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Nel complesso puzzle del Medio Orientegli USA tornano in prima linea (di Bepi Pezzulli)

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Il tormentato scenario del Medio Oriente, perennemente intrappolato tra tensioni secolari e sempre nuove ambizioni geopolitiche, è tornato a richiedere approcci consolidati, e le aspettative del mondo sono nuovamente riposte negli Stati Uniti d’America. Alla prova dei fatti, il tentativo di disimpegno USA dalla regionesi è dimostrato un’impresa evanescente.

IlrecessoUSA dal Medio Oriente fu teorizzato dal Presidente Barack H. Obama tra il 2009 e il 2017, ed è stato caratterizzato da una serie di politiche che riflettevano il desiderio dell’Amministrazione USA di ridurre lo sforzo militare diretto e di rifocalizzare la priorità della politica estera USA verso l’Indo-Pacifico.

I due mandati dell’Amministrazione Obama furono caratterizzati da una serie di decisioni di rottura con posizioni di politica estera tradizionali accompagnate da azioni radicali.

Riduzione delle truppe in Iraq e Afghanistan: Una delle prime azioni di disimpegno fu la riduzione graduale delle truppe USAdislocate in Iraq e Afghanistan. In un cambio di paradigma, l’Amministrazione Obama decise di sostituire il coinvolgimento militare diretto nei teatri di crisi con l’addestramento di forze di sicurezza locali per garantire la stabilità regionale.

Focus sul multilateralismo: Parallelamente, l’Amministrazione Obama si è affidata quasi fideisticamente alla diplomazia nella risoluzione delle questioni regionali. Tanto la I Amministrazione Obama, per mano del Segretario di Stato Hillary D.Rodham Clinton, quanto la II Amministrazione Obama, per mano del Segretario di Stato John F. Kerry, hanno enfatizzato la ricerca di diplomazia multilaterale e la risoluzione dei conflitti attraverso mezzi diplomatici e politici piuttosto che con il rafforzamento del deterrente militare.

Accordo sul nucleare iraniano: Un elemento cruciale della politica di disimpegno fu l’accordo sul nucleare iraniano del 2015, il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA). La delegazione USA, formata dal Vicesegretario di Stato William J. Burns, dal Sottosegretario di Stato Wendy R. Sherman e da Jacob J. Sullivan, Consigliere per la sicurezza nazionale dell’allora Vicepresidente Joseph R. Biden,negoziò un accordo multilaterale volto a limitare il programma nucleare iraniano in cambio di un allentamento delle sanzioni economiche. Gary Samore, ex coordinatore della Casa Bianca per il controllo degli armamenti e delle armi di distruzione di massa, ha poi spiegato che l’accordo sul nucleare iraniano mirava a gestire la minaccia nucleare senza ricorrere all’uso della forza, un’argomentazione in qualche modo contraddittoria.

Evitare nuovi interventi militari: L’Amministrazione Obama ha dimostrato inoltre una certa riluttanza ad avviare nuovi interventi militari nella regione, cercando di evitare il coinvolgimento in conflitti complessi come quello in Siria. Tuttavia, è stata anche criticata per la gestione delle conseguenze della guerra civile siriana.

In questo quadro, e con riferimento al conflitto israelo-palestinese, l’Amministrazione Obama ha sostenuto l’idea di una soluzione a due Stati, con Israele e la Palestina che coesistono fianco a fianco. Ha sottolineato la necessità di un accordo che portasse alla creazione di uno Stato palestinese indipendente, con Gerusalemme come capitale condivisa.Obama ha fortemente criticato la costruzione di insediamenti israeliani nei territori occupati, considerandola un ostacolo al processo di pace. Ha richiesto il congelamento degli insediamenti israeliani come gesto di buona volontà per riprendere i negoziati.

Il Presidente Biden ha ripreso da dove Obama aveva finito, rovesciando le politiche di massima pressione del Presidente Donald J. Trump verso l’Iran.

Nel 2018, l’amministrazione Trump aveva annunciato il ritiro unilaterale degli USAdal JCPOA, citando preoccupazioni sulla sua efficacia a lungo termine e sulla necessità di trattative più ampie sulle attività nucleari, il programma missilistico e le attività regionali dell’Iran.Nel 2019, l’amministrazione Trump aveva intensificato le sanzioni contro l’Iran, inclusa l’imposizione di restrizioni sulle esportazioni di petrolio iraniano.Con l’insediamento dell’amministrazione Biden nel 2021, sono stati avviati sforzi in un tavolo negoziale a Vienna per riportare gli USA nell’accordo e indurre l’Iran a rispettarne nuovamente i termini.

Le amministrazioni democratiche hannocercato di forgiare partenariati regionali per coinvolgere gli attori regionali chiave nella gestione delle questioni locali. Ciò rifletteva la volontà di trasferire la responsabilità della sicurezza e della stabilità verso gli attori regionali.

Evidentemente, la strategia democratica non ha funzionato.

Il Consigliere per la sicurezza nazionaleSullivan è ora la figura centrale di una precaria trattativa in Qatar, focalizzata su un lento e progressivo scambio di prigionieri tra Israele e Hamas. Tale mossa, i cui rischi sono evidenti, potrebbe essere interpretata come un tentativo di indurre Israele a conferire legittimità politica ad un’organizzazione terroristica. Sfortunatamente, questi esercizi di realpolitik non sono nuovi; una mossa politica simile fu adottata dalla Germania dell’est durante la guerra fredda nei confronti degli USA, quando la Repubblica Democratica Tedesca, sotto occupazione sovietica, ha utilizzato la politica degli scambi di prigionieri per ottenere il riconoscimento diplomatico dagli USAnel 1974.

Questa mossa, seppur audace, suggerisce una strategia che potrebbe portare a una risoluzione politica più ampia della complessa questione del Medio Oriente.

L’aspettativa di una soluzione pacifica si basa sull’idea che, nelle crisi, gli USA dimostrino una genialità politica senza pari. Tuttavia, il cammino verso una risoluzione sostenibile è tutt’altro che lineare.

Il dopoguerra a Gaza: Tre opzioni sul tavolo

Un’analisi approfondita di Karl Meier per Bloomberg News identifica tre opzioni sul tavolo post-conflitto. In primo luogo, l’ipotesi di concedere un controllo temporaneo su Gaza ai paesi della regione, supportati da una forza multinazionale che includerebbe truppe americane, britanniche, tedesche e francesi, insieme a possibili contributi da nazioni arabe come l’Arabia Saudita o gli Emirati. La seconda opzione contempla l’istituzione di una forza di peacekeeping, ispirata al modello operante nel Sinai, incaricata di far rispettare le condizioni del trattato di pace del 1979 tra Egitto e Israele. Un’idea che, sorprendentemente, potrebbe ottenere il consenso di Israele. Infine, la terza opzione propone un governo temporaneo per la Striscia di Gaza sotto l’egida delle Nazioni Unite, offrendo così una soluzione legittimata a livello internazionale. Tuttavia, le reticenze di Israele nei confronti delle Nazioni Unite, e la mancanza di credibilità dell’ONU, potrebbero complicare la fattibilità di questa proposta.

Mentre il futuro del Medio Oriente rimane incerto, ma l’attenzione sugli USA e le loro mosse diplomatiche potrebbero giocare un ruolo cruciale nella definizione di una soluzione duratura.

La successione dipotere nei territori palestinesi: Il ritorno di Barghouti e Dahlan

Nel complicato panorama post-conflitto in Medio Oriente, emergono due figure chiave come potenziali leader per la Striscia di Gaza: Mohammed Dahlan e Marwan Barghouti. Questi nomi sono balzati all’attenzione internazionale in un momento cruciale, in cui la transizione di potere sembra inevitabile.

Il venticinquennio di Abu Mazen alla guida dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) si avvicina alla fine, e la necessità di un nuovo leadership si fa sempre più pressante. Tuttavia, la scelta non è scontata, poiché il vecchio leader è percepito come corrotto ed inefficace. In questo scenario, due nomi emergono come possibili successori: Mohammed Dahlan e Marwan Barghouti.

Mohammed Dahlan, 62 anni, originario del campo profughi di Khan Yunis a Gaza, è una figura di spicco nella politica palestinese con undici detenzioni nelle carceri israeliane. La sua esperienza e la sua conoscenza dell’ebraico, acquisite durante la sua detenzione, lo rendono un interlocutore affine e “affidabile” nel dialogo con il nemico. La sua storia lo collega agli Accordi di Abramo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, in cui avrebbe agito come facilitatore. La sua influenza è stata così rilevante che la sola minaccia di formare una lista in Cisgiordania è stata sufficiente a rimandare le elezioni, indicando il suo potenziale ruolo chiave nel futuro della regione.

Marwan Barghouti, altro contendente alla leadership, è ugualmente una figura di rilievo nella politica palestinese, noto per la sua partecipazione alla prima e seconda Intifada. Eletto nel Consiglio Legislativo Palestinese nel 1996, ha difeso il processo di pace israelo-palestinese e si è affermato come Segretario Generale di Al-Fataḥ nella Cisgiordania. La sua figura, pur essendo controversa, rappresenta un’alternativa laica alle filiere ambigue dei Fratelli Musulmani. La sua permanenza nelle prigioni israeliane, sebbene lo mantenga al sicuro, potrebbe essere una mossa strategica per preservare la sua vita e consolidare la sua influenza nel futuro politico della Palestina.E’ stato frettolosamente accreditato come il Nelson Mandela della Palestina.

Gli USA appaiono determinati a rafforzare l’ANP, e potrebbero sfruttare Barghouti come una carta per ripristinare credibilità e indebolire il sostegno ai gruppi terroristici. La combinazione di pressione politica e militare, con la pressione militare israeliana mirata a ridurre il potenziale militare dei terroristi, potrebbe delineare un nuovo capitolo nella politica palestinese.

In questo contesto intricato, la scelta del successore di Abu Mazen non solo definirà il futuro della Palestina ma avrà anche implicazioni cruciali per la stabilità regionale. Con Barghouti e Dahlan sul tavolo, la posta in gioco è alta, e il destino del Medio Oriente pende in bilico tra la storia e la necessità di un cambiamento.

Abramo Plus: Un nuovo approccio economico per la pace in Medio Oriente

Nell’ambito del complesso scenario israelo-palestinese, si prospetta la necessità di un “Abramo Plus”, un’espansione degli Accordi di Abramo che vada oltre la semplice normalizzazione delle relazioni diplomatiche. Questo “Plus” si traduce in risorse di investimento mirate, un catalizzatore fondamentale per il benessere di entrambe le parti coinvolte.

Questo approccio era già stato in larga misura offerto nell’ambito del Piano Kushner-Berkowitz, presentato nel giugno 2019, che rappresenta una delle iniziative chiave degli USA per affrontare la questione israelo-palestinese. Elaborato da Jared C.Kushner, AvrahmBerkowitz e Jason D. Greenblatt, il piano mira a migliorare le condizioni economiche della popolazione palestinese, aprendo la strada a progressi politici successivi.

Il piano proponeva una serie di elementi chiave:

Investimenti finanziari: L’iniziativa prevede un notevole investimento finanziario nella Cisgiordania, destinato a progetti infrastrutturali, turistici, agricoli e industriali, con una stima totale di 50 miliardi di dollari. Più della metà di questa somma sarebbe destinata ai territori palestinesi, mentre il resto sarebbe suddiviso tra Egitto, Libano e Giordania.

Approccio regionale: Il piano incoraggia anche gli investimenti nei paesi circostanti, creando opportunità economiche e occupazione per i palestinesi.

Sviluppo istituzionale: Propone programmi mirati a migliorare le istituzioni palestinesi, come istruzione e sanità, al fine di sviluppare le competenze della forza lavoro.

Partecipazione internazionale: L’iniziativa chiede la collaborazione di altri paesi e organizzazioni internazionali per sostenere e implementare il piano.

Tuttavia, il Piano Kushner-Berkowitz è stato oggetto di critiche, soprattutto da parte dei leader palestinesi, che lo vedono come un tentativo di eludere le questioni politiche fondamentali. La posizione palestinese tradizionale ha sempre cercato una soluzione politica e uno Stato indipendente, anziché un approccio basato esclusivamente sull’aspetto economico.

Secondo l’Ambasciatore Sergio Vento, ex capo missione italiano in USA e all’ONU, il Piano rappresenta la continuazione del “Processo di Casablanca” ideato da Shimon Peres nel 1994, in seguito agli Accordi di Oslo del 1993. La Conferenza di Casablanca ha riunito leader regionali e internazionali per promuovere la cooperazione economica nella regione del Medio Oriente. Questa iniziativa, sostenuta dal re Hassan II del Marocco, rifletteva l’obiettivo di migliorare i legami economici tra gli Stati della regione, compresi quelli con Israele.

In entrambi i casi, la combinazione di sforzi economici e diplomatici ha cercato di promuovere la stabilità attraverso la cooperazione. Tuttavia, la sfida rimane aperta nell’affrontare le questioni politiche fondamentali, quali lo status di Gerusalemme, i confini del futuro Stato, e la cittadinanza palestinese. Mentre l’approccio economico può contribuire al progresso, è cruciale superare il fondamentalismo palestinese e trovare una soluzione politica globale per garantire una pace duratura in Medio Oriente.

Il complesso scenario mediorientale: Una svolta nei rapporti israelo-palestinesi

Il discorso attuale segue il solco tracciato dagli Accordi di Abramo, con l’intento di potenziare i legami diplomatici nella regione. Mentre la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele sembrava in discussione, un’analisi più approfondita rivela un processo gestito abilmente, sfidando le aspettative e coinvolgendo molteplici attori.

Il recente negoziato tra Arabia Saudita e Israele per la normalizzazione delle relazioni ha superato le note questioni di sicurezza. Questo sviluppo non solo rilancia l’impressione di un processo robusto ma dimostra un coinvolgimento a tutto campo, che spazia dalla diplomazia ai giochi di potere militari. Il notevole buildup militare ha già efficacemente intimidito Iran e Hezbollah libanesi, delineando una nuova dinamica nella geopolitica regionale.

La Lega Araba, storicamente unita nelle condanne a Israele, ha subito una spaccatura significativa durante il vertice d’emergenza di novembre. L’Arabia Saudita ha giocato un ruolo chiave nel bloccare il tentativo di isolamento militare ed economico di Israele proposto da alcuni Paesi arabi e musulmani. Le richieste, se attuate, avrebbero avuto implicazioni sostanziali, tra cui la sospensione dei contatti diplomatici, la limitazione delle vendite di petrolio agli USA e la restrizione del traffico aereo israeliano sui cieli del Golfo.

L’opposizione a tali misure è emersa soprattutto da parte degli Stati partner degli Accordi di Abramo di Israele, tra cui Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco. Da sottolineare è il supporto anche da parte di Egitto e Giordania, Paesi con accordi di pace consolidati con Israele. Sorprendentemente, Arabia Saudita, Mauritania e Gibuti hanno anch’essi respinto le misure proposte.

Il congelamento temporaneo dei legami israelo-sauditi dopo un attacco terroristico ha gettato ombre sulla normalizzazione, ma non sembra aver compromesso gli sforzi di lungo termine. La Mauritania e Gibuti, che già avevano avuto relazioni diplomatiche con Israele in passato, mostrano una nuova apertura, mentre l’Iran vede respinta la richiesta di designare le Forze di Difesa di Israele (IDF) come organizzazione terroristica.

In questa intricata partita diplomatica, la regione mediorientale si trova di fronte a un cambiamento sostanziale nei rapporti tra gli attori principali. La gestione astuta delle dinamiche politiche ed economiche potrebbe plasmare il futuro dell’area, delineando una nuova era di collaborazione o, viceversa, consolidando tensioni preesistenti.

Visit by Catherine Ashton, High Representative of the Union for Foreign Affairs and Security Policy and Vice President of the EC to Moscow, where she takes part in the Quartet meeting: Tony Blair, Middle East Quartet Representative

Il ritorno di Tony Blair: Un’iniezione di esperienza britannica nel teatro mediorientale

Il possibile ritorno di Sir Anthony C.L. Blair come coordinatore umanitario per la Striscia di Gaza ha attirato l’attenzione internazionale, alimentando speculazioni sul ruolo chiave che l’ex primo ministro britannico potrebbe giocare nel rafforzare i legami tra Israele e il Regno Unito in Medio Oriente.

Secondo fonti ufficiose, Israele sta considerando l’insediamento di Blair per migliorare la situazione umanitaria a Gaza, una mossa strategica per ridurre la pressione internazionale nei confronti della sua campagna contro l’enclave palestinese. Benjamin Netanyahu sembra desideroso di capitalizzare sull’esperienza di Blair come ex inviato del Quartetto per il Medio Oriente, mirando a mitigare le crescenti preoccupazioni globali sulle conseguenze civili del conflitto a Gaza.

Il Primo Ministro Netanyahu avrebbe contattato Blair per discutere della possibile nomina, e, secondo quanto riportato, i colloqui sono in corso. L’ufficio di Blair ha risposto alle voci affermando che non è stata data né offerta una posizione, senza però negare direttamente i colloqui.

Blair ha precedentemente svolto il ruolo di rappresentante del Quartetto per il Medio Oriente dal 2007 al 2015. Il Quartetto, composto da USA, Unione Europea, ONU e Russia, è stato creato nel 2002 con l’obiettivo di promuovere la pace e facilitare i negoziati tra Israele e palestinesi.

Durante il suo mandato, Blair ha lavorato per migliorare l’economia palestinese, facilitare riforme politiche e istituzionali e promuovere investimenti internazionali nei territori palestinesi. Tuttavia, il Quartetto è stato oggetto di critiche, con alcuni sostenitori palestinesi e critici dell’approccio di Blair che lo ritenevano inefficace nel risolvere il conflitto israelo-palestinese.

Il possibile coinvolgimento di Blair in una nuova veste a Gaza può essere interpretato in relazione alla recente nomina di Lord David Cameron di Chipping Norton come Foreign Secretary nel governo Sunak. Questo segna il ritorno di figure chiave della politica britannica e introduce un elemento di esperienza nei delicati legami diplomatici, delineando chiaramente la direzione di marcia nel tentativo di scongiurare l’apertura di un terzo fronte di crisi contemporaneo nell’Indo-Pacifico. Cameron è più soft nei confronti della Cina, ma risoluto nel sostegno all’Ucraina contro la guerra lanciata dalla Russia e fermo nel contenimento dell’influenza regionale dell’Iran.

La necessità di contenere laCina per evitare tensioni nel Pacifico è ora fondamentale. Non a caso, per la prima volta dal 2011 (allora fu a Honolulu, alle Hawaii), gli USA hanno ospitato il vertice annuale APEC, a novembre. All’incontro dell’APEC hanno partecipato – tra gli altri – Cina, USA, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Messico, Giappone, Corea del Sud e Russia, rappresentata, ovviamente non dal Presidente Vladimir V. Putin, ma dal vice primo ministro Alexei L. Overchuk. Ma l’evento principale del vertice si è svolto, in realtà, a porte chiuse: mercoledi15 novembre c’è stato un incontro faccia a faccia tra il Presidente Biden e il presidente cinese Xi Jinping. L’incontro si è tenuto sullo sfondo del gelido rapporto tra Cina e USA e di situazioni globali molto complicate.

La Brexit, che ha dato all’UK maggiore autonomia in politiche commerciali e di sicurezza, ha contribuito al consolidamento di un ruolo influente di Londra nel panorama internazionale. Il ritorno di Blair e Cameron sottolinea il potenziale dell’UK nel contribuire a gestire le complesse dinamiche regionali e sottolinea il divario crescente tra l’UE e il Regno Unito in termini di influenza geopolitica, con Bruxelles di fatto inesistente, e Londra con un ruolo centrale sia in Ucraina sia in Medio Oriente.

Abramo Plus: Un nuovo paradigma di investimenti per disinnescare il conflitto

In un contesto intriso di tensioni e ostilità, l’iniziativa “Abramo Plus” si profila come un potente strumento per rilanciare la dinamica degli investimenti in infrastrutture, sottraendo Israele al mare di odio circostante e all’ostilità malcelata di alcune élite di governo regionali. L’idea chiave è utilizzare il potere economico come catalizzatore per disinnescare l’odio radicato, portando benefici tangibili alla regione.

Gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita potrebbero svolgere un ruolo cruciale investendo non solo in Israele, ma anche nella Palestina rinnovata. Questo non solo migliorerebbe la stabilità economica, ma creerebbe anche un’opportunità per una più credibile e attraente ANP, che potrebbe emergere come una forza di cambiamento positiva.

Il nodo irrisolto: la politica interna israeliana

Tuttavia, il nodo interno rimane irrisolto: il tipo di controparte che Abramo Plus potrebbe trovare nella politica israeliana. Con la possibile transizione politica post-Netanyahu, gli sforzi del Segretario di Stato Antony J.Blinken e di Sullivan potrebbero concentrarsi su un nuovo capitolo nelle relazioni tra Israele e palestinesi.

La controversa leadership di Netanyahu, segnata da un eccessivo potere di interdizione concesso agli alleati BezalelSmotrich e Itamar Ben-Gvir e azioni divisive sul carattere laico e democratico dello Stato Ebraico, ad esempio la controversa riforma della giustizia, solleva la questione di un necessario cambiamento. La figura rispettata del Ministro della Difesa Yoav Gallant emerge come una possibile soluzione alla richiesta di cambiamento. Forse è il momento di riformare anche la legge elettorale israeliana, che ha contribuito a una frammentazione eccessiva della politica. Una stabilità di governo compromessa e il potere di partiti marginali pongono sfide significative.

La soluzione dei due Stati rimane discutibile, e la viabilità di uno Stato palestinese autonomo è messa in discussione dalla sua sostenibilità economica. Mentre la regione affronta diverse incognite, compresa l’incertezza politica negli USA, la ricostruzione post-conflitto potrebbe essere un veicolo per un nuovo inizio.

Il focus su una “Jordan Rift Valley” e il progetto di ponti sopraelevati per collegare i 3 cantoni palestinesi disegnati dal Piano Kushner-Berkowitzpotrebbero portare a una rinascita economica.

In un discorso tenuto davanti a una sessione congiunta del Congresso USA il 12 dicembre 1995, il primo ministro israeliano Shimon Peres dichiarò: “Prima di venire qui, ho visitato il re Hussein, un amico leale degli Stati Uniti. Abbiamo esplorato le prospettive di trasformare la Valle del Giordano, un deserto allungato, in una Valle del Tennessee. Traendo ispirazione dalle vostre esperienze, siamo risoluti in un’iniziativa ampia per riconquistare il deserto, fermare la guerra e porre fine all’odio una volta per tutte”. In effetti, le parole di Peres del 1995 risuonano profeticamente oggi, riflettendo una visione che va oltre il suo tempo. L’idea di trasformare la Valle del Giordano, un tempo un concetto proiettato nel futuro, ora riecheggia con una rilevanza senza tempo. L’impegno di Peres nel riconquistare il deserto, porre fine ai conflitti ed eradicare l’odio assume una significatività rinnovata mentre permangono sfide durature ma anche aspirazioni alla pace nella regione.

Accanto agli Accordi di Abramo (e Abramo Plus), indissolubilmente intrecciati con Ariel Sharon, la figura più creativa della politica israeliana, si trova la prospettiva alternativa. L’idea che “La Giordania-è-la Palestina” ha costantemente sostenuto l’etica strategica del partito Likud. In un documento del 1988, il Presidente del Middle East Forum Daniel Pipes racconta come, tornando agli anni ‘20, l’ideatore ideologico del Likud, Vladimir Z. Jabotinsky, postulò che la Palestina, come territorio, vantasse una “caratteristica geografica principale” in cui il fiume Giordano, lontano dal delineare confini, serpeggiava elegantemente attraverso di essa. Saltando nel 1982, Pipes nota, il primo ministro Yitzhak Shamir affermò che il dilemma principale non risiedeva nell’assenza di una patria per gli arabi palestinesi, poiché la Transgiordania (cioé la Palestina orientale) serviva a quel proposito. Shamir affermò categoricamente: “Uno Stato palestinese a ovest del fiume Giordano è una ricetta per l’anarchia”. La storia ha dato ragione a Shamir.

Indipendentemente dalla prospettiva, mentre Israele si trova davanti a una svolta cruciale, soluzioni innovative distaccate dalle storiche recriminazioni palestinesi, come ad esempio un Piano Marshall per il Medio Oriente; e indipendentemente dalle aspirazioni passate dei palestinesi, come la storica idea di giordanizzazione dei palestinesi, sono imperativi per un Israele sicuro e un Medio Oriente in pace.

Bepi Pezzulli è un Solicitor delle Corti Superiori d’Inghilterra e Galles, specializzato in diritto internazionale. I suoi interessi di ricerca includono il Medio Oriente e la guerra ibrida.


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