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Crisi

Sapir: un Confronto tra la Francia e il Giappone (Hollande ha poco da ridere)

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Guest post di Voci dall’estero

 

Nel suo ultimo post, Sapir mette a confronto l’economia Giapponese e quella Francese. Mentre il Giappone, scontato il “decennio perduto”, ha cambiato marcia anche grazie a una svalutazione che ha poi permesso riforme successive, la Francia sembra invece avviata ad entrare in deflazione, con l’aggravio dell’assenza di sovranità monetaria.

 

[…]

La visita a Parigi del 6 maggio del primo ministro Giapponese, il signor Shinzo Abe, è stata l’occasione per fare un interessante confronto tra la strategia usata dalle autorità giapponesi e quella usata dalle autorità francesi per affrontare la crisi. Infatti, i problemi affrontati dai due paesi sono in parte paragonabili. Certo, lo sono solo in parte. Sottolineiamo subito le differenze per evitare facili critiche: il Giappone deve affrontare oggi una crisi energetica dovuta all’incidente nucleare di Fukushima. Questo drammatico incidente, aggravato dalla disastrosa gestione da parte della società privata di fornitura dell’elettricità responsabile della centrale, è oggi uno dei problemi principali del Giappone. Questo bisogno di energia da centrali fossili, a causa della fermata delle altre centrali, spiega in larga misura i problemi economici del paese. Anche la struttura economica e industriale del Giappone è  molto diversa da quella francese. Il Giappone fa molta più concorrenza alla Germania per il suo posizionamento industriale. Ma ci sono comunque sorprendenti analogie.La prima è che il Giappone ha attraversato per anni una situazione di deflazione, in seguito ad una crisi finanziaria e immobiliare che è stata mal gestita e che è abbastanza simile a quella che sta arrivando nell’eurozona e in Francia. Uno dei temi ricorrenti nei discorsi degli specialisti sulla situazione dell’eurozona è il confronto con il ‘decennio perduto’ del Giappone. La seconda è la necessità di riforme strutturali, argomento su cui aveva inciampato proprio il governo precedente.

Quella che noi chiamiamo l’«Abenomics»…
La soluzione scelta dal signor Abe è stata per molti aspetti radicale. E’ consistita in un significativo deprezzamento della valuta giapponese rispetto al dollaro per recuperare competitività e uscire dal circolo vizioso della deflazione. A questo scopo, la Banca del Giappone ha emesso grandi quantità di moneta. Questa svalutazione è stata accompagnata da una politica fiscale relativamente aggressiva. Poi, in un secondo tempo, ha aumentato le tasse (l’IVA) per riequilibrare i conti, facendo contemporaneamente pressioni sui grandi gruppi industriali giapponesi perché aumentassero i salari e il potere d’acquisto dei consumatori giapponesi. C’è una sequenza logica.
Infatti, l’iniziale deprezzamento della valuta è stato pensato per aumentare i margini di guadagno dei principali gruppi e dell’industria in generale; in seguito, la politica perseguita dal governo ha cercato di forzare questi gruppi a condividere i guadagni con i lavoratori (aumenti salariali) e con lo stato (tasse più alte). È interessante notare che è un uomo politico collocato politicamente a destra nello scenario giapponese che ha posto il problema della distribuzione del reddito e della quota di valore aggiunto in (relativo) favore dei dipendenti, come pietra angolare di una politica di uscita della crisi. Da questo punto di vista, la svalutazione della moneta ha ben rappresentato la condizione necessaria per attuare una politica di riforme.
Questa svalutazione iniziale è stata dell’ordine del 30%, di cui quasi il 20% in poco più di 4 settimane. Essa ha dato in parte i risultati sperati e in particolare la crescita è ripartita, i margini di profitto delle aziende sono aumentati moltissimo, le aziende giapponesi hanno migliorato la loro situazione rispetto alle aziende estere, e c’è stata un po’ di inflazione. Rimane da vedere se il resto del programma avrà successo. È chiaro che alcuni fattori esterni, e in particolare le conseguenze economiche e finanziarie di Fukushima, pesano sull’economia giapponese. La necessità di energia importata, derivante dalla chiusura delle centrali nucleari, ha deteriorato la bilancia commerciale del Giappone, ma questo non è un problema a breve termine per il governo, perché esso vuole che il tasso di cambio dello Yen resti debole rispetto alle altre valute. Il debito, che è in maggioranza nelle mani della popolazione giapponese, è sotto controllo e si può prevedere un inizio di movimento al ribasso del rapporto debito/PIL, sia a causa della riduzione del deficit, sia a causa del ritorno dell’inflazione. Ma l’incognita è ancora l’andamento dei salari. E’ necessario tirare le orecchie ai principali gruppi giapponesi perché questi concedano gli aumenti salariali previsti dal governo.
Una svalutazione come chiave del cambiamento.
Il bilancio quindi per alcuni aspetti può essere moderato, ma per motivi in gran parte non imputabili al governo giapponese. Tuttavia in generale è positivo. Certamente, la svalutazione della moneta non ha risolto TUTTI i problemi; ma questo è sempre stato fuori questione. D’altra parte, questa svalutazione ha fatto passare l’economia giapponese da una logica di deflazione a una logica di crescita, e – soprattutto – rende possibili quelle riforme strutturali che in un altro contesto sarebbero state assolutamente impossibili. È questa la lezione che dovrebbe imparare il governo francese, se agisse con logica. Infatti, la situazione della Francia rispetto a una possibile svalutazione della moneta (che implicherebbe di fatto l’uscita dall’euro) è in realtà un po’ migliore di quella del Giappone. Le esportazioni francesi sono infatti molto sensibili a un ribasso dei prezzi (la cosiddetta “elasticità di prezzo”). Inoltre, la Francia è molto meno dipendente dalla fonti esterne di energia rispetto al Giappone. Ancora, l’impatto di una svalutazione della moneta del 20%  in realtà avrebbe degli effetti positivi sulla crescita e sull’occupazione (come è stato riconosciuto dal Ministero delle Finanze) più importanti che in Giappone. Un calo della disoccupazione, oltre alla sua importanza dal punto di vista psicologico, significherebbe anche una diminuzione della spesa sociale. Il guadagno fiscale, a pressione fiscale invariata, sarebbe almeno equivalente all’1,5% del PIL, o anche al 2%, all’anno. Se facessimo come i giapponesi, potremmo aspettarci ulteriori entrate per circa 110 – 120 miliardi di euro entro la primavera del 2017. Ciò va confrontato con il piano economico presentato dal signor Valls, che prevede 50 miliardi nello stesso periodo… È quindi chiaro che l’obiettivo della riduzione del disavanzo sarebbe molto più credibile. L’aumento dell’inflazione, stimato del 4-5% nell’anno successivo alla svalutazione della moneta, avrebbe effetti benefici sui tassi di interesse reali. Ricordiamo che i tassi di interesse reali negativi sono stati una delle condizioni per i forti investimenti realizzati in Francia nel periodo 1945-1975. Ci siamo infatti dimenticati che se i tassi di interesse nominali sono effettivamente diminuiti dal 2012, i tassi di interesse reali sono rimasti costanti e tendono persino ad aumentare a causa del forte calo del tasso di inflazione.
I prerequisiti delle riforme strutturali.
Ma, soprattutto, arrivando a una crescita più forte e a un’inflazione leggermente più elevata, la Francia ritroverebbe i margini di manovra per le riforme strutturali. Che queste siano necessarie non è in dubbio, anche se si possono avere opinioni differenti riguardo alla natura delle riforme da realizzare in via prioritaria. Ciò che è evidente è che se nel 2014 e nel 2015 la crescita rimarrà debole  (è prevista al 0,9%, ma in realtà è molto probabile che sarà dello 0,6%)  saranno ancora più difficili da realizzare. Infatti, il governo francese dovrebbe anche esaminare il caso del Canada o della Svezia, due paesi che hanno fatto con successo ambiziose riforme strutturali. In entrambi i casi, il presupposto per questa politica è stato il forte deprezzamento della valuta nazionale. Il fatto che questi paesi abbiano conservato la loro sovranità monetaria è stato determinante per la capacità di attuare le riforme e soprattutto per la loro accettazione da parte della popolazione.
Vediamo quindi dove sta il problema principale. La fede nell’Euro, l’attaccamento nevrotico che unisce le élite francesi alla moneta unica, impedisce qualsiasi flessibilità e condanna l’economia francese a una lenta asfissia. E’ assolutamente chiaro che un’uscita dell’euro non risolverà TUTTI i problemi. L’uscita dall’Euro è certamente una condizione necessaria, anche se non è affatto sufficiente. Ma stimolando vigorosamente la crescita, essa ridarà all’economia francese la capacità di affrontare senza problemi alcuni dei suoi difetti ricorrenti.

 


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