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Rinaldi a Rebalancing Europe: solo gli irriducibili non ammettono la necessità di rivedere i vincoli europei

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Vi presentiamo l’intervento, sia come video, sia come testo completo, di Antonio Maria Rinaldi al convegno “Rebalancing Europe” avvenuto il giorno 12 luglio. Il Professore pone in luce come tutti, tranne un pugno di irriducibili, ritenga ormai da riformare completamente le norme di bilancio della UE, basate su principi irrealistici e superti. Inoltre i prestiti PNRR non fanno altro che peggiorare una situazione non  drammatica per la quantità di liquidità in circolazione. 

Buon ascolto

 

Inizio con la considerazione che una pandemia di questa portata, che ha generato una crisi economica senza precedenti in tempo di pace, è almeno riuscita a convincere anche i più scettici che fosse arrivato il momento di cambiare tutta l’architettura dell’Unione.

Le stesse istituzioni europee infatti hanno finalmente ammesso che la governance economica dell’Unione, e in particolare il Patto di Stabilità e Crescita, dovevano essere radicalmente riformati.

In ogni caso gli effetti dell’emergenza sanitaria sulle economie hanno solamente accelerato un processo inesorabile ed irreversibile che già da tempo era maturato, così come sostenuto dal mio gruppo politico la Lega.

Infatti la crisi innescata dalla pandemia è stata comunque solamente una ulteriore acceleratore/aggravante a quella già esistente ed è pertanto da considerare come una opportunità per riformare finalmente tutta la governance economica su cui si fonda il mercato unico.


Lo stesso Mario Draghi ora lo sostiene, non solo forte della sua autorevolezza tecnica dopo aver presieduto la BCE, ma nell’attuale ruolo di Presidente del Consiglio, supportato da larghissima maggioranza parlamentare.

 

Si è finalmente giunti alla consapevolezza condivisa della necessità di modificare queste regole macroeconomiche, le quali hanno impedito a molti Paesi membri di perseguire una ripresa economica adeguata a causa dei palesi effetti pro-ciclici prodotti dalla crisi finanziaria iniziata nel 2008.

Rimangono ostinatamente delle proprie idee solo gli irriducibili rigoristi dimostrando di non aver ancora compreso la lezione che il teorema dell’austerità come funzionale alla crescita non porta ai risultati sperati, almeno in tutti i paesi dell’eurozona, generando asimmetrie sempre più ampie. Le politiche economiche e fiscali adottate e perseguite dal resto del mondo ne sono la prova più tangibile!

Pertanto, entrando nei particolari, e tenuto conto che la Clausola di Salvaguardia sarà disattivata alla fine del 2022, è disponibile meno di un anno e mezzo per una discussione vasta e complessa che porti ad una sua radicale ed effettiva rivisitazione. 

 

A questo punto sorge spontaneo chiedersi come le stesse istituzioni europee intenderanno procedere.

Ad esempio, la Commissione Europea, quale agenda ha in programma?

1) Comunicherà in anticipo almeno le linee guida che ispireranno le modifiche al fine di consentire ai Paesi Membri di poter programmare in tempo utile le proprie politiche economiche e fiscali al rinnovato Patto di Stabilità?

2) Vi è l’impegno ad iniziare il confronto sulla riforma in modo da essere pronti con le nuove regole già ad inizio 2023? Oppure di iniziare la discussione e poi, eventualmente, prolungare la Clausola di Salvaguardia fino a quando sarà necessario?

Perché in caso contrario esiste l’elevata probabilità, se non la certezza, che si torni alle stesse regole immutate del Patto di Stabilità se non si giungerà nei tempi alla riforma.

Queste precise domande sono state da me poste al Commissario Paolo Gentiloni il 28 giugno scorso in occasione del dialogo economico congiunto delle Commissioni ECON e EMPL con scambio di opinioni sul pacchetto di primavera del semestre europeo 2021 a cui hanno partecipato anche il Vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskies e il Commissario per il lavoro Nicolas Schmit.

Ebbene, la risposta testuale di Gentiloni è stata: “la tempistica non dipende da noi” facendo chiaramente intendere che sarà alla fine come sempre il Consiglio Europeo a decidere ogni cosa, relegando il Parlamento, unico organo elettivo, a non partecipare a questo importantissimo processo.

Ad ulteriore supporto di ciò, è quanto mai interessante citare una intervista rilasciata dal ministro delle finanze tedesco Olaf Scholz al Financial Times e pubblicata il 29 giugno scorso, proprio il giorno dopo le affermazioni di Gentiloni, nel quale respinge le richieste di riforma delle regole fiscali tedesche e dell’UE, affermando che forniscono sufficiente flessibilità per superare crisi come la pandemia.

Scholz si è opposto all’allentamento del Patto di Stabilità e Crescita dell’UE, progettato per garantire che gli Stati membri perseguano finanze pubbliche sane.

Ha poi aggiunto: “La mia opinione è semplice: una valuta comune ha bisogno di regole comuni e le nostre regole hanno dimostrato di fornire la flessibilità necessaria.  Tutte le misure di emergenza adottate dagli Stati dell’UE durante la pandemia erano state possibili nell’ambito del PSC, quindi è abbastanza flessibile”.

Il giornalista del FT ha poi commentato: “La Commissione europea ha rinunciato al Patto di Stabilità all’inizio della crisi ed è pronta a prolungare la sospensione fino alla fine del 2022, ma i paesi falchi del nord Europa probabilmente spingeranno per un rapido ritorno a rigide regole fiscali”.

Della stessa opinione Jens Weidmann, Presidente della Bundesbank, il quale ha sostenuto in una recente riunione di gabinetto di fine giugno scorso, che il freno all’indebitamento dovrebbe essere reintrodotto l’anno prossimo, come originariamente previsto da Scholz, e non nel 2023, affermando che l’aumento della crescita produrrebbe maggiori entrate fiscali.

La mia opinione, espressa durante la Plenaria, esattamente il 9 febbraio scorso in occasione del voto sullo strumento Recovery, invece rimarcava che anche le condizionalità inserite se non sufficientemente flessibili avrebbero creato problemi agli Stati membri che avrebbero attivato il Recovery and Resilience Facility.

Infatti la base del mio ragionamento oggettivo verte sul fatto che nel Regolamento RRF è incorporato il rispetto delle raccomandazioni del Country Report degli anni 2019/20, quindi precedenti alla crisi innescata dal Covid-19, cristallizzando pertanto i criteri di calcolo dell’Output-gap contenuti nella CAM (COMMONLY AGREED METHODOLOGY) la quale invece risulta essere sempre più oggetto di critiche da parte di molti Paesi membri.

Seguendo questo schema il Patto di Stabilità e Crescita sospeso, si ripropone comunque in tutto il suo vigore pro-ciclico.

Solamente sulla base di una ragionevole modifica della metodologia CAM è pertanto possibile invece lasciare ai Paesi membri maggiori margini di manovra, senza l’attuale grave rischio di generare isteresi nell’eccesso di disoccupazione e di amplificare la caduta della domanda interna.

Inoltre è essenziale la considerazione, ora più che condivisa, che non esiste un effettivo calcolo dell’output-gap, cioè un indice che valuti il differenziale della capacità produttiva fra l’economia reale e il suo potenziale, in quanto non è un parametro oggettivamente quantificabile e le proiezioni prodotte negli anni sono state oggetto di più che giustificate contestazioni.

Ad ulteriore supporto della mia tesi vi è la considerazione che su 23 dei 27 Paesi che hanno presentato i rispettivi PNRR al 30 aprile 2021, la quota prestiti è stata richiesta solamente per un totale di 165,8 Mld sui 360 Mld previsti dal RRF (a prezzi 2018), nello specifico 15 dalla Romania, 12,7 dalla Grecia, 12,1 dalla Polonia, 2,7 dal Portogallo, 700 ml dalla Slovenia e soprattutto dall’Italia con ben 122,6 Mld.

Tutti gli altri Paesi membri hanno di gran lunga preferito l’indebitamento diretto mediante emissione sul mercato primario di propri titoli di Stato e non dei prestiti messi a disposizione dalla Commissione europea, probabilmente anche per non sottostare ai vincoli del Regolamento sopra citati e vista anche l’enorme liquidità presente sui mercati finanziari mondiali in cerca di allocazione.

La stessa tripla A, attribuita dalle Agenzie di Rating alle emissioni della Commissione, ha consentito di ottenere tassi d’interesse inferiori di qualche decina di BP (Basis Point) rispetto a quelli di molti debiti sovrani dell’eurozona. Tuttavia non è stata considerata condizione sufficiente sia per lo status di debito privilegiato di cui godono, sia per le stringenti condizionalità macroeconomiche richieste e ai vincoli alla crescita dovuti all’agenda del Next Generation EU. Agenda che per la tipologia degli investimenti previsti, non tarati sulle reali esigenze poste dal fall-out della pandemia, non promuoveranno la crescita sperata, ma forti contenziosi con la Commissione UE e fra i Paesi membri circa il livello di consolidamento fiscale inevitabilmente corrispondente al dovuto finanziamento degli interventi rigidamente schematizzati nel NGEU.

In relazione al debito, da evidenziare la proposta avanzata da molti economisti internazionali di procedere alla cancellazione di porzioni di esso, nello specifico la parte detenuta dalla BCE accumulata dal programma PEPP, cioè quelli acquisiti per far fronte alla crisi economica scaturita dalla pandemia utilizzando lo stesso criterio distributivo adottato con il Capital Key.

Quel debito definito dallo stesso Mario Draghi “debito buono” perché contratto per finanziare le necessità della crisi. A riguardo il diniego di Christine Lagarde è stata categorico, sostenendo che i Trattati lo vietano.

Ricordo che lo stesso David Sassoli, Presidente del Parlamento Europeo, di appartenenza socialista, quindi espressione di maggioranza di questa Commissione, si era espresso nell’ottobre scorso a favore di questa proposta ricevendo subito severe critiche proprio dai suoi stessi alleati e compagni di partito.

Non può dirsi la stessa cosa invece se si procedesse nel rendere perpetui “de facto”, sempre da parte della BCE, i rinnovi di quei titoli di Stato acquistati nell’ambito dello stesso programma PEPP.

Si tratterebbe di “congelare” per convenzione “sine die” tali quote di debito dal calcolo del rapporto debito pubblico/PIL di ciascun Paese. In fondo il parametro del 60% è rimasto nelle ortodossie tanto care agli euroburocrati, anche se non scaturito da evidenze scientifiche, come d’altronde l’altro pilastro di Maastricht, il 3% fra deficit e PIL, scaturito solamente dalla fantasia creativa di Mitterand!

La moneta e le sue regole ritornino pertanto ad essere strumenti a disposizione e al servizio dei cittadini e dell’economia reale e non mezzi per imporre dei dogmi economici che si sono rivelati non idonei per sostenere la crescita e l’occupazione.

In ultima analisi, invece di prendere atto del fallimento della governance economica intrapresa per anni, tutte le istituzioni europee hanno preferito ignorare le più che giustificate e corrette critiche che iniziavano a levarsi da ogni angolo dell’Unione, con il risultato di rendere il Mercato Unico come mai a rischio di implosione.

È infatti una questione esclusivamente di volontà politica e non di impossibilità tecnica. In un momento storico come questo dobbiamo solo avere il coraggio e la forza di modificare con il concorso di tutti le regole concepite oltre 30 anni fa e ormai inadeguate alle esigenze di crescita e di coesione sociale nel mondo in cui viviamo.

La Storia giudicherà il nostro operato per quello che riusciremo a compiere oggi, non domani, perché sarà troppo tardi.

Grazie.


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