Attualità
BCE E GERMANIA: UN MATRIMONIO CHE NON SOFFRE CRISI di Luigi Luccarini.
Questo grafico rappresenta l’andamento comparato, negli ultimi 12 mesi, del Dax, l’indice delle 30 principali aziende tedesche (e parliamo di veri colossi, da Adidas a Volkswagen) e del Bund, l’obbligazione di Stato della Germania.
E ci racconta una storia che credo meriti la vostra attenzione.
In primo luogo il fatto che l’investimento finanziario in Germania (ma anche in Europa) viene dirottato, da un anno a questa parte (ma anche più) verso l’impiego più liquido e più sicuro.
Comprare Bund è infatti come detenere moneta, il rating del debito sovrano della Germania è AAA (cioè il massimo) e il suo credit default swap, vale a dire lo strumento assicurativo con cui ci si cautela dal rischio di mancata restituzione alla scadenza misura un rischio di insolvenza dello 0,20%.
E perciò, come la moneta, non offre alcun rendimento come evidenzia questo prospetto relativo ai valori della chiusura del 15 marzo ’19
Ora, bisogna chiedersi per quale motivo un investitore decide di mettersi in portafoglio un titolo dal quale non ottiene nessuna remunerazione fino alla scadenza 9 anni (e 84 millesimi di Euro all’anno se si tratta del decennale).
La risposta può sembrare ovvia, dal momento che abbiamo visto dal grafico precedente che, a dispetto del rendimento negativo, il valore del Bund è aumentato – precisamente dell’1,78% nell’arco degli ultimi 12 mesi.
E, con i tempi che corrono, se uno vende sul mercato secondario l’obbligazione comperata 12 mesi prima, può anche spuntare un più che discreto guadagno.
Il fatto è però che a fronte di questo rivalutazione del Bund c’è il forte ribasso accusato dal complesso dei principali titoli azionari della stessa Germania, che il grafico misura in un rilevante -12% circa.
Nonostante buona parte di quei titoli offra un dividendo e quindi un’effettiva remunerazione, a differenza dell’obbligazione di Stato.
Si dirà: l’investimento in azioni è sempre a rischio di perdita di capitale, nel senso che il loro valore è soggetto ad oscillazioni che fanno si che il dividendo non sia poi il movente principale che orienta la scelta dell’investitore.
Ed il ragionamento è senz’altro vero.
Ma è anche vero che quando l’alternativa – cioè il Bund – offre un rendimento negativo e quindi una cedola pari a zero, la scelta non è se investire in questa o in azioni, ma ancora più radicale.
Se investire il proprio denaro oppure semplicemente “parcheggiarlo”
Ecco che quindi il grafico di prima ci fa capire cosa sta succedendo in Germania, da un anno a questa parte almeno.
L’economia da quelle parti si è completamente bloccata. Anzi va proprio in retromarcia.
E non c’è bisogno di far notare che ancora a febbraio, per il quinto mese consecutivo la produzione industriale tedesca ha fatto registrare una contrazione, pari allo 0,8% a fronte di aumenti segnalati in quasi tutti gli altri paesi dell’Eurozona (in Italia ad esempio, nel silenzio quasi generale dei media, dell’1,7%).
Non ce n’è bisogno, perché la crisi in Germania già si appalesa in termini finanziari, come abbiamo potuto rilevare dal fatto che l’investitore tedesco “parcheggia” il suo denaro, piuttosto che investirlo.
Si dirà: alla fine sono problemi della Germania, che al massimo possono incidere sui destini di altri paesi. in termini di contrazione dell’interscambio commerciale, se e nella misura in cui questi ultimi hanno rapporti diretti con la Germania.
Ed in effetti dovrebbe essere così. E, aggiungiamo, in una vera economia di mercato i problemi della Germania dovrebbero determinare, a rigore, un progressivo deflusso di capitali da quello Stato verso altre economie, più dinamiche, più redditizie in termini di prospettive di remunerazione del capitale investito.
Ad esempio verso l’Italia, dove un titolo di Stato decennale offre il 2,5% di rendimento. E dove le aziende quotate nel listino principale, il Ftse Mib, distribuiranno dividendi, a maggio, con percentuali quasi da capogiro (ad iniziare da quello di Intesa, ad oggi superiore al 9%) e presentano un P/E, vale a dire un rapporto tra prezzo ed utile, largamente inferiore a 20 – considerato in genere come il valore massimo per misurare la convenienza di un investimento in azioni piuttosto che in obbligazioni.
Insomma: se la Germania è in crisi e tutto lascia pensare che debba considerarsi davvvero in recessione, paesi come l’Italia potrebbero approfittarne; rilanciandosi, se non altro, come porto privilegiato per investimenti di natura finanziaria.
Invece sappiamo che non solo in quest’ultimo anno, ma da ormai lungo tempo si verifica il fenomeno inverso.
Che cioè il denaro circolante in gran parte dell’Eurozona continua a dirigersi verso la Germania, come testimoniato dai dati Target2 che misurano i trasferimenti di valuta attraverso il circuito interbancario.
E che l’impiego che ne viene fatto è per lo più orientato sul Bund, quindi in termini di “parcheggio” di liquidità, ponendo quindi gran parte del continente in un formidabile cul de sac.
Il perché ciò accada è poco studiato, o meglio negletto da buona parte degli accademici e della stampa economica.
Quasi tutti si limitano infatti a sostenere che si tratterebbe di un “flight to quality” cioè di uno spostamento di denaro da impieghi più a rischio, ancorché remunerativi (come potrebbe essere il BTP), ad altri che magari non ti regalano nulla, ma mettono al sicuro il tuo capitale.
In realtà si tratta di un meccanismo agevolato, se non proprio voluto dalla policy di BCE.
Grazie al fatto che il denaro utilizzato dalla Banca di Francoforte per l’acquisto di debito sovrano in manovre di QE viene impiegato in modo proporzionale alla quota azionaria di ciascuno Stato e quindi in gran parte per l’acquisto di Bund contribuendo ad accrescerne il valore.
Grazie al fatto che da tempo (precisamente dal 2015) si è deciso di rendere negativo dello 0,4% il deposit facility rate, cioè il tasso le banche dovrebbero ricevere sulla liquidità che a fine giornata parcheggiano nel conto che hanno presso BCE, che quindi si è convertito in una specie di “tassa” da versare a Francoforte. Con la conseguenza che a quel punto le banche preferiscono impiegare quella liquidità in Bund, piuttosto che corrispondere la gabella.
Infine grazie al fatto che le stesse banche, per avere in pancia attività da offrire come garanzie collaterali per i prestiti dalla Banca Centrale (ad esempio per l’accesso ai finanziamenti TLTRO) si riempiono di Bund, specialmente nei periodi, anche fisiologici, di tensione finanziaria, come potrebbe ancora essere considerato quello attuale.
Insomma, tutto ha congiurato perchè in Europa dalla fine del 2011, da quando cioè BCE ha deciso di intervenire, nel periodo più acuto della crisi del debito, con le prime operazioni di rifinanziamento a lungo termine (circa 1000 miliardi a beneficio delle banche commerciali) si assistesse ad un costante spostamento di capitali verso il mercato obbligazionario tedesco.
Il Bund decennale tedesco, che a novembre 2011 offriva una cedola del 2,5% è riuscito ad azzerarla progressivamente.
Ed è da quel momento che inizia ad agitarsi lo spettro dello “spread” soprattutto in termini mediatici.
Perché la cosa più sorprendente è notare come, fino alla fine del 2008, il rendimento di Bund e BTP era identico, nonostante il rapporto debito/PIL di Italia e Germania fosse: 102,4% il nostro e 65,2% quello tedesco.
Eppure, come vediamo dal grafico che segue, all’epoca non esisteva nessuno “spread” tra le emissioni dei due paesi.
Si dirà: nel 2011 sono successe cose importanti che hanno in qualche modo contribuito a far divaricare la curva dei rendimenti. Il rischio di default della Grecia, il rischio dettato dall’enorme debito dell’Italia, le finanze allegre dei PIGS in rapporto alle politiche virtuose dei pesi nordici e i tanti bla, bla, bla assortiti che ascoltiamo ogni giorno.
Nulla di tutto questo, in realtà.
Se il tasso di crescita del debito pubblico italiano fosse stato veramente la causa di tutto ciò non potremmo certo proporvi un grafico come questo
dal quale – e per molti sarà una sorpresa – si evince che fino a quel 2011 l’incremento del rapporto Debt/GDP dell’Italia, quantunque in progressivo aumento, era più contenuto rispetto a quello della Germania e che è proprio dal momento in cui BCE inizia la sua politica monetaria nota come quella del “whatever it takes” di Draghi che i destini dei due paesi iniziano a dividersi.
Con i Titoli di Stato tedeschi che ottengono un costante apprezzamento di valore e conseguente crollo dei rendimenti, con indubbi benefici per il costo della spesa per interessi che lo Stato tedesco deve sopportare.
Mentre il contrario invece avviene per l’Italia, costretta a generare costanti avanzi primari di cassa e destinarli interamente alla spesa di gestione del debito, senza peraltro mai arrivare ad azzerarla.
Le Agenzie di rating poi fanno il resto, iniziando a declassare il debito italiano proprio in virtù dello “spread” con i Bund che si viene a realizzare da quel momento.
E l’Italia entra nella spirale negativa, anche in termini di crescita, che ben conosciamo.
Eppure basta leggere attraverso numeri e grafici cosa è realmente accaduto in questi ultimi 8 anni per capire che il principale merito della Germana non è stato quello di promuovere un sistema produttivo e di spesa pubblica più efficiente rispetto ad altri, ma semplicemente aver saputo orientare a proprio favore la politica monetaria di una Banca Centrale che ha sede a Francoforte. E grazie a quella disporre di una liquidità che altrimenti, distribuendosi su altre economie, avrebbe potuto comportare una loro maggiore dinamicità, a scapito di quella tedesca.
E ancora oggi che la fragilità dell’economia tedesca si sta mostrando in tutta la sua evidenza, quello che BCE cerca di evitare è che questa dinamicità si sprigioni.
In fondo la reazione che i mercati hanno fatto registrare dopo l’ultimo board di Francoforte e le parole di Draghi è significativa: i nuovi TLTRO non saranno altro che un tentativo di far nuovamente affluire denaro verso il Bund, impoverendo gli altri asset ed impedendo così che i paesi che ne sono detentori possano affrancarsi dal giogo di questo Reich finanziario, almeno fino a quando la Germania non sarà in grado di uscire dalla crisi e promuovere una sua rinnovata leadership.
Nel frattempo avremo però tanto tempo libero da poter dedicare alla Greta Thumberg di turno.
@luigiluccarini
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