Crisi
QUANTITATIVE EASING
Coloro che non conoscono l’inglese soccombono spesso alla sciocca tendenza di usare termini inglesi. E si riempiono la bocca di parole come “trend”, come se non ci fosse “tendenza”, di “family banker”, come se non si potesse dire “bancario di famiglia”. Senza dire che “banker” è più o meno il proprietario della banca: l’impiegato in inglese si chiama bank clerk.
Ora si parla continuamente di “Quantitative Easing” e si è costretti a tradurre più o meno con “sgravio”, “alleviamento quantitativo”. È puramente e semplicemente l’acquisto di titoli di Stato da parte della Banca Centrale Europea, con denaro di nuova emissione. Mario Draghi vorrebbe disporsi a questo acquisto ma bisogna vedere se la Bundesbank non si opporrà e se la Corte Costituzionale tedesca non bloccherà tutto.
Rimanendo all’essenziale, si tratterebbe di autorizzare i vari Paesi a collocare sul mercato una maggiore quantità di titoli senza essere costretti ad aumentare il livello degli interessi, perché il di più è comprato dalla Banca Centrale Europea con denaro “fresco” (ma soltanto “fresco di stampa”). I Paesi si potrebbero permettere più spese, provocando fra l’altro inflazione, controbilanciando l’attuale tendenza deflazionistica e rilanciando l’economia. Purtroppo tutta l’impalcatura potrebbe essere sbagliata.
Lo schema keynesiano, per affrontare le crisi, è questo: lo Stato, per incrementare l’occupazione e distribuire salari – dunque mezzi per aumentare l’intera domanda (detta integrata) di beni e servizi – lancia grandi lavori, diminuisce la pressione fiscale, sostiene le imprese in difficoltà, e dunque rilancia l’economia. Inoltre, dal momento che quel denaro immesso nel circuito è “a fronte di niente” (cioè puramente e semplicemente carta), il risultato è inflattivo e dunque si contrasta la deprecata deflazione.
Una prima controindicazione è tuttavia che l’aumento dei titoli pubblici, anche se non provoca l’aumento dei tassi, provoca comunque l’aumento del debito pubblico. Quest’ultimo è risparmio, denaro “fermo”, nel senso che gli investitori non lo spendono e si contentano di lucrare gli interessi. Però, nel caso di una crisi di fiducia, da un lato nessuno comprerebbe i titoli di nuova emissione (e ciò basterebbe a far fallire un Paese come l’Italia) dall’altro per liberarsi dei vecchi titoli tutti li riverserebbero in Borsa provocando un’immediata e imponente svalutazione della moneta. La crisi di fiducia, in regime di euro, è tanto più vicina quanto più grande è il debito pubblico.
L’efficacia del meccanismo keynesiano è essenzialmente congiunturale. Per giunta, mentre i suoi costi sono certi, l’effetto positivo è aleatorio. L’idea che spendendo di più si risani comunque l’economia è sbagliata. Non è perché la gente spende di più che, per conseguenza, guadagnerà di più. Al contrario, è se guadagna di più che, per conseguenza, spenderà di più, e il Paese sarà più prospero. Per avere ricchezza non basta desiderarla, bisogna crearla.
La crisi può dipendere da fattori temporanei – e in questo caso il meccanismo keynesiano potrebbe essere utile – ma se essa dipende da fattori oggettivi e stabili, l’immissione di moneta in circolo, “a fronte di niente”, fa soltanto danni. La macroeconomia keynesiana non può porre rimedio ai grandi fattori negativi quali per esempio un aumento del prezzo internazionale delle materie prime; un eccesso di pressione fiscale; la concorrenza economica imbattibile di economie più efficienti; un modello produttivo divenuto inadatto ai tempi; un eccessivo peso del Welfare State. Se il fattore negativo è uno di questi, è soltanto risolvendolo che si risolve la crisi. E viceversa si continua testardamente a pensare che la nostra sia una crisi finanziaria, da combattere con mezzi finanziari.
Per ciascun Paese, bisognerebbe identificare la causa vera e profonda della crisi e mettervi rimedio a qualunque costo. Diversamente ci penserà una crisi di Borsa, una volta o l’altra, ad azzerare il contatore. Oggi siamo in crisi ma non siamo ancora falliti e forse avremmo lo spazio per agire. Se non lo facciamo, una situazione catastrofica non da noi organizzata potrebbe costringerci a ripartire da zero. Potremmo avere una serie di default di Stati che ci farebbe ripensare alla crisi del ’29 come a un’età dell’oro.
Una nota infine riguardo alla deflazione. Essa è temibile come sintomo della recessione ma è discutibile che la si condanni in sé, mentre si reputa che un’inflazione del 2% sarebbe certamente un bene. La deflazione è soltanto un aggiustamento dovuto alla mano invisibile di Adam Smith e in quanto tale è un bene, non un male. E poi, dove sta scritto che il debitore debba sempre guadagnare qualcosa, con l’inflazione, mentre il creditore e il percettore di reddito fisso debbano sempre rimetterci? Forse è soltanto il pregiudizio di sinistra per cui il creditore è sempre un ricco parassita – anche quando è un dipendente a stipendio fisso o un pensionato al minimo – mentre il debitore è sempre il povero sfruttato dal sistema. E si sa, i pregiudizi sono più solidi dei teoremi di geometria.
Gianni Pardo, [email protected]
5 dicembre 2014
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