Attualità
La PNL e il potere delle credenze: come ci manipolano con “debito” e “deficit”
Nella PNL c’è uno strumento sintetizzato da Robert Dilts nel suo libro “Changing Belief System with NLP” che si chiama “piramide dei livelli logici”.
Come dice la parola – “piramide” – si tratta di una vera e propria gerarchia di dimensioni dell’essere umano strutturata secondo una organizzazione “scalare”, dal basso verso l’alto, dai settori più grossolani, concreti e pratici del vivere a quelli più sottili e spirituali. Essa può essere letta e decifrata anche in senso opposto, ovviamente, e cioè dall’alto al basso.
1) Alla base, troviamo l’ambiente (il luogo dove stiamo, dove viviamo, dove si esplicita la nostra personalità o professionalità) e, a salire, secondo un ordine prestabilito
2) i comportamenti: quello che facciamo nel mondo;
3) le capacità: le competenze e le specifiche qualità che connotano il nostro agire, perfezionate con lo studio o nel lavoro;
4) le credenze: le convinzioni personali, tutto ciò in cui crediamo e ciò che pensiamo della vita, di noi stessi, degli altri e del mondo in generale;
5) i valori: le “cose”, anche e soprattutto immateriali, per noi importanti e “orientanti”, in grado cioè di illuminare e indirizzare le nostre azioni;
6) l’identità: ciò che sentiamo di “essere” nel profondo, i tratti caratteriali e personali in cui ci identifichiamo quando ci guardiamo allo specchio;
7) la spiritualità: quello per cui viviamo, ciò che conferisce un orizzonte di senso all’esistenza.
In pratica, questo strumento ci consente di analizzare qualsiasi situazione della nostra vita senza correre il rischio di dimenticarci dei fattori più rilevanti. Infatti, noi siamo sempre da qualche parte (ambiente), stiamo sempre facendo o non facendo qualcosa (comportamento), mettiamo in campo le nostre piccole o grandi abilità (capacità), lo facciamo in base a delle precise convinzioni, positive o negative, che ci aiutano a decidere e spesso ci condizionano nel nostro agire (credenze), ci ispiriamo bene o male a ciò a cui più teniamo (valori), ci identifichiamo con noi stessi e soprattutto con l’opinione che di noi stessi abbiamo maturato nel corso degli anni (identità), miriamo – o comunque possiamo mirare – a fornire un contributo trascendente l’angusto perimetro del nostro ego e proiettato all’esterno, verso il mondo e gli altri o addirittura verso una dimensione religiosa (spiritualità).
In virtù di tale “schema”, agendo sui livelli più alti della piramide si possono influenzare quelli sottostanti. Così, se si riesce a “condizionare” l’identità, oppure i valori o le convinzioni di una persona, si potranno anche influenzare in modo decisivo le sue capacità e i suoi comportamenti finendo per impattare anche sull’ambiente sociale in cui essa vive.
Nel caso del percorso verso l’Unione europea, la costruzione artificiosa di una “nuova identità” sovranazionale l’abbiamo già vista. Ma, in parallelo, c’è stata la diffusione (a livello di cultura pop) di convinzioni ben precise – e false – su alcuni temi chiave del dibattito politico: in primis, a proposito del cosiddetto “debito pubblico” e del “deficit” che lo alimenta.
Nella grande narrazione della “crisi” e dell’Europa, un ruolo fondamentale lo giocano proprio queste due parole chiave: deficit e debito.
Entrambe sono connotate da una forte accezione negativa. Chiunque di noi – nel sentire la parola “deficit” e la parola “debito” – prova sensazioni di disagio e ripulsa. E il motivo è che le abbiamo, da sempre, ancorate a sensazioni spiacevoli.
In tedesco, addirittura, c’è una sola parola per esprimere sia il concetto di debito sia quello di colpa: Schuld. La scrittrice e filosofa Elettra Stimilli ha scritto un libro dal titolo Debito e colpa e, in una intervista a «Il Manifesto», ha ricordato: «L’assonanza tra Schuld e Schulden, cioè tra colpa e debito, si trova in altre lingue: il sanscrito, l’ebraico, l’aramaico, oltre che nel tedesco moderno»57.
Debito, del resto, è ciò che “dobbiamo” restituire. Ecco il punto dolente: l’ansia della restituzione. Non a caso, si dice di chi è inguaiato con questo genere di faccende che “è inseguito dai creditori” oppure che “è braccato dall’esattore”. Il debito è una bestia che ti tallona per acchiapparti e, dunque, è sinonimo di guai oltre che ansiogeno, per sua stessa natura. E il deficit è l’anticamera del debito, per così dire. Se uno è “in deficit” evidentemente ha incassato meno di quanto ha speso e, quindi, per far fronte al “buco” nelle proprie finanze, dovrà ricorrere, appunto, all’indebitamento.
Pure in altri ambiti della nostra vita la parola debito gioca un ruolo decisivo. Persino per i giovani che non lavorano, ma si trovano ancora nella fase della scuola dell’obbligo o universitaria. Oggi gli studenti convivono, fin dalla classi delle superiori, con il problema dei debiti formativi. Quelli meno bravi, o meno studiosi, accumulano “debiti” scolastici che poi, in qualche modo, devono sanare; quantomeno se non vogliono passare un brutto quarto d’ora coi genitori o con i prof o se non vogliono rischiare di essere bocciati.
In Cina, poi, siamo al top. In 43 città del paese del Dragone è in fase di sperimentazione un sistema basato sui “crediti” sociali. I cittadini sono scrupolosamente controllati in ogni gesto quotidiano tramite un uso sapiente, sincronizzato e massivo dei mezzi di controllo individuale: quindi, il famoso “tracing” via app, videosorveglianza, supervisione digitale. E ogni gesto quotidiano contribuisce ad attribuire loro dei “crediti” o dei “debiti” commisurati a un “gruzzolo” di partenza. A ogni persona viene attribuito un carnet iniziale di mille crediti “sociali”. Dopo di che, se quel soggetto commette un illecito (ad esempio, attraversare con il rosso), la sua “dotazione” può scendere a novecentocinquanta crediti. Se, invece, fa il “bravo”, mettiamo segnalando sospetti alla polizia o donando il sangue, può salire a millecento. E così via. Per i più indisciplinati c’è il rischio di finire a zero. E finire a zero significa essere tagliati socialmente fuori, vale a dire non poter più usare la moneta elettronica, non poter più prenotare un viaggio eccetera. Non solo: i più indisciplinati possono anche essere messi alla video-gogna nei luoghi di ritrovo come cinema e centri commerciali.
Ma restiamo in Italia: la grande narrazione del debito ha esondato persino in ambito professionale e deontologico. Per esempio, i professionisti che non frequentano un certo numero di ore di formazione accumulano “debiti” con il proprio ordine professionale e rischiano sanzioni di carattere deontologico.
Ma andiamo ancora più a fondo. L’idea del debito come peccato originale e inestinguibile dell’umanità, a ben pensarci, ha addirittura un fondamento religioso. La preghiera più famosa e più recitata di tutti i tempi, il Padre Nostro, contiene infatti la fatidica frase: “Rimetti a noi i nostri debiti”.
Chi è cresciuto in un ambiente cristiano sa che il debito è persino “originario”, nel senso che non corrisponde a una colpa derivante da una trasgressione commessa in vita, ma da una “violazione” precedente, addebitabile ai nostri progenitori assoluti. Adamo ed Eva, con il loro peccato originale, hanno – per così dire – “indebitato” tutte le generazioni successive di mortali fino alla fine dei tempi. Ma il cristianesimo non è l’unica religione in cui il debito gioca un ruolo cruciale. Anche l’induismo, il buddhismo e molte altre forme di spiritualità di matrice orientale si ispirano a una logica similare: quella del karma. A ogni azione una reazione. Ogni errore lo si paga sulla propria pelle in virtù di una sorta di bilanciamento logico, aritmetico e infallibile, un equilibrio perfetto di pesi e contrappesi.
Bene, perché tutta questa premessa? Per farvi capire quali e quanti ancoraggi negativi, di carattere emotivo e morale, scattano nella nostra testa ogniqualvolta sentiamo pronunciare la parola “debito” e la parola “deficit”.
C’è però un modo per uscire dal vicolo cieco in cui siamo finiti ed è focalizzare questo punto: i vocaboli succitati, quando usati in riferimento alle finanze pubbliche, sono profondamente fuorvianti. Essi innescano una serie di reazioni psicologiche a cascata, nella piramide dei livelli logici di Dilts, proprio perché agiscono sulle nostre credenze. Quindi, condizionano – in base a quanto spiegato sopra – le nostre capacità, le nostre competenze, i nostri comportamenti, i rapporti umani e il nostro stesso modo di stare al mondo e di sentirci (oppure no) cittadini informati e responsabili.
“Deficit” e “debito” generano una convinzione limitante la quale, a sua volta, produce emozioni negative e sensi di colpa, cioè il miele di cui vanno ghiottissimi i manipolatori di professione. Essi, infatti, fanno scattare – a nostra insaputa – quell’autentica spirale perversa, quel circolo vizioso di ancore psichiche negative di cui abbiamo finora parlato.
Ora, per capire le radici di queste credenze fallaci, dobbiamo fare un passo indietro. E cercare, finalmente, di comprendere cosa siano davvero, a livello di politica economica, il deficit e il debito. Dobbiamo, insomma, modificare drasticamente le nostre convinzioni al riguardo. Se ci riusciremo – in base alla prospettiva piennellistica della piramide di Dilts – condizioneremo positivamente tutta la nostra vita: in particolare, i livelli sottostanti delle nostre capacità (di capire la politica), dei comportamenti (al momento del voto e in ogni circostanza in cui si richieda un contributo da cittadini consapevoli) e persino dell’ambiente.
Si definisce, tecnicamente, come “deficit” pubblico la differenza tra le entrate fiscali dello Stato e le sue uscite. Così, se in un certo anno lo Stato avrà registrato spese per 105, supponiamo, ed entrate per 100, il suo deficit sarà costituito dalla differenza tra le prime e le seconde. Quindi, nell’esempio, alla voce deficit troveremo un bel -5. La somma di tutti i deficit, accumulatisi anno dopo anno, va a costituire il famoso debito pubblico complessivo. Potremmo dire che il deficit è un goccia annuale, mentre il debito è il “mare” venutosi a determinare dallo stillicidio di una goccia dopo l’altra.
Ergo: se il deficit è una misura che indica lo sbilancio, nei conti di fine anno, tra le entrate e le uscite di uno Stato, il debito, invece, è lo stock cumulato, in un dato momento storico, di tutti i deficit generatisi negli anni precedenti.
In concreto, oggi l’Italia ha un debito pubblico di circa 2.450 miliardi di euro che è, appunto, la somma aritmetica di tutti i deficit degli anni addietro. Per esempio, se quest’anno il bilancio dello Stato finisse in deficit per, putacaso, cinquanta miliardi, il deficit dell’anno corrente si sommerebbe allo stock di debito già esistente che passerebbe, così, da 2.450 a 2.500 miliardi.
Ora facciamo un passo in avanti: sia il deficit che il debito si misurano in una percentuale commisurata a un’altra unità di valore che è il famoso PIL (prodotto interno lordo). Il PIL è l’insieme complessivo di tutti i beni e servizi prodotti da un Paese in un anno. Contribuiscono al PIL quattro “generatori”: a) la spesa pubblica (destinata ai consumi finali, agli stipendi del personale e agli investimenti pubblici); b) gli investimenti privati; c) i consumi dei cittadini; d) la bilancia commerciale di uno Stato (cioè il saldo fra esportazioni e importazioni). In definitiva, il PIL italiano è la ricchezza creata dal Sistema Italia grazie al contributo dei fattori suindicati.
Oggi il PIL italiano ammonta a circa 1.800 miliardi di euro. Ecco, allora, da dove nascono i concetti di rapporto deficit/PIL e debito/ PIL: dalla risposta a una semplice domanda: qual è il rapporto tra il deficit di un anno e il suo PIL? Qual è il rapporto fra il debito pubblico di un Paese e il suo PIL? Nel caso dell’Italia, per esempio, se nell’anno in corso il bilancio dello Stato si chiudesse con un deficit di 18 miliardi, si potrebbe dire che il deficit italiano in rapporto al PIL è stato dell’1 per cento. Infatti, 18 miliardi stanno a 1.800 miliardi come 1 sta a 100. Se guardiamo al rapporto debito/PIL, invece, concluderemo che il rapporto debito/PIL è stato del 136 per cento perché 2.450 miliardi (stock complessivo del debito) sta a 1.800 miliardi (PIL) come 136 sta a cento.
Questi due rapporti, come sapete benissimo, sono cruciali per capire cosa è successo in Europa negli ultimi trent’anni. Infatti, non passa giorno – e non è passato anno dalla firma del Trattato di Maastricht (1992) in poi – in cui non si senta ripetere la solfa del rispetto dei celeberrimi parametri, fissati appunto dal Trattato di Maastricht: il deficit non deve superare il 3 per cento sul PIL e il debito non deve superare il 60 per cento sul PIL.
Veniamo ora al disvelamento della convinzione errata: le parole “debito” e “deficit” hanno, in realtà, un senso esattamente opposto a seconda che vengano impiegate in ambito privato o in ambito pubblico. Più precisamente, a livello pubblico (diciamo pure politico) i termini debito e deficit non dovrebbero avere lo stesso significato negativo attribuito loro a livello di vita privata, nello studio, nel lavoro, nel commercio e nelle professioni.
Anzi, a dire il vero, essi dovrebbero avere il significato contrario. Il deficit, infatti, è una delle modalità attraverso le quali uno Stato sovrano può immettere nuova liquidità all’interno della propria economia reale.
Ripensateci: se le entrate di uno Stato sono le tasse, le imposte e i tributi, in cosa consistono le uscite? Risposta controintuitiva: nel denaro necessario per far funzionare il sistema statale nel suo complesso. Quindi, nella voce “uscite” ci sarà tutto ciò che lo Stato italiano spende per la sanità, per esempio, per la scuola, per l’istruzione in generale, per le infrastrutture, per la tutela del territorio, per le pensioni, per la protezione e assistenza dei lavoratori, per il funzionamento della macchina amministrativa (quindi, stipendi dei propri dipendenti) e della macchina politica (quindi, indennità e vitalizi dei politici), eccetera.
Ergo, le spese dello Stato sono un “attivo” per i cittadini. Ciò che uno Stato “spende” è tutto denaro messo in circolo nell’economia reale. Se il deficit è un quid pluris (un qualcosa in più) rispetto a quanto lo Stato ha ricevuto dai cittadini sotto forma di tasse, evidentemente lo Stato, facendo deficit, immette altra liquidità nell’economia.
Adesso, provate a sostituire la vostra solida convinzione circa il significato della parola “deficit” con l’espressione “denaro addizionale” oppure “risorse finanziarie aggiuntive per la cittadinanza”. Notate come tutto cambia? Come insegnava Dilts, se modifichi le tue credenze modificherai le tue emozioni, se cambi le tue emozioni cambierai il tuo comportamento e le tue capacità e quindi il tuo ruolo nel mondo. Non solo: come insegna più in generale la PNL (si chiama programmazione neuro “linguistica” non a caso), se cambi il tuo linguaggio cambi la tua percezione del mondo; e pure le tue convinzioni limitanti. È un circolo virtuoso.
“Denaro fresco” è esattamente ciò di cui l’Italia ha bisogno e che, però, stranamente non trova mai, da nessuna parte. Se non a prezzo di un braccio di ferro con la Commissione europea volto a ottenere, sotto forma di “flessibilità” (cioè – guarda un po’ – di punti in più di deficit) la possibilità di sforare i famosi parametri.
E quando il nostro Paese ci riesce, anche solo per pochi decimali di punto, immediatamente scatta il riflesso condizionato associato a ogni tipo di peccato: il senso di colpa. La stampa fa “sentire in colpa” il governo perché ha fatto troppo deficit, perché il debito pubblico è aumentato, perché le future generazioni dovranno accollarsi i nostri debiti (questa è una delle solfe preferite dai “guardiani del Sistema”). Gli stessi politici che hanno sforato i parametri – soprattutto quelli non troppo avvezzi alle cose economiche – si sentono “responsabili” e subito pensano a come potranno porre rimedio al proprio peccato.
Un inciso. Anche la parola “parametri”, se ci riflettete, è strettamente connessa con il dogma del debito e con la liturgia del deficit. Cos’altro sono i parametri se non dei “paletti”, cioè delle norme; anzi, per meglio dire, dei “comandamenti”?
Qualcuno potrebbe a buon diritto obbiettare: si, ma se è un debito, lo dobbiamo pur sempre restituire!
Un momento: arrivati a questo punto della storia, dovremmo aver cominciato a familiarizzare con il concetto del metamodello e delle domande di precisione.
Quale “violazione” contiene, da un punto di vista linguistico e piennellistico, la frase di cui sopra (“Sì, ma se è un debito lo dobbiamo pur sempre restituire!”)? È una generalizzazione, sotto forma di operatore modale di necessità. E davanti a questa generalizzazione cosa dovremmo chiedere a chi la pronuncia? Alcuni quesiti “metamodellanti” potrebbero essere, per esempio: chi ci obbliga a restituirlo? A chi lo dobbiamo restituire? Perché lo dobbiamo restituire?
Per il momento, in ogni caso, concentriamoci su questa nuova “convinzione”: il deficit corrisponde sostanzialmente a “risorse addizionali” o a “liquidità aggiuntiva”, se preferite. Non dobbiamo più sentirci in colpa quando pronunciamo questa parola e neppure siamo obbligati a imprecare contro il “governo ladro”. Semmai, dovremmo essere spronati a capirne di più.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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