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Euro crisis

Jacques Sapir: “La Germania ha distrutto il mercato dell’eurozona e non e’ un modello”

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Riportiamo questo articolo da Voci dall’estero: Intervista a Jacques Sapir: “La Germania ha distrutto il mercato dell’eurozona”

 

 In un’intervista pubblicata su AGRAPRESSE, il 13 gennaio, Sapir spiega perché la Germania non può essere considerata un modello generalizzabile da poter seguire, e accenna alla protesta dei berretti rossi in Bretagna, analizzandone le principali caratteristiche.
 
 
Intervista di Yannick Curt
 
Secondo Jacques Sapir, direttore dell’École des hautes études in Scienze Sociali (EHESS) e autore del libro “Bisogna uscire dall’euro?” [1], il successo della Germania è dovuto molto al funzionamento della moneta unica, a scapito dei paesi del sud dell’Europa.

Per molti anni, fino alla campagna per le elezioni presidenziali del 2012, quasi tutta la classe politica ha parlato di un modello tedesco a cui la Francia dovrebbe tendere. Qual’è questo modello?

La Germania non è un modello: non possiamo parlare di un modello che può essere generalizzato. In altre parole, possiamo dire che le soluzioni che sono state adottate in Germania hanno funzionato solo perché i paesi che la circondano non le hanno adottate. È la peculiarità della Germania che ne ha determinato il successo, se tutti la imitassero, il risultato sarebbe un fallimento generalizzato.
Perché?
Perché la Germania ha applicato all’interno dell’eurozona una politica da battitore libero. Mentre tutti i paesi erano impegnati a rilanciare l’economia a partire dal 2002, la Germania ha deciso di abbassare i suoi salari, ossia ha deciso di caricare sulle famiglie una parte dei costi che in precedenza venivano pagati dalle sue aziende, riducendo così i consumi interni. Ciò è stato possibile perché, contemporaneamente, i consumi dei paesi circostanti continuavano ad aumentare. Se tutti avessero applicato il modello tedesco, si sarebbe creata una grave crisi dell’Eurozona già dal 2003/2004. È chiaro quindi che il modello non è generalizzabile.
Voi avete anche puntato il dito sul declino demografico della Germania…
C’è una differenza enorme tra la Francia e la Germania: mentre in Francia ci sono tra i 650 e i 680.000 giovani che si presentano sul mercato del lavoro, in Germania  ce ne sono meno di 350.000. Abbiamo calcolato quale sarebbe il tasso di disoccupazione in Germania se essa avesse la stessa dinamica demografica francese: ci sarebbero dagli 1,5 ai 2 milioni in più di disoccupati. La Germania può permettersi di avere una politica di successo, nel breve termine, solo perché è in declino demografico. Tuttavia, paesi che hanno una demografia molto diversa da quella della Germania o della Francia, cha hanno rispettivamente un tasso di fertilità di 1,6 contro 2,05 – che è una differenza enorme – sono costretti, a causa dell’euro, a seguire  la stessa politica economica.
Lei dice che l’uscita dall’euro è inevitabile. In che modo l’economia tedesca trae vantaggio dalla moneta unica?
Prima dell’euro, c’era una tendenza alla rivalutazione del marco tedesco. I paesi vicini, come la Francia o la Spagna, svalutavano regolarmente la loro moneta. L’euro ha congelato il tasso di cambio ai livelli del 1999. Abbiamo visto che anche con una politica monetaria uguale per tutti, l’inflazione è molto diversa nei diversi paesi. In particolare, grazie all’euro la Germania gode di un tasso di cambio inferiore a quello che sarebbe il normale tasso di cambio per il marco tedesco, perché è nella stessa area monetaria della Spagna e dell’Italia. Questo le dà un notevole vantaggio nell’esportare nei paesi al di fuori dell’eurozona. Se guardiamo al saldo positivo della bilancia commerciale tedesca, si vede che fino al 2010 esso è stato fatto per lo più sull’area dell’euro; poi, avendo esaurito e, di fatto, distrutto il mercato interno dell’eurozona, la Germania, a partire dal 2011-2012, ha ripreso massicciamente ad esportare al di fuori dell’eurozona. Paesi come l’Italia, la Spagna o il Portogallo non hanno più soldi per comprare i prodotti tedeschi. Si è creato un sistema straordinariamente perverso, pericoloso per tutti questi paesi, e che è una vera e propria bomba politica, perché vediamo montare in Europa un odio nei confronti della Germania.
Secondo lei, l’euro forte ha impedito ai paesi del sud Europa di approfittare dei loro vantaggi comparati e di svilupparsi?

L’euro forte è per esempio al centro della crisi greca: fino al 2003, la Grecia aveva sì un deficit verso l’estero, ma un deficit  estremamente basso. C’erano le esportazioni agricole in Bulgaria, in Romania e in Ungheria; esportazioni industriali verso il Medio Oriente e, soprattutto, la Grecia era il cantiere navale di tutto l’est del Mediterraneo, grazie ad una tradizione di esperienza nella riparazione delle navi. Tutto questo è scomparso con l’euro forte, perché i prodotti e i servizi greci sono diventati più costosi. Le compagnie marittime (quelle che pagavano loro le imposte) lo facevano in dollari. Quando l’euro si è apprezzato del 35% rispetto al dollaro, per il governo c’è stata anche una perdita di gettito fiscale.

Ci sono anche distorsioni della concorrenza con la Germania, che gode della mancanza di un salario minimo e della manodopera dei paesi dell’est. Si chiede agli agricoltori francesi di essere più competitivi, anche se, tecnicamente, sono già tra i migliori al mondo. Come costruire l’Europa in un contesto del genere?
C’è qualcosa di molto inquietante in Germania, ed è la dinamica dei salari: c’è pochissima disoccupazione ma esistono tra i 6 e gli 8 milioni di lavoratori poveri. E in Germania si pone la questione se sia possibile armonizzare il costo del lavoro: è possibile, ma appiattendoli verso il basso, così provocando danni estremamente elevati. Sarebbe stato necessario, per far funzionare un sistema eterogeneo di legislazione sociale, di protezione sociale, di salari, l’equivalente degli importi monetari compensativi (tasse all’esportazione), che funzionavano in Europa negli anni sessanta. Ma c’è una reale preoccupazione riguardo alla politica agricola: che tipo di agricoltura in realtà vogliamo sviluppare? La politica agricola francese, a dispetto della qualità, rimane essenzialmente una politica orientata alla quantità, con meccanismi di sovvenzioni che, a medio termine, avvantaggiano i grandi agricoltori. Non  potremo evitare, in qualunque sistema ci troveremo, nell’euro o fuori dell’euro, di rimettere in discussione la politica agricola, chiedendoci se vogliamo che la nostra agricoltura si orienti verso i prodotti di esportazione – perché no, ma occorre definire a quali condizioni – oppure verso un’agricoltura di qualità su dei circuiti commerciali che la favoriscano. Penso che sia impossibile progettare una politica agricola separata da una politica delle reti di distribuzione. Infatti, oggi, una parte del denaro che va agli agricoltori non fa che passare nelle fattorie per finire nelle tasche dei principali distributori. Infatti, oggi una parte del denaro che va agli agricoltori non fa che transitare nelle fattorie per poi finire nelle tasche dei principali distributori. In tutte le grandi aree occorre riservare dei posti per le cooperative produttrici: si può fare, ma deve esserci la volontà politica, che va a scontrarsi contro le grandi centrali di acquisto. Forse potremmo immaginare di imporre a tutti gli ipermercati di riservare, a buone condizioni, il 20% della loro zona di vendita alimentare ai cibi dei produttori locali.
Il ministro parla volentieri di riportare l’agricoltura a livello locale, ma l’intervento politico, con misure reali che proteggano i nostri mercati e i nostri agricoltori, fatica ad emergere…
Un buon esempio è l’ecotassa, che in linea di principio è un’ottima idea, ma che nella sua applicazione si è rivelata assolutamente terribile: ossia che un prodotto fatto a Dordogne e venduto a Parigi sarà più tassato rispetto alle prugne del Cile che sbarcano a Roissy. È assolutamente assurdo! Non significa che si deve rinunciare all’ecotassa, ma si dovrebbe cambiare la modalità di calcolo. Si può immaginare un sistema con un costo molto basso per distanze inferiori a 300 chilometri, con forti aumenti tra 300 a 800 chilometri, e che diventa proibitivo per distanze superiori. Questa sarebbe già una prima soluzione.
Su questo tema, cosa ne pensa del movimento dei berretti rossi?
 
È un oggetto di studio estremamente interessante per le scienze sociali. C’è stato come un innesco di una rivolta anti-fiscale, una vecchia tradizione in Francia. Ma quando guardiamo alle strutture sociali, vediamo che nelle zone dell’Ovest c’è un vero problema. Questa regione ha conosciuto uno  sviluppo piuttosto favorevole fino al 2007-2008, ma ora è scivolata dentro la crisi con fenomeni molto brutali di impoverimento, non tanto nelle città quanto nelle periferie e nei piccoli centri. Da qualche anno si registra un reale aumento della povertà rurale, che non è necessariamente una miseria contadina. Molto spesso, i principali datori di lavoro della zona sono una o due imprese,  e il marito e la moglie di una coppia a volte lavorano nello stesso posto. Se la ditta chiude, cosa si fa? Ci sono anche molte piccole imprese con meno di 10 dipendenti, le cui dinamiche sociali sono molto diverse da quelle delle aziende di grandi dimensioni. Molto spesso, una parte dei dipendenti è legata al proprietario da un legame di parentela: la moglie tiene la contabilità, il genero ci lavora… Quando si pone la questione della sopravvivenza della società, c’è una sintonia di interessi tra i lavoratori e il proprietario. Il tenore di vita di un piccolo proprietario non è fondamentalmente diverso da quello dei suoi dipendenti. Questo permette di comprendere la creazione di questo tipo di solidarietà sociale. Il movimento dei berretti rossi è un vero e proprio movimento popolare. L’ecotassa è stata l’innesco, ma anche senza di quella, il movimento sarebbe emerso. Un’altra cosa importante è il ruolo delle donne: molte sono militanti dei sindacati o attiviste. Molto spesso, è la donna che va a lavorare nella piccola fabbrica all’angolo mentre l’uomo rimane nell’azienda agricola di famiglia. C’è anche una tradizione culturale della periferia bretone, dove sono le mogli dei marinai a farsi carico della famiglia.
[1] Sapir J., Bisogna uscire dall’Euro?, Parigi, Le seuil, 2012 .

 

By GPG Imperatrice

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