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Grafico del giorno: non è tutto spread quello che luccica!

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Uno dei recenti “parametri economici” utilizzati per fare quello che sostanzialmente e brevemente potrebbe definirsi “terrorismo economico” è stato lo spread. Lo spread indica un differenziale di prezzo; nel nostro caso, ci si riferiva al differenziale di rendimento tra titoli italiani e tedeschi. Infatti, con il rapporto debito/PIL, oppure lo stock del debito, lo spread è stato scimmiottato a seconda delle necessità, o dell’interlocutore, come un pericolo costante oppure una minaccia sempre presente. Innanzitutto dobbiamo considerare che un parametro preso singolarmente ed in maniera asettica non può farci trarre conclusioni definitive che valgano per “l’intera” economia di un paese o – se si vuole – il suo stato di forma; di poi, non dobbiamo dimenticare che la valutazione del medesimo parametro, effettuata da diverse prospettive, può dare luogo a “risultati” di segno discordante. In questo senso, lo spread è – per chi scrive – un “indicatore” abbastanza ambiguo: cerchiamo di vedere perché. Cominciamo dallo spread della seconda metà del 2011 che ci ha regalato il Governo Monti. È ovvio che con uno spread a 600/700 punti sui titoli di riferimento (Bund) sia, soprattutto nelle attuali condizioni economiche e “politiche”, un grosso problema; ma vederlo come problema dal mero punto di vista dello spread è parziale e fuorviante. Infatti con uno spread molto elevato quello che principalmente contava, non era, appunto, lo spread ex sé ; bensì l’alto tasso di interesse che in quel caso l’Italia pagava, indipendentemente dal rapporto con il tasso di interesse sui titoli della Germania. Quindi è vero che un alto spread è un problema, ma è principalmente un problema di tassi di interesse e non di spread. Come abbiamo visto in altro articolo, storicamente, dal dopoguerra il più alto rapporto debito/PIL (l’attuale) corrisponde al più basso livello di tassi sui titoli (l’attuale); contano anche altri fattori! ma non è quello che ci interessa ora. Quello che ci interessa ora è che come abbiamo appena segnalato il problema spread può anche essere visto, principalmente, come un problema di tassi invece che di spread tout court. Altre volte invece sembrava quasi che si libasse al cielo perché lo spread era diminuito, per poi venire a sapere che la diminuzione non era in realtà una vera diminuzione sui nostri tassi di interesse, bensì un aumento sui tassi di interesse dei Bund. Per noi nulla era cambiato, ma sembrava si festeggiasse una specie di vittoria perché i rendimenti sui titoli tedeschi erano aumentati. Non so voi, a me i tedeschi non stanno molto simpatici, anzi; ma, ancora, non è della simpatia che si vuole trattare e non sembra il caso si lasciarsi prendere la mano per un peggioramento altrui piuttosto che per un miglioramento nostro. Per cui, andiamo avanti comunque segnalando che anche in questo caso si faceva un uso del termine spread abbastanza improprio; in quanto lo si faceva passare come un vantaggio per noi, mentre in realtà non lo era, visto che non erano i tassi sui titoli italiani a diminuire, ma i tassi sui titoli tedeschi ad aumentare. Facciamo qualche esempio pratico. Se i nostri titoli fossero al 4% ed i Bund al 2% lo spread sarebbe a 200 punti base; se i Bund salgono al 3%, ed i bond italiani restano al 4%, lo spread va a 100 punti base. Per noi è cambiato qualcosa dalla diminuzione dello spread?! Abbiamo avuto dei vantaggi?! No, paghiamo sempre il 4% sui nostri titoli. Mettiamo adesso il caso che i nostri titoli scendano al 3% ed i Bund restino al 2%. In questo caso lo spread è uguale al caso precedente, 100 punti base, ma abbiamo avuto un vantaggio – diciamo – “reale”, in quanto il tasso sui nostri titoli è sceso e paghiamo meno interessi, mentre lo spread era a 100 come nel caso precedente in cui a per noi nulla cambiava. Infine, l’ultimo caso con lo spread a 100 punti base: i nostri titoli salgono dal 4% al 5% e quelli tedeschi dal 2% al 4%. In questo caso, con lo spread ancora a 100 punti base, abbiamo un peggioramento, visto che aumentano gli interessi da pagare. Pertanto – diciamo – con spread “costante” a 100 ed una variazione sulla rendita dei titoli abbiamo risultati di segno discordante; quindi sembra chiaro che, generalmente, salvo che in situazioni particolari o critiche (speculazione, scarsa fiducia politica, oppure come supportato da qualcuno riferendosi a quello che è successo nella seconda metà del 2011 “golpe” politici, ecc. ecc.), probabilmente, lo spread, preso singolarmente, non ci dice molto. Infine vediamo l’effetto dello spread sulla posizione patrimoniale internazionale netta dell’Italia come riportato dal Supplemento al Bollettino Statistico della Banca d’Italia dell’aprile 2014 (ho dovuto utilizzare la versione in lingua inglese perché il formato ed anche una parte del testo risultavano migliori per quello che mi interessava).

Non è tutto spread quello che luccica
Come potete vedere a fine settembre 2013 il debito netto estero era di 467 miliardi di €, il 30% del PIL; peggiorato di due punti percentuali, sempre del PIL, rispetto alla fine del 2012. Ma vediamo le ragioni che sono, fondamentalmente, due. La diminuzione del prezzo dell’oro che ha ridotto il valore delle riserve ufficiali e, udite, udite: il declino dello spread! Si avete letto bene, perché “decline” è diminuzione – tradotta nel grafico come declino. Cioè, con la diminuzione dello spread i nostri titoli vengono percepiti come più sicuri sul mercato e, pertanto, aumenta il valore degli strumenti del debito stesso. Anche in questo caso lo spread resta – diciamo – a metà strada; perché mentre una sua diminuzione valutata asetticamente potrebbe sembrare una buona notizia – potrebbe sembrare, ricordiamo gli esempi sopra – per quanto riguarda la posizione sull’estero il risultato è quello di un peggioramento dovuto alla rivalutazione degli strumenti sul debito che si “apprezzano”. Per cui, ancora, lo spread, come ci è stato propinato nel periodo recente, è stato utilizzato più come minaccia e/o deterrente, piuttosto che valutato realmente nel complesso con altri “parametri”. Con questo non si vuole dire che uno spread a 600 punti base non sia un problema, evidentemente lo è: ma anche il 13% di disoccupazione generale è un problema; e pure il 46% di disoccupazione giovanile; ed anche il crollo del PIL; la diminuzione del reddito disponibile; ecc. ecc.; e scimmiottare un parametro che è abbastanza controverso e che, come visto, può voler dire differenti cose anche rimanendo costante, oppure tutto e nulla variando – infatti come detto e sembra chiaro, se lo spread varia ma i nostri tassi no, per noi non cambia niente in termini di interessi che paghiamo sul debito – e, addirittura in caso di diminuzione rivaluta i nostri titoli peggiorando la posizione sull’estero, come un parametro assoluto e, sembra, d’emergenza, sempre pronto per un effetto “al lupo al lupo”, ricorda un esercizio di pura demagogia piuttosto che una “valutazione” serena e, si permetta, seria di economia!

Luca Pezzotta di Economia Per I Cittadini


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