Attualità
Decrescita infelice prima parte (di Francesco Cappello)
Chi promuove la soluzione decrescita, felice o serena, per citare due delle formule più usate, afferma che:
la causa dei mali del mondo sta nella crescita illimitata in un mondo limitato e in un indicatore sbagliato, il PIL. La crisi è un male che non viene per nuocere se ci impedirà di consumare il pianeta.
Il decrescista vede crescita economica, aumento del PIL, consumismo e debito intimamente legati, quale causa di ogni male. La decrescita, afferma, va praticata, da ciascuno, in ogni scelta quotidiana, suggerendo che responsabile delle emergenze ambientali sarebbe il cittadino comune. Propongono, quindi, una rivoluzione etico-culturale che aspirerebbe a coinvolgere la grande maggioranza dell’umanità. Il successo o meno della decrescita dipenderà da quante persone ne capiranno lo spirito e il messaggio mettendolo in pratica.
Le loro richieste, per nulla originali, sono riducibili a due o tre: la necessità di diminuire selettivamente la produzione evitando di produrre o acquistare merci dannose, inutili o, viceversa, utili ma in eccesso rispetto ai bisogni e la scelta di sostituire tecnologie sprecone con altre che usano in modo razionale energia e materiali. Niente di nuovo, se non che, si trascurano i presupposti per raggiungere tali risultati, anche solo in termini di reperibilità dei capitali di investimento in ricerca e sviluppo, necessarie alla implementazione di tecnologie appropriate allo scopo, considerata la loro partecipazione al coro di coloro che demonizzano la spesa pubblica.
Fare senza incrementare il PIL è il loro tormentone. Decrescere, massimizzando l’autoproduzione, per produrre beni piuttosto che merci è un altro dei loro focus senza però domandarsi in quanti oggi abbiano accesso ai mezzi di produzione (terra per l’orto e simili). Per il decrescista basterà sostituire il PIL con più veritieri indicatori di felicità per diffondere la nuova cultura, la morale e il verbo della decrescita.
Innumerevoli gli aspetti critici, del sistema in cui viviamo, del tutto rimossi dalla loro analisi. Ci si chiede, infatti, se sarà sufficiente decrescere secondo i loro criteri perché:
il complesso militare industriale e il suo criminale operato possano svanire nel nulla;
i servizi pubblici non siano più taglieggiati e privatizzati sino alla loro estinzione;
i beni comuni siano salvaguardati, non svenduti, né sacrificati o mercificati.
E perché la popolazione mondiale dovrebbe cominciare a calare in modo incruento e gli ecosistemi risanarsi proporzionalmente?
Come si otterrà il risanamento idrogeologico di cui necessita l’Italia per il quale avremmo bisogno della mobilitazione di interventi per una cifra stimata di 300 miliardi di euro?
Chi salverà il patrimonio culturale, artistico, monumentale italiano? Con quali risorse? Come far crescere lo stato sociale, migliorare la qualità dei servizi pubblici e la distribuzione della ricchezza? Come realizzare la crescita del sistema culturale, della ricerca pubblica, dei servizi pubblici, la tutela e salvaguardia dei beni pubblici, la crescita dello stato sociale?
Come affrontare la crescente povertà assoluta e relativa nonché la disoccupazione crescente?
Come potrà essere arginato il fenomeno della globalizzazione perché smetta finalmente di generare i suoi mali?
E la finanza, e le banche, e le loro speculazioni, che hanno generato derivati e titoli tossici pari a più di 50 volte il PIL mondiale?
E le minacce di guerra? e la nuova escalation tra NATO e BRICS?
Oggi il 40% della popolazione mondiale ottiene meno del 5% del reddito mondiale e allora come ottenere una migliore ridistribuzione della ricchezza in beni e servizi?
Che risposta dare allo stato di cose che vede un miliardo di persone analfabete e che soffrono la fame, quasi tre miliardi senza servizi igienico-sanitari?
È sempre vero che più crescita significa più disastri sociali e ambientali? Non abbiamo forse bisogno di più programmazione economica, sostegno alla piccola e media imprenditoria, più regolamentazione ed investimenti pubblici? Non abbiamo forse bisogno di riscoprire, riaffermare ed attuare pienamente la nostra Costituzione del ’48?
Il pensiero decrescista non si chiede quale rapporto intercorra tra il sistema finanziario monetario dominante e la manifesta crisi di sostenibilità. Esattamente come nella economia neoliberista, che si insegna ora nelle università, la moneta, nel pensiero del movimento per la decrescita felice (MDF), è considerata un elemento neutrale che non avrebbe alcuna influenza pratica sull’andamento dell’economia, sulle sue scelte e vincoli.
La decrescita non distingue, tra i diversi modelli capitalistico-finanziari che si sono succeduti. La conseguenza è che non discernono tra globalizzazione che premia il produttore peggiore, intento a massimizzare i suoi profitti ad ogni costo, incurante della salute delle persone e dell’ambiente, capitalismo finanziario-speculativo o il modello economico virtuoso inscritto nella nostra Costituzione che ha visto la collaborazione tra pubblico e privato secondo criteri Keynesiani, alla base della fondamentale scelta operata dai nostri costituenti in favore della democrazia sociale. Vengono tutti equiparati, come fossero la stessa cosa. Fanno, è proprio il caso di dire, di tutta l’erba un fascio…
Comunitario contro Pubblico
La Decrescita sembra voler sostituire il concetto di Pubblico con quello di Comunitario. Tende ad assecondare la presunta necessità di separare il popolo dallo Stato rischiando di rafforzare la generale tendenza alla dismissione, alla privatizzazione delle imprese pubbliche e allo smantellamento e successiva liberalizzazione dei servizi pubblici, in piena sintonia con l’offensiva culturale, operata a partire dagli anni ’80, dalla ideologia e dalla pratica neoliberista. Il debito, nella narrativa decrescista, è stato genericamente causato da colpevole consumismo e sovrapproduzione.
In “Debiti Pubblici Crisi Economica e Decrescita Felice”(1) il fondatore e presidente del movimento per la decrescita felice, M. Pallante, analizza la questione dei debiti pubblici. A proposito del debito italiano giunge alla conclusione, in sintonia con le concezioni neoliberiste, che il debito di Stati, amministrazioni locali, imprese e famiglie è cresciuto in modo abnorme
“perché la crescita della produzione di merci ha raggiunto un livello tale che se non si spendesse più di quello che sarebbe consentito dai redditi effettivi, crescerebbero le quantità di merci invendute e si scatenerebbe una crisi di sovrapproduzione..”
Per il decrescista la moneta è elemento neutro che non influenza il modo in cui gli individui e gli Stati interagiscono tra di loro e con l’ambiente su scala locale e globale; egli si mostra ignaro dell’imperante meccanismo della moneta a debito e delle sue conseguenze. Non considera, cioè, che il debito coincide con il denaro in circolazione e che l’unico modo, nell’attuale sistema, di immettere liquidità aggiuntiva nel sistema economico è tramite prestiti gravati da interessi e che, di conseguenza, risarcire il debito equivarrebbe a drenare liquidità dal sistema vincolandolo in uno stato deflattivo cronico che avvantaggerebbe solo i creditori. Non è perciò consapevole della trappola neoliberista, innescata dalla liberalizzazione della circolazione dei capitali che ha generato la finanza speculativa e la rarefazione monetaria nell’economia reale né delle conseguenze del mancato esercizio della sovranità monetaria sommato all’uso di moneta “straniera”, irrigidimento del cambio e relative conseguenze sulla competitività della nostra produzione, tutti fattori che operando insieme stanno distruggendo il nostro sistema sociale ed economico.
In altre parole il pensiero decrescista non chiedendosi quale sia l’effetto dell’architettura della moneta sulla forma assunta dalla finanza e dal sistema bancario in rapporto alla sostenibilità sociale e ambientale sceglie la scorciatoia corrente che inscrive, maldestramente, lo Stato e in particolare lo Stato Keynesiano, che “pretende“ di intervenire nell’economia, tra le cause della cattiva crescita.
Ignora, il pensiero decrescista, che per la nostra Costituzione la proprietà privata è ammessa solo quando non in contrasto con la funzione sociale e solo se non recante danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e che la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possano essere indirizzate e coordinate a fini sociali?
La mancata riflessione intorno alla natura della moneta e delle sue funzioni, allinea le tesi del MDF, con la sua critica della crescita infinita a debito e la colpevolizzazione dei consumi, a quelle teorizzate e pretese dalle politiche economiche europee che impongono austerity (la sobrietà dei decrescisti), privatizzazioni, taglio della spesa pubblica e dei relativi servizi pubblici. Tale impostazione teorica proibisce, di fatto, qualsiasi spesa pubblica in disavanzo, come voluto e imposto dalle politiche neoliberiste, fatte proprie dalla Ue, che hanno ripreso il sopravvento a partire dagli anni ’80.
La giusta critica alla inutilità e pericolosità di alcune grandi opere pubbliche, comprese le spese militari, si generalizza all’insieme complessivo della spesa pubblica, senza fare le dovute distinzioni.
Per Pallante, l’importante obiettivo della decrescita ovvero la riduzione selettiva di merci inutili, pericolose o anche dannose può essere raggiunto solo grazie alla consapevole azione del singolo. Il concetto di Pubblico, nella sua narrativa, diviene sinonimo di corruzione:
“Un’opera pubblica è sostenibile ecologicamente solo se non fa crescere il debito pubblico e contribuisce a far diminuire il consumo di risorse”
La bontà degli interventi miranti alla crescita dell’efficienza e alla riduzione degli sprechi energetici diventa, anch’esso, come vedremo, argomento contro la spesa pubblica in disavanzo.
Le colpe di Lord J.M.Keynes
Secondo Pallante e il suo collaboratore Massimo De Maio(2) l’origine di tutti i mali è da identificare nel ’44 a Bretton Woods dove, in risposta al fallimento del libero mercato manifestatasi con la crisi del ’29, Lord J.M Keynes si è reso colpevole
…di spingere l’economia verso una nuova e ancora più veloce crescita esponenziale di produzione e consumo. …verso una crescita senza fine
I nostri individuano il male supremo nella proposta keynesiana di un ruolo dello Stato nell’economia
lo Stato non solo può intervenire nei processi economici, ma ha il dovere di farlo. Spendendo in deficit per sostenere i consumi, la produzione e l’occupazione. Fino a quando aggiungiamo noi, tutto il sistema non va definitivamente in tilt.
Dal loro punto di vista la proposta di Keynes mira esclusivamente a creare artificiosamente una domanda di consumi
In definitiva Keynes propone una forzatura del mercato per sostenere i consumi
ed è per questo che
la crisi è tornata più grave e complessa di prima: oggi non c’è più spazio fisico per far crescere ulteriormente i nostri consumi, abbiamo debiti pubblici e privati che hanno raggiunto dimensioni colossali in tutti i paesi industrializzati e stiamo consumando le risorse della terra a ritmi vertiginosi
Lo Stato, quindi, intervenendo indebitamente, per creare una domanda artificiosa di consumi nel tentativo di portarci fuori dalla crisi, avrebbe generato una crisi ancora più grande, le cui facce sarebbero da una parte il debito pubblico e privato e dall’altra la rottura degli equilibri ecologici vitali, causati dal degrado degli ecosistemi del pianeta.
Sul manifesto-appello di MDF(3) è ribadito che
“Per bloccare la spirale dei debiti pubblici nei paesi industrializzati bisogna prendere immediatamente tre decisioni: sospendere le grandi opere pubbliche deliberate in deficit, ridurre drasticamente le spese militari, ridurre drasticamente i costi della politica.”
Che l’ammontare dei tre fattori di spesa incriminati sia assolutamente irrilevante, rispetto all’entità del debito pubblico, sembra non avere alcuna importanza. Nella loro analisi omettono del tutto che la dinamica di crescita del debito pubblico sia stata causata dalla rinuncia all’esercizio della sovranità monetaria e non dall’eccesso di spesa in grandi opere. Pallante e i suoi collaboratori sembrano ignorare che è stato l’innalzamento dei tassi di interesse, in seguito al divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, a far lievitare, dal 1980 al 1992, il debito da 114 miliardi a 847 miliardi di euro(4) e come tutto il debito sia stato generato dal meccanismo della spesa per interessi, che nel decennio in questione è arrivato a superare il 20%.
I nostri sembrano del tutto ignari dei dati Istat e della Banca d’Italia che documentano come, a fronte di anni di ripetuti avanzi primari, negli ultimi 30 anni il debito pubblico sia cresciuto sino a 2.300 mld di euro, mentre nello stesso periodo, abbiamo pagato più di 3.000 mld di euro di interessi.
Il debito non è perciò stato generato dal fatto che saremmo stati spendaccioni incoscienti al punto tale da farlo enormemente lievitare per alimentare una “artificiosa domanda di consumi“.
Viceversa, malgrado la virtuosità degli italiani che ricevono dallo Stato meno di quanto versino in tasse, il debito continua a crescere nonostante il rigore, le politiche di austerity, le spending review, il calo di consumi, le privatizzazioni, la forzata rinuncia agli interventi di messa in sicurezza del territorio, l’abbandono e la conseguente svendita del patrimonio artistico, culturale (5) e dei beni comuni, il taglieggiamento continuo della spesa pubblica finalizzata al buon funzionamento dei servizi pubblici che avrebbero dovuto garantire quel welfare universale prescritto dalla Costituzione.
Il debito è continuato a salire sino a raggiungere il 130% del PIL.
Il pensiero fisso del decrescista vede però uno Stato che si indebiterebbe esclusivamente per incrementare la crescita dei consumi sotto forma di merci, spesa pubblica per grandi opere, costi della politica.
Più avanti, Pallante critica Stiglitz, reo di riaffermare il ruolo della spesa pubblica in settori di interesse sociale:
Per superare la crisi, Stiglitz ritiene che occorra accelerare la ricollocazione nei servizi ‘che la gente vuole, come il settore educativo e sanitario’ dei lavoratori in esubero nei settori manifatturieri in conseguenza delle innovazioni tecnologiche” e poco più avanti precisa preoccupato o forse solo scandalizzato: “ma l’aumento della spesa pubblica non comporta un aumento dei debiti pubblici?
A scanso di equivoci ribadisce (6)
Le idee di Keynes sono l’àncora di salvezza per l’economia della crescita e segnano la definitiva integrazione degli apparati statali nei sistemi capitalisti moderni. Con Keynes lo Stato diventa un fondamentale operatore economico e tra i suoi obiettivi istituzionali rientra quello di sostenere la crescita di produzioni e consumi.
…al nostro sembra sfuggire la differenza tra il modello economico keynesiano e i sistemi neoliberisti che hanno portato alla crisi economiche del primo novecento e alle guerre mondiali; cosa ben nota, invece, ai nostri costituenti che su questa consapevolezza hanno progettato le linee economiche della nostra Costituzione (7).
Più avanti, nello stesso capitolo, in un paragrafo intitolato – Alle origini del debito – si capisce come il MDF sia stato a favore dell’inserimento del pareggio di Bilancio in Costituzione, art.81:
Per Keynes il pareggio di bilancio nei conti dello Stato non era un problema. Secondo la teoria keynesiana l’incremento della spesa pubblica si sarebbe trasformato in salari e i salari si sarebbero trasformati in consumi. La ripresa della produzione e dei consumi avrebbe generato un gettito fiscale capace di far recuperare allo Stato l’incremento di spesa pubblica. Il sistema economico sarebbe così tornato in una fase di equilibrio che avrebbe consentito una ulteriore fase espansiva.
L’uso sistematico della spesa pubblica come strumento per far fronte a ripetuti fallimenti dei meccanismi di mercato e come sostegno ad una crescita economica forzata rende irraggiungibile il pareggio di bilancio e i sacrifici richiesti periodicamente ai cittadini si rivelano ben presto inutili.
Inoltre, poiché la spesa pubblica è diventata una parte rilevante del PIL, le manovre restrittive preoccupano in modo particolare i sostenitori della crescita: partiti di destra, centro e sinistra, aziende, sindacati, giornalisti e opinionisti sono tutti d’accordo sul fatto che i tagli alla spesa pubblica rallenteranno la crescita economica.
e continua:
Ma, d’altra parte, se non si tagliano le spese dello Stato occorre aumentare la pressione fiscale che deprime da un lato i consumi e dall’altro gli investimenti. In una parola, deprime la crescita. Un circolo vizioso dal quale non si esce.
I decrescisti, da una parte condannano l’indebitamento perché causato, nella loro visione, dalla volontà di far crescere i consumi anche in condizione di sovrapproduzione, dall’altra non si accorgono che la capacità di investimento nello Stato Sociale e quindi l’offerta di beni pubblici dipendono dalla possibilità di fare spesa pubblica e investimenti pubblici che, nella condizione attuale, incrementano il debito e che il tentativo di risarcirlo comporta la svendita di pezzi del demanio, di proprietà pubblica, taglio dei servizi pubblici, al fine di generare la liquidità mancante. D’altro canto il regime della moneta a debito ha ridotto lo Stato alla stregua di qualsiasi privato, costretto, per finanziarsi, a rivolgersi ai mercati finanziari, comprando i capitali ad alti tassi di interesse con la conseguenza che il saldo primario risulta da tempo interamente assorbito dagli interessi pagati quale servizio al debito da cui ci è imposto di rientrare nei pochi anni previsti dal fiscal compact.
Deficit zero, Fiscal Compact e MES rappresentano la morte per soffocamento della democrazia e dello stato sociale. Gli investimenti non possono che diminuire. Le famiglie saranno sempre meno in grado di fare risparmio. Il risparmio esistente non viene impiegato nell’economia reale e quando non stagna viene dirottato ad alimentare la finanza speculativa. Il risultato è che l’economia non può più crescere. Quest’ultima affermazione è riferita, non al riflesso condizionato che si accende nella mente del decrescista che fa sempre e solo riferimento alla crescita di quei consumi di merci che incrementano il degrado ambientale e culturale, ma alla crescita dei servizi pubblici in qualità e quantità per tutti, alla crescita dello stato sociale e del welfare universale che grazie alle politiche neoliberiste, inscritte nei trattati europei, sono oggi in corso di smantellamento progressivo.
F. Cappello autore di Ricchezza fittizia povertà artificiosa Edizioni ETS
https://www.francescocappello.com
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http://www.editoririuniti.it/libri/debiti-pubblici-crisi-economica-e-decrescita-felice.php
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Debiti Pubblici Crisi Economica e Decrescita Felice EDF autori vari 2012
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http://decrescitafelice.it/wp-content/uploads/Manifesto-appello-IT.pdf
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Istat, Conti ed aggregati economici delle amministrazioni pubbliche, Sec 95. Anni 1980-2009, 28 giugno 2010.
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http://www.istat.it/it/files/2014/06/09_Paesaggio-patrimonio-culturale-Bes2014.pdf
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op. già citata: Debiti Pubblici Crisi Economica e Decrescita Felice EDF autori vari 2012
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Gli articoli dal 41 al 47 di matrice keynesiana, sono stati scritti con la consulenza di Federico Caffè, consigliere economico di Meuccio Ruini, presidente del gruppo dei 75 (estensori della carta costituzionale) a cui è dovuto il lavoro di messa a punto del modello economico-sociale recepito dalla nostra Costituzione all’interno della Commissione Economica della Costituente. Il modello economico e perciò socio-politico, è perciò vincolante per Governo e Parlamento. Nessun tipo di revisione è (sarebbe) possibile neppure costituzionale.
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