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Crisi

LE TEORIE PER USCIRE DALLA CRISI

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Si fa un gran parlare di ripresa economica e ci si chiede quale sarebbe lo strumento per ottenere questo bel risultato. Le proposte sono diverse. Alcuni sono partigiani  di un intervento più risoluto dello Stato il quale, anche contraendo debiti, potrebbe rilanciare la produzione ed abbattere la disoccupazione con massicci investimenti. Altri invocano tagli di spesa ed una forte riduzione della tassazione. Una cosa è certa: se ci fosse una ricetta sicura, la discussione cesserebbe. E dal momento che si è nel campo delle ipotesi anche il profano può dire la sua.

Il semplice fatto che gli economisti si pongano il problema del “che fare” implica che esista qualcuno che può “fare”. E naturalmente si parla dello Stato. Nessun altro organismo possiede gli strumenti coercitivi e le risorse per influire significativamente sull’economia di una nazione. L’Amministrazione tuttavia non ha una grande capacità imprenditoriale. Non sa produrre ricchezza con risultati economici apprezzabili, e lo si è visto dovunque si sia tentato di applicare il capitalismo di Stato. Tanto che nessuno oggi osa proporre questa soluzione.

Lo Stato non opera positivamente ma per sottrazione. Non può far concorrenza alle imprese, può soltanto favorire una produzione in confronto ad un’altra, in quanto imponga alla prima tasse e pesi minori che alla seconda. Gli strumenti dello Stato sono le leggi e il fisco, e questi non “producono”, si limitano ad indirizzare, usando la “forza coercitiva”.

Uno Stato può tassare molto e intervenire molto, o tassare poco e intervenire poco. Il vero discrimine, al di là delle sapienti teorie, è il quantum dell’azione statale, e per conseguenza il quantum di pressione fiscale. In questo campo è questione di fede. Chi pensa che lo Stato compia interventi benefici non sarà mai convinto da chi afferma che lo Stato è una sanguisuga, e chi pensa che lo Stato sia una sanguisuga non sarà mai convinto da chi afferma che esso sia benefico. È tanto inutile discutere con un nostalgico del comunismo quanto discutere con un nostalgico del capitalismo ottocentesco.

E tuttavia si può porre un problema a monte: il prelievo fiscale crea ricchezza o ne distrugge? Va innanzi tutto scartata l’ipotesi che lo Stato prelevi cento e distribuisca cento: infatti ci sono i costi del prelievo e della distribuzione. Anche se lo Stato prelevasse poco, e i suoi funzionari fossero altissimamente produttivi, il saldo sarebbe comunque aritmeticamente negativo. Inoltre è stupido sognare che lo Stato non prelevi nulla: si ha pure bisogno dell’esercito, della polizia, della scuola, delle strade, delle mille cose che i privati esigono ma non possono procurarsi da sé. Dunque la scelta è fra il prelievo “assolutamente necessario” (bassa pressione fiscale), e il prelievo “per attività non assolutamente necessarie” (alta pressione fiscale). Col limite finale dello Stato (sovietico) che, salvo eccezioni, si riserva tutte le attività.

La distinzione non è costante nel tempo. Quando non esistevano le automobili, le ferrovie facevano parte delle spese necessarie: i cittadini infatti non avevano altro modo per spostarsi sul territorio. Ma oggi sono ancora necessarie? Un Paese che continua a gestire ferrovie tenendo basse le tariffe opera antieconomicamente. Lo Stato è notoriamente un pessimo imprenditore – anche perché servito da impiegati e salariati che, mancando l’interesse personale e il controllo del “padrone”, battono fiacca – e dunque la ricchezza che distribuisce è solo una frazione di quella prelevata per produrla. Nel bilancio generale provoca dunque una distruzione di ricchezza. Si invochino pure le soluzioni stataliste, purché si confessi che le si vogliono per motivi morali e non economici. Un biglietto del treno che copre per metà o meno il costo del servizio (il quale servizio a sua volta è inefficiente) è un assurdo economico. Potrebbe essere un sussidio in favore dei più poveri, ma alla comunità costerebbe di meno versare la metà del costo di quel biglietto ad una compagnia di trasporti privata, che almeno opererebbe in modo economico ed in regime di concorrenza.

Il discrimine macroeconomico, nell’attuale crisi come nella normale vita del Continente, è l’alto o basso intervento dello Stato. E poiché da questo intervento dipende l’alta o bassa pressione fiscale, le grandi teorie non importano. Si tratta soltanto di decidere se si vuole che i cittadini siano liberi e responsabili di sé o se devono essere sotto la tutela di uno Stato che si occupa di tutto, sprecando involontariamente, ma inevitabilmente, ricchezza.

Gianni Pardo, pardo.ilcannocchiale.it

18 luglio 2014


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