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Il debito pubblico italiano: una scommessa sulla crescita (o sull’inflazione?)

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Con un rapporto Debito/PIL fra il 130 % e il 140%, l’Italia gioca da decenni la partita economica più delicata della sua storia repubblicana. Questo macigno da quasi 3.000 miliardi di euro non è un mero tecnicismo da addetti ai lavori, ma l’ipoteca che grava su ogni politica fiscale, su ogni prospettiva di sviluppo e sul futuro delle prossime generazioni. La posta in gioco è la sostenibilità stessa del nostro sistema Paese.

Di fronte a questa montagna, le strade percorribili per lo Stato sono poche e tutte ad altissimo rischio: l’unica via virtuosa è una crescita economica robusta e duratura; l’opzione più pericolosa, ma spesso evocata nei circoli economici eterodossi, è affidarsi a un periodo di inflazione significativa. Due scenari opposti, entrambi pieni di incognite.

La via maestra della crescita: perché è bloccata

In teoria, la soluzione è semplice ed elegante: se il tasso di crescita nominale del Pil (cioè la crescita reale più l’inflazione) supera il tasso di interesse medio pagato sul debito, il rapporto Debito/PIL inizia a scendere “da solo”. È l’effetto cosiddetto del “denominatore”.

Il problema è che per innescare una crescita strutturale solida servono ingenti investimenti pubblici in infrastrutture, ricerca e istruzione, oltre a un clima che favorisca quelli privati. Qui si scontra con il paradosso italiano: le regole di bilancio europee del Patto di Stabilità e lo spread sui BTP limitano fortemente la capacità finanziaria dello Stato di fare proprio quegli investimenti.

Si crea un circolo vizioso: per ridurre il debito serve crescita, ma per finanziare la crescita servono risorse che il debito elevato e i vincoli Ue rendono proibitive. La via maestra sembra sbarrata.

L’inflazione: la carta nascosta nel mazzo?

Di fronte a questa impasse, molti analisti iniziano a scrutare con interesse crescente la leva dell’inflazione. Un periodo di inflazione moderatamente più alto dei tassi d’interesse eroderebbe il valore reale del debito, alleviando il peso del rimborso. Tuttavia, affidarsi a questo meccanismo non è una politica economica; è, nel migliore dei casi, una scommesse online macroeconomica dalle conseguenze potenzialmente devastanti.

Lo Stato scommetterebbe di poter gestire l’inflazione come un “fuoco controllato”, auspicando che bruci una porzione del debito senza scatenare una spirale prezzi-salari che eroderebbe il potere d’acquisto delle famiglie e senza innescare una fuga degli investitori istituzionali, italiani e stranieri, che farebbe schizzare alle stelle i tassi di interesse e lo spread.

È una scommessa in cui il banco sono la credibilità del Paese e il benessere dei cittadini, e il prezzo di un errore di calcolo sarebbe una crisi finanziaria di proporzioni epocali.

Le regole di Bruxelles: il terzo incomodo

Complica ulteriormente il quadro il vincolo europeo, che rende entrambe le strade impervie. Da un lato, il Patto di Stabilità e il quadro di governance economica dell’UE, se riapplicati in modo rigido, continuano a premere per un risanamento dei conti che rischia di soffocare ogni velleità di manovra espansiva per la crescita.

Dall’altro, la vigilanza sull’inflazione è un mandato primario della Banca Centrale Europea, che interverrebbe con politiche restrittive al primo segnale di deriva dei prezzi al di sopra del suo obiettivo. Questo doppio vincolo riduce drasticamente lo spazio di manovra dell’Italia, confinandola in una pericolosa trappola: non può scommettere liberamente su politiche keynesiane per la crescita, né può lasciar correre l’inflazione senza provocare una reazione immediata e probabile di Francoforte.

È un braccio di ferro asimmetrico che lascia poche carte giocabili.

Conclusioni

In conclusione, il debito pubblico italiano resta una gigantesca ipoteca sul futuro, una partita in continuo rinvio. In assenza di una riforma radicale e politicamente improbabile delle regole di bilancio europee – che dovrebbe concedere margini di investimento per la crescita senza penalizzazioni – o di uno shock di crescita globale trainato dalle nuove tecnologie, l’Italia è costretta a una mera gestione del rischio quotidiano.

La vera “scommessa” del governo non è più su una soluzione risolutiva, ma sulla capacità di sopravvivere allo status quo, mantenendo la fiducia dei mercati giorno dopo giorno, in un equilibrio precario. Si tratta di rinviare il problema, sperando che nel frattempo emerga una carta vincente che, allo stato attuale delle politiche Ue e delle dinamiche economiche globali, non sembra affatto in arrivo.

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