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Cultura

Il Computer di Olivetti, (di Valentino Cecchetti)

Viene riedito il libro che parla della straordinaria avventura di Adriano Olivetti e la breve vita dell’industria informatica italiana, all’avanguardia, ma osteggiata dagli americani e non compresa dai salotti buoni italiani

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La figura imprenditoriale ed umana di Adriano Olivetti ha caratteri senz’altro “bigger than life”, come può notare chiunque abbia cura di addentrarsi nella più completa biografia dell’imprenditore di Ivrea, quella di Valerio Ochetto, Adriano Olivetti. Industriale e utopista, “Le Scie”, Mondadori, 1985 (con una ristampa di Cossavella Editore nel 2015).

Morto a 59 anni in strane circostanze, sul treno che lo portava periodicamente a Losanna (si dice dall’amante, in realtà in visita dal proprio psicanalista), la sua storia ha molti aspetti esaltanti, ma anche molte zone d’ombra, dalle attività di spia per gli inglesi e per la principessa Maria Josè con lo pseudonimo “Brown” dopo l’8 settembre, all’esoterismo e all’appartenenza ai gruppi antroposofici steineriani.

La sue imprese di imprenditore illuminato e innovatore sono a tutt’oggi al centro di numerosi e un po’ confusi “racconti leggendari”, il più noto (e consolidato) dei quali è quello che vede Olivetti “padre” del primo elaboratore elettronico, grazie ad un’iniziativa presa dallo stesso Olivetti e in seguito sviluppata dal figlio Roberto, insieme al gruppo dei geniali ricercatori ospitati nei laboratori dell’azienda di Ivrea.

Per fare un po’ di chiarezza è allora utile prendere in mano proprio la biografia di Ochetto, in particolare le pagine che ricordano la nascita nel laboratorio di Borgolombardo, alle porte di Milano, dell’elaboratore a transistor, dopo le prime sperimentazioni a valvole con Edoardo Amaldi, nella villa di Barbaricina, di proprietà dell’Università di Pisa.

E’ altrettanto noto che a dirigere le ricerche sul calcolatore più tardi chiamato “Elea”, con conduttori al silicio e non più al germanio, è l’ingegnere cinese Mario Tchou, personaggio come Olivetti piuttosto particolare. Anche Tchou morì in circostanze mai ben chiarite (si schianta alle 8 del mattino, mentre si reca al lavoro ad Ivrea, in autostrada su percorso rettilineo, in assenza di traffico). Nacque a Roma, figlio dell’ambasciatore della Cina nazionalista presso la Santa Sede ma, fatto determinante, la sua utilizzazione venne suggerita ad Adriano proprio dagli americani della IBM, mentre Tchou si trovava nei laboratori Watson a New York, dove allora lavorava ai primi elaboratori elettronici (già progettati da IBM attorno alla fine degli anni ’30).

E’ lui, con Olivetti, a contattare ed importare, soprattutto dalla Gran Bretagna, gli ingegneri che entrano a far parte del gruppo multinazionale destinato a sperimentare in Italia il sistema delle “memorie veloci” (e non più a valvole con nuclei di ferrite) messo a punto e sviluppato nel Regno Unito.

Tutto, si dice, parte dalla sfida lanciata dallo stesso Adriano all’industria statunitense con l’acquisizione della storica azienda di macchine per scrivere Underwood (decotta e scaricata sulla Olivetti dagli americani, un  po’ come l’industria automobilistica sulla Fiat di Marchionne negli anni Duemila) e culminata nel tentativo di produrre il primo “calcolatore italiano”, in alternativa proprio ai modelli in corso di creazione negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna.

Mentre se si presta attenzione ai pochi dati sopra ricordati, molte cose lasciano pensare ad una sorta di precoce forma di “delocalizzazione” da parte delle grandi multinazionali che creano aree di sperimentazione, non produttive e di brevetto, in Europa e in Italia, sino al rientro in sede delle ricerche sugli elaboratori, anche con sistemi da romanzo di Ian Fleming, nel caso di Mario Tchou e, forse, dello stesso Adriano.  E’ nota la conclusione della vicenda, all’indomani della morte di Adriano.

L’operazione Elea, portata a termine dal team dell’ingegner Giorgio Perotto, non si tradusse nella trasformazione della Olivetti in prima grande impresa mondiale produttrice di computer. L’esperimento venne bloccato dall’intervento USA, facendo leva sulle difficoltà finanziarie della Olivetti, dopo che Roberto si era posto a capo dell’azienda, trovando l’appoggio del sistema bancario italiano, che non venne in aiuto dell’azienda proprio a causa della sua natura “pionieristica”, sopprimendone proprio il settore informatico.

La famiglia Olivetti venne costretta ad entrare nella cordata “di soccorso” del gruppo formata da Fiat, Mediobanca e Pirelli e fondata sull’automobile e sul famoso “salotto buono” della finanza italiana. Per Valletta l’Olivetti elettronica costituiva un “neo da estirpare” e il settore finì prima alla General Electrics, per inabissarsi di lì a poco e tornare a comparire due decenni più tardi (con molte contraddizioni spiegabili proprio alla luce di queste vicende) negli anni di Carlo Debenedetti.

Cuccia presentò proprio l’elettronica come causa del deficit dell’azienda. Lo ricorda Meryle Secrest ne Il caso Olivetti: quando Nerio Nesi (poi dirigente della BNL e infine membro del partito della Rifondazione comunista) si presentò a richiedere il soccorso di Mediobanca per la Olivetti, in nome della qualità e della capacità d’innovazione dell’azienda, Cuccia rispose che il problema stava tutto nei disastrosi “valori di borsa” dell’azienda. Valori che provocavano forti perdite, ma soprattutto si ponevano nel quadro di un complicato rapporto con gli Stati Uniti. Proprio questo sembra essere il nodo fondamentale.

Non soltanto l’incapacità di comprendere in Italia la portata innovativa dell’azienda e le clamorose possibilità di sviluppo insite nel settore informatico, in anticipo di almeno un decennio rispetto agli Usa. Quanto uno stop di natura geopolitica e di mercato, soprattutto in rapporto al tentativo di approfittare, da parte di Olivetti di una sorta di “proconsolato” informatico in Europa da parte delle multinazionali d’Oltreoceano, concesso facendo leva sulla natura per così dire “permeabile” ed elastica dell’azienda italiana.


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