quello che si vede non mi tranquillizza affatto. Ho letto, per esempio, tra le carte elaborate dal Veneto che si vorrebbe “liberare” l’approvazione del piano paesistico e quella delle autorizzazioni paesaggistiche dal consenso, rispettivamente, del ministero e delle soprintendenze: è molto preoccupante, perché significherebbe senza dubbio abbattere quel tanto di protezione degli interessi pubblici generali che ancora sussiste. Altrettanto si potrebbe temere per le deroghe in tema di valutazione d’impatto delle opere pubbliche che emergerebbero dalle richieste della Lombardia. E, ovviamente, c’è il nodo della scuola, ed in particolare la regionalizzazione dei ruoli dei docenti: misure sulla cui applicazione bisogna ovviamente riflettere a fondo, per evitare che si creino ruoli regionali impermeabili e venga meno l’unicità del ruolo a livello nazionale. Ma, ancora una volta, si tratta di vedere chiaro in che cosa consistano etichette spesso molto poco esplicite, perché è nei particolari che si nascondo i problemi. Ma questo significa non arroccarsi su astruse questioni di principio. Io non temo che si rompa l’ordinamento nazionale a danno degli altri territori: temo invece che le singole amministrazioni locali possano allentare le maglie già poco stringenti della tutela dei beni ambientali e paesaggistici, che sono patrimonio nazionale, non regionale; e nel contempo si creino sacche di “protezionismo” dei cittadini regionali, che vadano ad intaccare il fondamentale principio costituzionale (e europeo) della libera circolazione.
- La vera scommessa nell’attuazione del “regionalismo differenziato” non ha solo la posta di una maggiore autonomia, responsabilità e efficienza delle amministrazioni locali, ma anche il conseguente mutamento di ruolo delle amministrazioni centrali. Perché questo è il nodo: se oggi esistono già enormi differenze tra il nord e il sud per quello che riguarda il godimento dei diritti sociali, sanità in testa, questo non deriva dalla troppa autonomia del nord, ma dall’inefficienza del centro, inteso come amministrazione centrale. Benché il governo abbia gli strumenti per intervenire immediatamente a tutela dei diritti individuali nelle regioni che non assicurano ai loro cittadini prestazioni adeguate ai “livelli essenziali” (che però sono stati sinora definiti e aggiornati solo per l’assistenza sanitaria), questo intervento non è affatto assicurato. I pazienti del sud vengono a curarsi al nord (arricchendo le strutture sanitarie che li ospitano), ma le strutture ministeriali non agiscono di conseguenza, intervenendo, controllando, sostituendo. Non è che le regioni del nord ottengano più soldi delle regioni del sud, perché il grosso del Fondo sanitario regionale è diviso “su base capitaria”, cioè in ragione del numero dei cittadini assistiti. Se questi finanziamenti non vengono utilizzati al sud con risultati comparabili di quelli ottenuti al nord (come mostra il c.d. turismo sanitario), questo implicherebbe un pronto e capillare intervento delle strutture del governo. L’eguaglianza dei diritti dei cittadini deve essere garantito così, non certo impedendo alle regioni del nord di migliorare ancora le loro prestazioni.
Questa sarebbe la battaglia da fare, riformare le prestazioni e le garanzie offerte dalle amministrazioni statali. È la loro scarsa efficienza di chi è preposto a garantire parità di diritti su tutto il territorio nazionale quello che più mi preoccupa, perché esse dovrebbero funzionare come contrappeso all’aumento di autonomia di certi territori. Non c’è soltanto il problema finanziario, su cui per altro le bozze di accordo sono ancora in alto mare e su cui vigila con occhio severo il MEF. La attuazione dell’art. 116.3 Cost. dovrebbe comportare una radicale riforma delle funzioni svolte dagli apparati burocratici dello Stato. Lo so, di riforma dell’amministrazione di parla da decenni e non si è fatto nulla di veramente incisivo: allora, però, è di questo che si dovrebbe discutere molto seriamente.
Per il resto sarei felice di vedere che anche le altre regioni riflettessero sul livello e l’uso dell’autonomia di cui godono. Anche le regioni del nord dovrebbero farlo, però: nelle richieste di maggiore autonomia avanzate sinora c’è più spirito burocratico di rivendicazione di specifici compiti amministrativi che una chiara immagine di quello che le regioni vorrebbero davvero fare. C’è qualcosa nelle richieste dell’Emilia-Romagna, articolate per aree omogenee lasciando intendere che ad esse corrispondano visioni politiche innovative; ma, per es., nella richiesta della Lombardia non c’è alcuna riflessione sul ruolo di Milano, che non è soltanto un’entità amministrativa, ma una capitale mondiale con potenzialità e necessità che da sole potrebbero giustificare un assetto particolare delle competenze e dei rapporti tra Stato e regione e magari affacciassero a loro volta ipotesi “personalizzate” di applicazione dell’art. 116.3, in modo da poter perseguire quelle politiche che più interessano le collettività che amministrano. E manca sempre un’idea progettuale, oltre che il carattere sperimentale che dovrebbe avere la richiesta di maggiore autonomia: la quale dovrebbe costituire l’occasione per consentire alle regioni che ritengono di poterlo fare di sperimentare soluzioni normative, amministrative, organizzative inedite.
Senza l’inutile clamore e lo spirito un po’ arruffone dimostrato dal Veneto, ma scoprendo quelle particolarità che, per esempio, fanno della Basilicata il Texas d’Italia e della Puglia una delle perle dell’agroalimentare, anche le altre regioni potrebbero avviare trattative con lo Stato. Il rischio però che lo facciano copiaincollando le richieste delle regioni del nord, e quindi negando in partenza quello che invece dovrebbe essere affermato con gran forza: che – per nostra fortuna – le regioni sono diverse, hanno problemi, caratteristiche e risorse diverse. Perché l’autonomia differenziata deve funzionare per questo, per esaltare e rendere amministrabili le particolarità dei territori. L’autonomia implica differenza e la differenza richiede autonomia.
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