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VIRUS ECONOMY (di Ilaria Bifarini)

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Soltanto una crisi – reale o percepita- produce vero cambiamento… il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile”: è la celebre affermazione di Milton Friedman che racchiude la logica della shock therapy,  al cuore della politiche di intervento neoliberiste.
Ci sono cambiamenti così radicali e destabilizzanti che per essere imposti alla società, senza che questa opponga resistenza, devono essere introdotti con immediatezza e tempestività: una situazione di forte crisi e disagio da parte della popolazione rappresenta la soluzione ideale perché vengano accettati.
Dal colpo di stato di Pinochet in Cile nel ’73, dove le redini economiche del Paese vennero immediatamente prese dai Chicago boys e dal loro maestro, Milton Friedman in persona, fino alla ricostruzione post tsunami in Thailandia, affidata ai grandi investitori internazionali, alla privatizzazioni selvagge nelle cosiddette Tigri asiatiche durante la crisi finanziaria del 1997-1998, passando per le riforme repentine e drastiche imposte alla Russia post sovietica: sono infiniti gli esempi di questa metodologia di governo, come ci racconta la scrittrice canadese Naomi Klein nel suo Shock Economy. Se questi casi così emblematici sono circoscritti su scala territoriale, oggi stiamo assistendo all’incredibile e inedita applicazione del metodo friedmaniano su scala planetaria. Lo stato di panico diffuso tra la popolazione mondiale per un virus sconosciuto proveniente dalla Cina, sebbene non così pericoloso e letale come le grandi pestilenze del passato, ha creato quell’humus ideale per introdurre cambiamenti sostanziali, che altrimenti troverebbero una radicata e inevitabile resistenza.

La rinuncia ai diritti fondamentali

Forse senza precedenti nella storia dell’umanità, o quantomeno nella nostra memoria, abbiamo abdicato ai diritti considerati finora inalienabile per l’umanità, come quello alla mobilità e a esercitare il proprio lavoro; addirittura si è rinunciato ad assistere i propri cari nel momento del trapasso, alla loro commemorazione funebre, da sempre segno distintivo della spiritualità umana. In una situazione di tale accondiscendenza verso ogni imposizione liberticida che promettesse l’incolumità dal minaccioso virus, ogni novità introdotta sul piano tecnologico e di organizzazione lavorativa è passata in secondo piano, se non accolta con entusiasmo. Anche l’homo consumens ha accettato il cambiamento imposto al plusgodimento, apparentemente sospeso ma di fatto in cerca di una nuova conformazione.

Se durante il confinamento sono crollati i consumi tradizionali, ad eccezione della grande distribuzione alimentare, con una perdita incommensurabile per i settori dell’abbigliamento, della ristorazione, dell’attività sportiva, del turismo e di tutte quei comparti legati alle relazioni umane reali, a crescere è stato il già fiorente settore dell’e-commerce, della tecnologia e della farmaceutica.
Oltre ai tanti commercianti e liberi professionisti che hanno riportato perdite irrecuperabili alle proprie attività, alcune delle quali non riusciranno più a riaprire, ci sono infatti i grandi vincitori di questa crisi. Si tratta dei giganti dell’economia, la cui capitalizzazione raggiunge cifre pari a quelle dei Pil di interi Stati. A riportare maggiori utile sono, in ordine, oltre al solito Amazon (che per ora continua a tener testa al concorrente cinese AliBaba), la Microsoft, che in un solo giorno ha visto triplicare gli utenti della sua app di videochiamate Teams, e Tesla, altro gigante tecnologico. Hanno fatto affari d’oro anche la piattaforma di comunicazione Zoom Video e la cinese Tencent, attiva nel comparto delle chat e dei giochi online, che durante il lockdown hanno tenuto impegnati centinaia di milioni di giovani e non.

A vincere è stata l’economia digitale a scapito di quella reale e, come sempre nel sistema neoliberista, i giganti a scapito dei piccoli, i più ricchi a scapito dei più poveri, con un ulteriore acuirsi di una già insostenibile disuguaglianza.
Intanto, per sopravvivere le aziende che hanno potuto hanno dirottato la produzione verso il suo nuovo business: perché non siamo passati a un’economia green e ascetica, ma abbiamo solo dirottato i consumi. Così le imprese del tessile si sono riciclate nella produzione di mascherine e tute mediche, mentre la cosmetica ha virato verso i gel disinfettanti. E ancora, ventilatori polmonari, caschi, barriere in plexiglass, nuovi banchi scolastici… L’iperconsumo dannoso per l’ambiente non si è certo fermato, anzi, ha persino registrato un’impennata, se pensiamo solo ai milioni, milardi di mascherine monouso che vengono utilizzate ogni giorno.

Smart working

Dal lavoro in ufficio si è passati al cosiddetto smart working (anche se in realtà si tratta di home working), da tanto tempo decantato e sempre difficile da applicare. Una soluzione sotto molti punti di vista ottimizzante, che permette al lavoratore di guadagnare tempo perso negli spostamenti, da poter dedicare ai propri hobby e alla famiglia, e al datore di lavoro di risparmiare sui costi dell’immobile, sull’erogazione dei buoni pasti e degli straordinari. Un circolo apparentemente virtuoso, ma a ben guardare nasconde numerosi rischi. Da quello sempre più incombente di bolla immobiliare, dovuta alla possibilità per il lavoratore di spostarsi fuori dalle aree urbane, all’ingente perdita di fatturato, con rischio licenziamenti e chiusura, del settore della ristorazione legato agli uffici.

Se da un punto di vista meramente economico si è creata una scossa destabilizzatrice, che necessiterebbe di un accurato piano di riorganizzazione e di un processo di accompagnamento, sostenuto da investimenti produttivi e capaci di generare lavoro, sul piano umano la rottura è ancora più insanabile.

Può l’uomo, animale sociale per antonomasia, rinunciare alle relazioni lavorative (anche se non sempre idilliache, per una serie di fattori, spesso di natura organizzativa e malagestione dirigenziale)  che lo inseriscono in una rete, una comunità con più attori? Cosa ne è del confronto e della generazione di nuove idee? Chi vive in situazioni di isolamento sarà privato dell’unico contatto umano? E le famiglie che sono costrette a dividere uno spazio domestico limitato e una rotazione degli strumenti lavorativi, aggravato dalla didattica a distanza?

La risposta a queste interrogativi dipende da quanto la crisi, reale e percepita, durerà ancora.


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