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L’arte “europea” degli stratagemmi: come la UE si è fatta padrona a casa nostra

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Parliamo del trenteseimo dei trentasei stratagemmi cinesi. Per la precisione l’ultimo del quinto capitolo dell’opera (quello dedicato alle strategie per guadagnare terreno): trasformarsi da ospiti in padroni di casa. Tale espediente può essere accuratamente combinato con il numero 25 dello stesso capitolo, così sintetizzabile: sostituire le travi e le colonne portanti di una casa con altre di legno marcio.

Il titolo dello stratagemma numero 30 dice praticamente tutto. Succede, talora, che qualcuno entri in una casa come personale di servizio – in qualità di maggiordomo o di donna delle pulizie o di domestico – e un po’ alla volta aumenti via via le proprie responsabilità; quindi, acquisti sempre più confidenza e ottenga sempre maggiore fiducia dai suoi datori di lavoro. Finché, un bel giorno, i padroni effettivi si svegliano e scoprono che l’intera gestione della casa è nelle mani di chi era entrato per servire ma, divenuto insostituibile, ha finito invece per asservire i propri titolari.

Questo stratagemma funziona a una condizione: che esso sia attentamente miscelato con un altro già citato e approfondito in precedenza, ossia quello della rana bollita di Chomsky (togliere, uno a uno, i ciocchi di legna da sotto il pentolone). Ci vuole gradualità.

Moltissime opere letterarie, soprattutto del genere thriller-horror, sfruttano il cliché di questo espediente. Il bellissimo romanzo Misery di Stephen King, a suo modo, lo fa. C’è questa sorta di crocerossina premurosa che, all’inizio, soccorre con slancio francescano il famoso scrittore vittima di un pauroso incidente e “raccolto” letteralmente dai rottami dell’auto incidentata. La donna lo porta nella sua baita e, un po’ alla volta, rivela la propria inquietante personalità. Si tratta di una fan paranoica del celebre autore e impone a quest’ultimo, con ogni mezzo, di riscrivere il finale del suo ultimo racconto. Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Basta solo pensare alla classica trama dello “sconosciuto alla porta”.

Che si tratti di un bambino “ritrovato”, di una babysitter, di un vecchio amico improvvisamente ricomparso, alla fine si va sempre a parare là. L’apparente innocenza, devota e un po’ untuosa, di chi si è presentato con atteggiamento riverente e servile è solo l’inizio di un incubo.

A livello storico, è esemplare la vicenda del celebre monaco russo Rasputin e della leggenda nera sorta intorno alla sua sinistra figura. Rasputin era un uomo dal carisma magnetico, di notevole presenza, di indubbie conoscenze (anche occulte). Nel novembre del 1905 la principessa Milica del Montenegro, amica della celeberrima Anastasia, introdusse il religioso alla corte dello Zar Nicola II e della moglie Aleksandra.

Un po’ alla volta, egli conquistò le simpatie e l’incondizionata fiducia della zarina e poi anche del sovrano. Ne divenne un ascoltatissimo consigliere fino a trasformarsi nell’eminenza grigia della corte imperiale russa, anche nelle faccende di Stato e in quelle militari.

A questo punto, sperando di aver chiarito il concetto, passiamo a traslare questo stratagemma nell’ambito di nostro interesse. E qui mi perdonerete, ma tocca parlare di diritto. Tuttavia, a rischio di annoiarvi, mi cimento nell’impresa di rendere digeribili concetti squisitamente giuridici perché ne vale davvero la pena.

Cominciamo dalle basi stesse del diritto: le leggi. Le leggi di un Stato libero e indipendente, com’è noto anche a chi è digiuno di giurisprudenza, sono fatte in genere dal parlamento di quel Paese. Il Parlamento è a sua volta eletto, in democrazia, dai cittadini i quali conferiscono apposito mandato a un gruppo, più o meno nutrito, di rappresentanti chiamati, in Italia, deputati e senatori.

Bene, nel caso dell’Unione europea – e prima ancora che questa ufficialmente nascesse con il Trattato di Maastricht del 1992 – sempre attraverso la stipula di trattati vennero create delle istituzioni extraterritoriali (cioè site fuori dal territorio italiano) e transnazionali (cioè composte da membri appartenenti alle diverse nazioni della comunità europea) in grado però di legiferare, cioè di emettere atti destinati ad avere forza di legge in Italia. Già qui ci sarebbe di che discutere e forse in Italia non se ne è mai discusso abbastanza, soprattutto all’inizio.

Più in particolare, il diritto esclusivo di iniziativa legislativa è stato attribuito a un organo chiamato Commissione composto solo da pochi individui (oggi sono 27, tanti quanti i Paesi membri della UE). Solo la Commissione ha il potere di redigere i testi di legge europei (i Regolamenti e le Direttive) che poi vengono approvati attraverso un tortuoso iter in cui viene coinvolto anche il Consiglio dell’Unione europea e il Parlamento europeo. Capite bene come attribuire l’iniziativa esclusiva a questo ente significhi, di fatto, rinunciare a una grossissima fetta di sovranità nazionale. E ciò in barba al famoso articolo 11 della Costituzione che non consente “cessioni”, ma solo “limitazioni” di sovranità. E solo nella misura in cui ciò sia necessario «in condizioni di parità con gli altri Stati […] ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Non certo in vista della costruzione di un Superstato europeo.

Ciononostante, abbiamo accettato questo enorme “cambiamento” perché, all’inizio, non ci è mai stato presentato come tale. Ab origine, venne “spacciata” una versione minimalista della Comunità europea soprattutto dai media, ma anche dai politici più accesamente europeisti. La tendenza è sempre stata quella di sminuire l’importanza e i poteri di quell’enorme apparato di organismi internazionali che oggi risponde al nome di UE.

Ripensate al tormentone, che affronteremo anche in seguito, sulla presunta “irrilevanza” della Comunità e poi dell’Unione. Ripensate a frasi come: “La UE non conta nulla”, “L’Europa non ha nessun potere”, “Gli Stati spinti dal loro egoismo nazionale frenano l’azione della UE”, “La UE può legiferare al massimo sulla circonferenza delle zucchine”.

Questo tipo di “racconto” fa parte dello stratagemma di cui stiamo parlando: propagandare il grande Sogno comunitario come un “servizio” di pace, giustizia e prosperità che taluni organi, assai poco potenti e ancor meno importanti, cercano di rendere alle nazioni egoiste e sovrane. La futura UE è stata, insomma, dipinta come una (troppo) fragile struttura transnazionale sorta con l’obiettivo di “agevolare” il progresso della pace e della giustizia in ambito europeo: un innocuo “ospite” che non poteva certo mettere in discussione il nostro legittimo ruolo di “padroni di casa”.

Ma è davvero così? Per capirci qualcosa, torniamo ora agli atti normativi di competenza della odierna UE; sono sostanzialmente di due tipi: i regolamenti e le direttive. I primi hanno efficacia diretta nel nostro territorio, così come in quello di tutti gli altri Stati membri. Efficacia “diretta” vuol dire questo: una volta emanati, i regolamenti non devono neppure essere “recepiti” dal nostro ordinamento giuridico. Essi si applicano sic et simpliciter come qualsiasi altra legge promulgata dal Parlamento italiano. Le direttive, invece, hanno bisogno di essere “tradotte” dalle nostre Camere tramite una legge apposita o un decreto legislativo.

Qui, però, cominciò fin dagli anni Settanta a porsi un problema di non scarso rilievo. Nel caso di un eventuale conflitto tra una norma europea e una norma nazionale, quale doveva prevalere? Se la norma europea (poniamo un regolamento direttamente applicabile) dice “bianco” e un’altra legge italiana dice invece “nero”, noi cittadini a quale delle due siamo tenuti a “piegarci”? Ecco, già nell’affrontare tale questione, hanno cominciato a profilarsi le prime avvisaglie di quella lenta trasmutazione della Comunità europea, poi UE, da “servitore” a “padrone” a casa nostra.

Più precisamente, era la nostra Corte Costituzionale a dover dirimere il dilemma di cui sopra: quando due norme sono in conflitto tra loro, dobbiamo obbedienza alla legge sostanzialmente “straniera” oppure alla legge nazionale? Ebbene, nel 1975, con la sentenza numero 232, la Corte disse espressamente che una legge dello Stato successiva a un Regolamento comunitario, e in contrasto con esso, prevaleva senz’altro sulla norma europea. Come dire, Italia-Europa 1-0 e palla al centro.
Ma non avevamo fatto i conti con la strategia di cui stiamo parlando.

Il “servitore”, subordinato sul piano giuridico, stava cominciando ad “allargarsi”. E lo faceva con gli strumenti che aveva a disposizione, cioè attraverso l’organo giurisdizionale per eccellenza della Comunità europea, vale a dire la Corte di Giustizia, con sede in Lussemburgo. La quale, con sentenza del 9 marzo 1978, ci rifilò una delle prime proverbiali “bacchettate sulle dita” – a cui poi abbiamo imparato a fare il callo – affermando quanto segue:

«Il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore».

Passarono solo pochi anni e, nel 1984, con la sentenza numero 170, la Corte Costituzionale italiana si adeguò pedissequamente ai desiderata della Comunità: le leggi italiane posteriori a un Regolamento europeo – ove in contrasto con quest’ultimo – devono essere disapplicate «senza che sia necessario rivolgersi alla Corte Costituzionale per far dichiarare l’illegittimità costituzionale di tali leggi».

Tradotto nell’intramontabile saggezza dei 36 stratagemmi cinesi: il servitore si stava definitivamente trasformando in padrone di casa.

Gli italiani avevano un nuovo “capofamiglia” che si era insediato in salotto, si era accomodato sulla poltrona e maneggiava pure, con beffarda disinvoltura, il “telecomando normativo”: leggi partorite da “ingegni” stranieri potevano finalmente imporsi in Italia senza bisogno di troppe complicazioni.

Ho scritto “finalmente”, ma ho sbagliato. In questa materia non c’è mai una vera “fine” perché non c’è mai un limite conclusivo all’asservimento a cui puntano gli alfieri dell’europeismo. Così come non c’è mai un limite alla tracotanza dell’ospite prepotente il quale abbia deciso di trasformarsi in padrone di casa.

Dopo le fondamentali pronunce della Corte Costituzionale di cui sopra, il nostro Paese ha cominciato a dotarsi di norme sempre più stringenti, e cogenti, in materia di recepimento delle “regole europee”. Norme destinate a disciplinare l’obbligo, per l’Italia, di “digerire” in fretta (e senza troppi capricci) le regole dettate dall’Europa. Addirittura, la legge numero 234 del 24 dicembre 2012 ha introdotto due nuovi strumenti per accelerare questo processo: la cosiddetta legge di delegazione europea (già nel nome è tutta un programma: “delegazione”) e la legge europea.

Con la prima (la legge di “delegazione europea”) il parlamento conferisce le dovute deleghe al governo per il recepimento delle direttive comunitarie. I parlamentari italiani (relegati al rango di meri esecutori di volontà altrui) si cimentano in un’impresa da “passacarte”, cioè danno semplicemente mandato all’esecutivo di conformarsi alle direttive della UE. In pratica, scrivono nero su bianco che i cittadini italiani devono obbedire ai comandi di Eurolandia. Ecco il parlamento ridotto alla stregua di uno scribacchino veicolante al volgo le volontà del sovrano. Uno scribacchino “Speedy Gonzales”, per di più: infatti, il provvedimento deve essere licenziato tassativamente entro il 28 febbraio di ogni anno.

La seconda legge, invece, serve a mettere in riga il Paese rispetto ai desiderata dell’Unione. In pratica, essa modifica o abroga le leggi italiane bocciate o stigmatizzate da sentenze della Corte di giustizia o messe nel mirino dalla Commissione attraverso le procedure di infrazione. Riassumendo: non solo i nostri rappresentanti sono obbligati, nel vero senso della parola, a ratificare, agli albori dell’anno nuovo, migliaia di articoli e commi deliberati altrove per dar loro una verniciatina di italianità. Devono anche farsi carico di eliminare le vecchie leggi che abbiano urtato la sensibilità (per qualche oscura ragione) dei sovrani di Bruxelles.
Risultato? Una legge “italiana” su tre non è davvero italiana. Lo

dice un recente report del Dipartimento Affari Comunitari per «Il Sole 24 Ore», relativo alla produzione normativa del Parlamento e del governo nel quinquennio 2014-2018, che ci consente di fare il punto della situazione su un aspetto cruciale per le stesse sorti della democrazia. Nell’ultimo lustro i nostri politici hanno legiferato parecchio. Per la precisione, sono stati emanati 618 provvedimenti normativi appartenenti al rango della legislazione “ordinaria”. Di questi, ben 187 sono di matrice europea. Per la precisione, 10 leggi e 177 decreti legislativi. A questo punto, fare la proporzione è un gioco da ragazzi. Oltre il 30 per cento delle leggi introdotte in Italia dal 2014 in poi, e a cui noi dobbiamo civile obbedienza, è stato deciso altrove.

Per concludere, resta insuperabile la profezia del Presidente del Consiglio di Stato, Salvatore Giachetti, il quale, in occasione di un convegno dal titolo “Potere discrezionale e interesse legittimo nella realtà italiana e nella prospettiva europea”, di cui torneremo a parlare, disse: «Il risultato di questa irresistibile marcia del diritto comunitario è che oggi abbiamo un diritto nazionale pubblico dell’economia che assomiglia sempre più a un guscio vuoto; […] che sembra sottovalutare il fatto che l’ordinamento comunitario rivendica sempre più chiaramente a sé quella che è la massima prerogativa di un ordinamento sovrano: e cioè la competenza a fissare i limiti entro cui può liberamente muoversi l’ordinamento nazionale. Per quest’ultimo, insomma, ormai in condizione di sovranità limitata, si ha una situazione di libero Stato in libera Unione europea, in un sistema di tipo pre-federale».

Ora però sarà anche chiaro perché abbiamo scritto, in apertura di capitolo, che questo stratagemma è stato combinato con il numero 25 consistente nel sostituire le travi portanti di una casa, di buona manifattura e sostanza, con materiale di scarto come il legno marcio.

La metafora non necessita di spiegazioni: chi, magari di soppiatto e senza farsi scoprire, mina i pilastri e le travi di un edificio, ne otterrà (nel medio o lungo periodo) l’inesorabile rovina.

Nel nostro caso, i pilastri e le travi portanti del nostro ordinamento giuridico sono ovviamente le norme nazionali (comprese quelle costituzionali), mentre il legno marcio è la congerie delle leggi “comunitarie”. Da questo punto di vista, la profezia di Giachetti, anche sul piano simbolico, è più che mai calzante quando egli parla, con immaginifica preveggenza, di “termiti comunitarie”:

«Hanno costruito delle gallerie in durissimo cemento attraverso le quali le norme comunitarie, come un esercito di termiti, sono penetrate nell’ordinamento nazionale e lo stanno progressivamente svuotando».

Ciò spiega perché, negli ultimi anni, molti politici, dei più diversi colori, hanno provato (con l’appoggio di solito corale della grande stampa) a modificare la Costituzione. E ci sono anche riusciti, in parte, attraverso la “riscrittura” degli articoli 81, 97, 117 e 119 avvenuta con legge costituzionale n. 1 del 01.04.2012 quando fu inserito in Costituzione il cosiddetto “pareggio di bilancio”.

Badate bene: introdurre una riforma nella Costituzione è utilissimo per due motivi:

  • 1)  la nuova norma è sovraordinata (cioè vale di più), nella gerarchia 
delle fonti, rispetto a una legge ordinaria;
  • 2)  è molto più difficile modificarla rispetto a una legge ordinaria: 
ci vogliono un doppio passaggio parlamentare e maggioranze qualificate.

L’ossessione di cambiare la nostra carta fondamentale è funzionale all’esigenza di abbattere la Repubblica onde edificare il castello degli Stati Uniti d’Europa. Come vedremo più avanti, questa è una mossa vincente condivisa dai colossi del business mondiale. JP Morgan, nel 2013, espresse l’auspicio che venissero finalmente “rottamate” le costituzioni europee successive alla seconda guerra mondiale perché troppo socialiste e connotate da «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori» e dalla «licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo»32.

Il discorso della sostituzione delle travi buone con quelle di legno marcio vale anche per la questione dello spread e dei limiti di deficit e di debito pubblico. Questi limiti – che comprimono fortemente, o addirittura impediscono, la possibilità per uno Stato di fare spesa pubblica espansiva – semplicemente, non c’erano fino a Maastricht 1992. Con Maastricht, venne introdotta una prima soglia del deficit: il 3 per cento del PIL. Poi, con le riforme del 2012 in attuazione del Fiscal compact, di cui abbiamo dato conto sopra, persino il 3 per cento divenne un miraggio. Fu stabilita una soglia ancora più bassa e rigorosa (lo 0,5 per cento come obbiettivo di medio termine e lo zero come obbiettivo assoluto). Il tutto condito da verifiche sempre più severe da parte della Commissione europea. Proprio attraverso il trattato sul Fiscal compact, infatti, si stabilì il controllo ex ante della Commissione sui piani di emissione del debito pubblico (art. 6) e la possibilità di applicare sanzioni da paura agli Stati riottosi (art. 8).

Ergo? Ergo, non dobbiamo mai dimenticare – troppo presi come siamo dalle questioni economiche e dalle dritte e dai consigli degli economisti – che tutto l’ambaradan europeista si regge su fondamenta giuridiche “nuove” quanto “malate”: pilastri e travi “corrotti” in luogo di quelli originari.

È necessario prestare molta più attenzione ai profili “legali” della costruzione unionista. Ed è imprescindibile, soprattutto, saper discriminare ciò che è materiale “nostro”, solido e prezioso, da ciò che viene importato da fuori per assecondare le mire di un diabolico “servitore” intenzionato a tramutarsi in padrone a casa nostra. Solo così riusciremo a capire quali sono i mattoni buoni, sani, le pietre testate d’angolo (per usare un gergo evangelico) della nostra Repubblica. E quali sono invece i materiali di terza o quarta mano – rispetto a quelli doc – inseriti a bella posta nell’edificio della nostra democrazia per farla implodere dall’interno.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com

 

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