Attualità
Bianco, rosso e verdone
L’Italia di Mancini ha giocato la sfida con la Grecia con una brutta maglia verdastra. La notizia, in sé, potrebbe anche essere trascurata. In fondo, tutte le squadre di calcio, nazionali comprese, hanno divise di riserva, spesso con colori improbabili o addirittura ridicoli. Nel caso di specie, peraltro, c’era anche un risvolto politico divertente che nessuno ha notato. La nazionale padana, inventata da Umberto Bossi negli anni Novanta, aveva la casacca verde e, quindi, la recente mutazione cromatica degli azzurri potrebbe anche essere letta come un omaggio all’ascesa politica di Salvini e compagnia. Più di qualcuno ha tirato in ballo il “Rinascimento” dei bipedi nostrani qualificatisi in anticipo ai prossimi Europei grazie alla bravura del nuovo CT. Ora, cosa diavolo c’entri il colore verde col rinascimento lo sa solo dio, ma soprassediamo. Eleviamoci, per un attimo, dal piano del cazzeggio.
Se, dunque, torniamo seri dobbiamo interrogarci sulle ragioni recondite di questa scelta bizzarra. È davvero innocua come molta parte della stampa l’ha dipinta? Oppure, nella sua apparente irrilevanza, è un segnale dei tempi che verranno? Propendiamo per la seconda ipotesi. E per una serie di valide ragioni. Intanto, non si tratta della maglia della nazionale, ma della maglia della Puma. Quindi, parliamo di un’azienda (tedesca) e di un marchio cui due cose stanno senz’altro a cuore (come a tutte le multinazionali del mondo): macinare utili e favorire – anche con accurate operazioni di marketing – la maturazione di un contesto in cui macinare utili sia sempre più facile. Questo contesto, ormai lo abbiamo capito, si chiama globalizzazione; un unico globo senza frontiere dove le merci, i servizi, le persone, i capitali vanno e vengono, senza fissa dimora, spostandosi come globetrotter con una sola missione: far girare l’economia per aumentare la crescita.
Tuttavia, non è tanto la maglia verde a doverci preoccupare, quanto piuttosto l’enorme, e sospetto, clamore che l’ha accompagnata. Esso dimostra come il circo mediatico desideri convogliare la nostra attenzione su un mutamento da recepire come “rivoluzionario”. E lo è. Non tanto nel breve periodo: i nostri calciatori, già dal prossimo match, torneranno a vestire d’azzurro. Piuttosto, in una prospettiva di lunga gittata. L’Italia calcistica “verde” (oltre a essere in singolare sintonia con la sensibilità green oggi tanto di moda) preannuncia l’Italia politica e sociale che verrà. Un altro campanello d’allarme dovrebbe indirizzarci verso questa lettura: dalla maglia verde è scomparso il tradizionale scudetto tricolore, sostituito da un insignificante logo a tre bande verticali bianche e blu. Quindi, non è svanito solo l’azzurro identitario: è evaporata anche la nostra bandiera. Infine, andate a riguardarvi lo spot di presentazione. Testimonial: una ragazza albanese, una sudamericana, un giovane algerino, un marocchino e un senegalese. A operazione di marketing ultimata, sono spariti non solo l’Italia, ma anche gli italiani. Quindi, alla resa dei conti, del Belpaese che resterà? Un brand, un marchio. Il made in Italy è l’unica parte del pacchetto interessante per il mercato mondiale. Gli sportivi nazionali si adattino a diventare transnazionali. Tanto, a restare al verde, ci hanno addestrati con gli anni.
Francesco Carraro
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