Attualità
Walter Lippmann e lo stereotipo: Il mondo esterno e le immagini nelle nostre menti
Il punto di partenza per la nostra inchiesta sulla immaginazione sociologica è la teoria dello stereotipo di Walter Lippmann. Questa ci introduce nel pensiero riguardo alla percezione e a ciò che influenza e conforma questo processo. Nello specifico come ciò in cui crediamo essere un “autentico messaggero” è in realtà in grado di creare ciò che Lippmann chiamava una “pseudo-realtà”.
In seguito andremo a delineare la teoria di Lippmann, brevemente menzionata nell’opera di Harold Lasswell sulla psicologia sociale, che è diventata la base per comprendere la propaganda dagli anni 1920 in poi e che introduce l’idea di C. Wright Mill dell’Apparato Culturale. […]
La teoria dello stereotipo
Agli inizi del ventesimo secolo, la gente, probabilmente influenzata dall’invenzione della radio, rimase affascinata dalle sedute spiritiche e dai medium. Le persone erano presumibilmente intrigate e confermate dall’idea che fossero state prodotto delle prove fotografiche dell’”ectoplasma”, la materia di cui ritenevano fossero fatti i fantasmi.
Le sedute spiritiche ed i medium sono spesso state presentate come delle truffe, ma la gente ha continuato a prendervi parte. Oggi potremmo trovare insolito che la gente ci abbia creduto, ma cosa succederebbe se questa sorta di illusione ingannevole avvenisse su una scala più ampia? Come possiamo capire come funziona e come è stato studiato?
Nel 1938 la drammatizzazione radiofonica di Orson Welles “La Guerra dei Mondi” di H.G. Wells fu presa così seriamente in considerazione dalla popolazione americana che, secondo quanto riferito, causò una isteria di massa.
Dei 6 milioni di radiospettatori stimati ben il 28% pensava che fosse qualcosa di reale. Ci sono prove che un esperto di guerra psicologica, Hadley Cantril, assunse Welles per studiare il comportamento dei cittadini in condizioni di panico.[1]
Lo studio di Cantril della psicologia del panico «L’invasione da Marte» mostrò che la mancanza di capacità critica portava la gente ad avere paura: la gente non fece nulla per verificare ciò che la radio stava dicendo, poiché ne avevano fiducia come un “autentico messaggero” (Cantril, 1940).
Il libro di Walter Lippmann Opinione Pubblica (1921) inizia il capitolo che introduce il concetto di “stereotipo” con:“Il mondo esterno e le immagini nelle nostre menti”.
Questi spiega come l’opinione pubblica viene formata e manipolata tramite ciò di cui ci fidiamo e che riteniamo essere un “autentico messaggero”.
Lippmann aveva lavorato con il CREEL, il Comitato che influenzava l’opinione pubblica censurando le informazioni contrarie alla guerra e producendo migliaia di opuscoli, vignette, riviste e film in favore di una partecipazione degli USA alla [prima] guerra mondiale nel 1917, dopo che era stato affermato che non lo si sarebbe fatto.
Lippmann cercò di spiegare come le immagini che sorgono spontaneamente nelle menti delle persone diventino una semplificazione della sua teoria secondo la quale noi viviamo in mondi di seconda mano, poiché abbiamo consapevolezza su molto più di quanto abbiamo personalmente sperimentato: la nostra esperienza è principalmente indiretta. Lippmann riteneva che l’unica sensazione che chiunque possa avere di un evento di cui non ha avuto esperienza è la sensazione suscitata dalla sua immagine mentale di quell’evento.
L’esempio riportato era la storia di una ragazza che era entrata in “un parossismo di dolore” quando una raffica di vento aveva rotto il vetro di una finestra. Le sue azioni erano incomprensibili per gli altri, ma per lei se si rompeva un vetro significava che un parente stretto doveva essere morto. Il vetro rotto era un “autentico messaggero” per la ragazza. Essa aveva: “una finzione completa e allucinata proveniente da un fatto esterno e da una superstizione ricordata” (Lippmann, 1922: 4). Ovvero: anche se possiamo vedere questa irrazionalità negli altri, tutti noi siamo coinvolti in questo processo. Qualunque cosa possa accadere, diamo la nostra fiducia a ciò che abbiamo giudicato essere un “autentico messaggero” e diamo il nostro assenso ad esso. La linea di pensiero di Lippmann è spesso ritenuta come psicologica, ma è più legata a un approccio fenomenologico, a mio modo di vedere.
Quando guardò a questo processo in modo più generale, Lippmann scoprì che il fattore comune era l’inserimento tra gli umani e il loro ambiente di uno pseudo-ambiente. Il nostro comportamento è una risposta a questo pseudo-ambiente ma poiché è un comportamento, le conseguenze, se sono delle azioni, non operano nello pseudo-ambiente che ha stimolato il comportamento, ma nell’ambiente reale in cui l’azione conseguente si attua (Lippmann, 1922: 4). Se mettiamo tutto questo in una rappresentazione logica, allora possiamo dire che la natura ciclica delinea un processo stereotipato che sta alla base di come si formano le nostre opinioni.
Lo possiamo comprendere un po’ meglio se identifichiamo il programma radiofonico di Orson Welles nello pseudo-ambiente e vediamo nell’isteria di chi lo prendeva sul serio la risposta nel comportamento nella vita reale, con le possibili conseguenze concrete, ad esempio, nel ferimento di qualche persona.
Possiamo anche porre questa riflessione accanto a idee di pensatori antichi come Zenone di Elea (V secolo a.C.) che offrì una delle prime spiegazioni di come percepiamo la realtà usando le analogie:
Impressioni—una mano aperta
Assenso—una mano chiusa
Convinzione—un pugno chiuso
Conoscenza—l’altra mano che afferra il pugno
Zenone influenzò i pensatori illuministi del diciottesimo secolo come John Locke, George Berkeley ed Étienne Condillac, i quali iniziarono a credere che la percezione fosse il risultato dell’abitudine e non l’evidenza immediata dei sensi. Sentivano anche che il ricordo era una biblioteca di percezioni precedenti e che la riflessione (il pensiero) era un confronto automatico con queste percezioni precedenti.
Di conseguenza la sensazione, dopo essere stata attenzione, confronto e giudizio, diventa poi la riflessione stessa (il pensiero), con la mente che non si riesce ad avvicinarsi alla verità oggettiva dei fatti (Hampson, 1968: 113).
Se torniamo alla teoria di Lippmann, egli usava il termine finzioni (fictions) per significare le rappresentazioni dell’ambiente che, in misura minore o maggiore, creiamo da noi stessi. Queste spaziano dalla completa allucinazione all’utilizzo autocosciente di un modello schematico da parte di uno scienziato.
L’alternativa all’uso quotidiano delle nostre finzioni sarebbe l’esposizione diretta al flusso e al riflusso delle sensazioni: la nostra mano sarebbe per sempre aperta nel senso di Zenone. L’ambiente reale è troppo grande, troppo complesso e troppo fugace per l’esperienza diretta, ma dobbiamo dare il nostro assenso a qualcosa. Quindi, anche se dobbiamo agire nell’ambiente, dobbiamo ricostruirlo su un modello più semplice prima di poterlo affrontare. Questo modello più semplice è lo stereotipo di cui siamo diventati convinti, come il pugno di Zenone. Nel concetto di Lippmann di pseudo-ambiente, esso è un composto ibrido di condizioni naturali e umane.
Il libro di Lippmann tratta su come si forma e si adatta l’opinione pubblica di massa e su come l’analisi dei processi governativi della politica dovrebbe cercare di comprendere la complessità di ciò che studiano. La sua argomentazione è che ciò che facciamo non si basa sulla conoscenza diretta e certa (la mano di Zenone che afferra l’altra mano), ma su immagini create da noi stessi o date a noi. Egli estende anche percettivamente la sua teoria al nostro mondo interiore, dicendo che proprio il fatto che lo teorizziamo è la prova che i nostri pseudo-ambienti, le nostre rappresentazioni interiori del mondo, sono un elemento determinante nel pensiero, nel sentimento e nell’azione (Lippmann, 1922: 7).
Lippmann (1922: 8) sosteneva che il mondo che dobbiamo affrontare a livello politico è fuori dalla portata, lontano dalla vista e fuori dalla mente, perché deve essere esplorato, riportato e immaginato da altri: immagini all’interno delle menti di questi altri, che vengono in seguito interpretate da gruppi di persone o da individui che agiscono in nome di altri gruppi, le quali diventano Opinione Pubblica.
Egli riteneva che i fattori principali che limitano il nostro accesso ai fatti reali, anche prima che si sia tentato di manipolarli, presentano questi punti deboli:
(a) Censura artificiale.
(b) Le limitazioni del contatto sociale.
(c) Il tempo relativamente breve disponibile ogni giorno per prestare attenzione agli affari pubblici.
(d) La distorsione dovuta al fatto che gli eventi devono essere compressi in messaggi molto brevi.
(e) La difficoltà di creare un piccolo vocabolario per esprimere un mondo complicato.
(f) Il timore di affrontare quei fatti che sembrerebbero minacciare la routine consolidata delle nostre vite. Questo flusso di messaggi dal mondo esterno è influenzato dalle nostre immagini memorizzate, dai nostri ricordi. Questi includono pre-concetti e pre-giudizi che interpretano e compilano i messaggi per indirizzare la gestione della nostra attenzione e la nostra visione stessa. Nell’individuo questi messaggi sono limitati dalla forma esterna in un modello di stereotipi, che sono identificati con i nostri interessi, come li sentiamo e li concepiamo. Prese insieme queste opinioni sono cristallizzate in ciò che Lippmann chiamava Opinione pubblica: ciò che riguarda una volontà nazionale, una mente di gruppo orientata verso uno scopo sociale. Quindi le cose che prendiamo come realtà sociale sono un altro livello del processo di stereotipizzazione: i sistemi di stereotipi possono essere il nucleo della nostra tradizione personale, le difese della nostra posizione nella società. In modo controverso, la conclusione politica che Lippmann trae dal suo studio è che un governo eletto non può operare con successo, a prescindere dalle modalità di elezione, senza che vi sia un’organizzazione indipendente e competente per rendere comprensibili i fatti invisibili a coloro che devono prendere le decisioni [2]. Lippmann conclude che le opinioni pubbliche devono essere organizzate per i media, se devono essere sane, non dai media, come spesso accade oggi. Questo tipo di organizzazione era l’obiettivo di politologi come formulatori in anticipo di una decisione reale, al contrario di favorevoli, critici o reporter che intervengono dopo che la decisione è stata presa. [3] Se torniamo alla propaganda, Lasswell (1971: xv) spiega che un propagandista non lavora solo con la paura dell’ignoto. Identifica un potenziale serbatoio di malcontento o una aspirazione. Quindi cerca i modi per scaricare questo malcontento e per raccogliere le aspirazioni in modo che si armonizzino con gli obiettivi politici che il propagandista persegue.
I mezzi disponibili per mobilitare l’azione collettiva dipendono da parole e simboli il cui significato è già ristretto dai limiti (i “modelli pre-disposizionali”) presenti nell’arena politica, i quali influenzano ciò che può essere fatto.
Questi sono descritti come:
Strutture di valore: chi è l’élite, la sotto-élite o il rango in termini di potere, di ricchezza e di altri risultati preferiti.Miti: dottrine, formule e ciò che deve essere ammirato nell’immaginazione popolare.Tecniche: distribuzione di routine operative che influenzano il comportamento e l’ambiente delle risorse.Materiali culturali: risorse prime, risorse lavorate nell’ambiente. Lasswell definisce un ciclo simile a quello di Lippmann, in cui il pubblico è limitato nelle informazioni che gli vengono presentate. Potrebbero essere riluttanti ad accettarlo, ma è pur sempre quell’informazione che influenza le loro decisioni all’interno del sistema democratico e comunque quella informazione che viene loro presentata dal governo. Sia le idee di Lasswell che quelle di Lippmann hanno influenzato l’idea di C. Wright Mills sull‘Apparato Culturale che ha esteso questo processo alla sua più ampia dimensione sociale. Per Mills la coscienza non determina la nostra esistenza materiale, né la nostra esistenza materiale determina la nostra coscienza. Fra le due ci sono i significati, le forme e le comunicazioni che altri ci hanno trasmesso, in primo luogo, nello stesso linguaggio umano e, in seguito, nella gestione dei simboli (Mills, 1959: 405-406).
L’Apparato Culturale era il termine collettivo di Mills per ogni cosa che fornisce simboli per focalizzare l’esperienza e i significati, per organizzare la conoscenza, per guidare le nostre percezioni superficiali. Mills pensava che la maggior parte di ciò che chiamiamo “fatto sicuro” o interpretazione di quello che sentiamo dire dipendesse sempre più da questo apparato culturale composto da articoli di opinione, centri di interpretazione, depositi di rappresentazione. Intende tutte le organizzazioni e gli ambienti in cui si svolge il lavoro artistico, intellettuale e scientifico, compresi quelli attraverso i quali l’intrattenimento e le informazioni vengono prodotti e distribuiti. Queste interpretazioni ricevute e manipolate influenzano in modo decisivo la coscienza che abbiamo della nostra esistenza, fornendo gli indizi su ciò che vediamo, su come dovremmo rispondere e sentirci e su come rispondere a tali sentimenti.
Mills era particolarmente preoccupato che una società sempre più “di massa” fosse diretta da una piccola élite.
[…]
[1] Cantril fu il fondatore del Princeton Listening Center, che si evolse poi nell’organizzazione finanziata dalla CIA, il Foreign Broadcast Information Service (servizio di informazione sulle trasmissioni straniere). Il suo lavoo di elaborazione del concetto di stereotipo di Lippmann e la sua carriera fu strettamente legata all’intelligence americana ed alle operazioni psicologiche clandestine: almeno a partire dalla fine degli anni 1930. Questo incudeva l’uso di sondaggi sull’opinione pubblica interna e questioni di politica interna.
Pose le caratteristiche demografiche degli USA su di uno spettro ideologico che aveva escogitato come parte della Guerra Fredda che immaginava una cospirazione comunista mondiale.
[2] Lippmann (1922) affermò di aver trovato una “finzione” intollerabile e impraticabile per la quale ognuno di noi doveva acquisire un’opinione competente su tutti gli affari pubblici. Ha detto che il problema della stampa (ora diremmo media) è confuso perché sia i critici che i sostenitori si aspettano che la stampa realizzi questa finzione, e per essa compensare tutto ciò che non era stato previsto nella teoria della democrazia e che i lettori si aspettavano che questo “miracolo” si realizzasse senza alcun costo o turbamenti per a se stessi. Pensava che i giornali non fossero rimedi per questi difetti e che l’analisi della natura delle notizie e delle basi economiche del giornalismo indicava che i giornali riflettono, e in misura maggiore o minore intensificata, l’organizzazione difettosa dell’opinione pubblica.
[3] John Dewey rispose all’idea di Lippmann dell’adattamento delle immagini nelle nostre menti al mondo esterno con l’idea che la comunicazione fosse un atto culturale collaborativo, ciò che ora sarebbe considerato una posizione costruttivista sociale, con una produzione e un’interpretazione creativa delle parole e simboli.
Tratto e traduzione di Davide Gionco da :
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