Economia
Max Mara dice addio alla Città della Moda a Reggio Emilia. Quello che capita quando il comune vuole fare il sindacalista
Una decisione shock: Max Mara cancella l’investimento a Reggio Emilia. Scopri come l’ingerenza politica e il conflitto sindacale hanno affondato il sogno del Polo della Moda in Emilia.

La vicenda del Polo della Moda di Max Mara a Reggio Emilia si chiude con un epilogo drammatico e inaspettato: l’abbandono irrevocabile del progetto da parte del Gruppo Maramotti, che chiude la porta sbattendola, dopo una serie di inopportune oservazioni dei politici locali.
Una decisione che scuote non solo l’economia locale, ma solleva interrogativi profondi sul ruolo delle istituzioni, le dinamiche sindacali e i delicati equilibri politici in una regione da sempre considerata “rossa”.
La morale di questa storia amara è chiara: quando la politica locale travalica i propri compiti, interferendo nelle relazioni sindacali e assumendo un ruolo che non le compete, il risultato può essere la fuga degli investimenti e un danno incalcolabile per l’intera comunità. In Emilia, terra storicamente governata dal PD, si assiste a una pericolosa commistione tra politica, sindacato e amministrazione locale, dove i confini si fanno sempre più labili, e dove, in ultima analisi, a farne le spese sono tutti i cittadini.
Le Radici di un Progetto Ambitioso e la Sua Drammatica Caduta
Il progetto del Polo della Moda, annunciato con grande enfasi lo scorso 23 maggio al Tecnopolo, prevedeva un maxi-investimento di oltre cento milioni di euro da parte di Max Mara Fashion Group, con l’acquisto dell’area delle ex Fiere. Un’iniziativa che avrebbe dovuto generare occupazione e rilanciare un settore strategico per il territorio, creando un benvenuto polo della Moda, nel momento in cui questo settore in Italia è in grande sofferenza.
Tuttavia, il sogno di questo polo si è infranto bruscamente a causa di una serie di eventi concatenati, sfociati in un “clima politico divisivo e attacchi alla reputazione del Gruppo”, come dichiarato da Luigi Maramotti, AD del gruppo.
Il punto di non ritorno è stato lo sciopero delle operaie di Manifatture San Maurizio e della CGIL, avvenuto due giorni prima della presentazione ufficiale del progetto. Una protesta legittima sulle condizioni di lavoro, che però è rapidamente degenerata in un dibattito acceso e strumentalizzato, arrivato non solo sui media locali e nazionali, ma persino a Roma con interrogazioni parlamentari di AVS, Movimento 5 Stelle e PD. Che cosa avrà potuto rispondere il Governo di Roma sulla discussione sindacale che riguarda una singola fabbrica, di medie dimensioni, a Reggio Emilia, neppure in crisi, rimane nella mente degli Dei e dei politici romani.
Il 25 giugno, le lamentele delle lavoratrici, portate dalla CGIL davanti al sindaco di Reggio Emilia, Massari, hanno trovato eco in un consiglio comunale che, secondo Luigi Maramotti, si è concentrato non sui meriti urbanistici ed economici del progetto, ma sulle relazioni industriali interne al gruppo. Nonostante il voto favorevole quasi unanime al piano attuativo, questo è stato percepito dalla famiglia Maramotti come un “voto condizionato a future verifiche sul comportamento del nostro gruppo”, un’ingerenza inaccettabile nella gestione aziendale.
L’affondo finale è arrivato con le “dichiarazioni pubbliche di Massari relative alle condizioni di lavoro di Manifatture di San Maurizio”, che hanno fatto traboccare il vaso. Per Luigi Maramotti, la posta in gioco era la reputazione dell’azienda e dei suoi migliaia di lavoratori, accusando di “attacchi diffamatori” che hanno reso impossibile la prosecuzione del piano.
Il Ruolo Controverso del Comune e le Sue Conseguenze
La posizione del Comune di Reggio Emilia, rappresentato dal sindaco Marco Massari e dall’assessora Annalisa Rabitti, è stata di sorpresa di fronte alla decisione di Max Mara. Pur riconoscendo le preoccupazioni delle dipendenti e auspicando un miglioramento delle condizioni di lavoro, il sindaco ha sottolineato la necessità di un dialogo tra azienda, sindacati e lavoratrici, pur nella consapevolezza dei “confini all’interno dei quali l’amministrazione comunale può muoversi”. Peccato che poi tutta la discussione sia arrivata in consiglio comunale alimentando quella simpatica situazione da Soviet in cui chi non sa amministrare si mette ad occuparsi dei problemi che non gli competono, dalla Pace nel mondo alle relazioni sindacali.
La critica fondamentale sollevata è che il Comune abbia travalicato il proprio ruolo istituzionale. Invece di limitarsi a facilitare il dialogo e a garantire il rispetto delle norme, si è immischiato in dinamiche prettamente sindacali, dando credito a una narrazione che, dal punto di vista dell’azienda, ha danneggiato la sua reputazione e creato un clima ostile. Probabilmente i politici erano abituati ai soliti imprenditori pecora, da guidare con qualche contributo e poi tosare alla prima occasione. Questa volta gli è andata male.
La commistione tra amministrazione locale e questioni sindacali, tipica di alcune aree dell’Emilia, ha generato un corto circuito che ha spinto un colosso come Max Mara a ritirare non solo un investimento importante, ma soprattutto un impegno di lungo periodo verso la Città, ma questo è il frutto di una situazione in cui i politici fanno i sindacalisti, e i sindacalisti i politici, riuscendo a combinare disastri in entrambe le situazioni.
La rottura fra Maramotti, che non è solo Max Mara, ma anche il 30% di Credem, lascia anche presagire cambiamenti negli equilibri politici locali. In Italia i terremoti accadono sempre nelle aree che sembrano più consolidate.
PS: se il Sindaco Massari si annoia, invece che di relazioni sidnacali potrebbe occuparsi di ordine pubblico. Con tre rapine violente e un accoltellamento in un mese la città si sta trasformando in un’imitazione di Caracas, ma senza il petrolio venezuelano.
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