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Covid19: va bene tutto, ma perché togliere la speranza? (di Debora Billi)

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E’ il mantra di questa epidemia, ripetuto fino alla nausea dal giorno 1 da politici e media di mezzo mondo: “dovremo cambiare per sempre le nostre abitudini”. Una frase che mi ha colpito la prima volta che l’ho sentita e continua a farlo, perché è una scelta comunicativa che non ha alcun fondamento “scientifico” né politico, se non quello di gettare nel panico la popolazione. Del virus si sa poco o nulla, ancora meno si sapeva nel mese di febbraio quando si è cominciato a diffondere a tambur battente tale messaggio. Non si sa se muterà in meglio o in peggio, non si sa se diventeremo immuni, se si troverà un vaccino o una cura. Nel dubbio, chiedendo ad intere popolazioni di chiudersi in casa e mandare a ramengo le proprie attività, si dovrebbe dare un messaggio drastico ma rasserenante: dobbiamo fare tutti enormi sacrifici, ma ne usciremo. Un po’ alla Churchill, tante volte citato in queste settimane.

Invece, al contrario, il messaggio è: non ne usciremo mai. Tutti i giorni il mantra “non ne usciremo” è ripetuto alla nausea dalle prime pagine dei giornali, insieme ad altri messaggi di sapore sempre più terroristico quali (ad esempio la home del Corriere di oggi): “mascherine anche in casa, state a distanza dai familiari, chiudetevi nella vostra stanza”, “una vita in maschera”, “scordiamoci i viaggi”, e anche “cinema, teatri, concerti, ballo, stadio, forse non riapriranno più”.

Non è questo, né è mai stato nella Storia tra guerre, carestie ed epidemie, il metodo per presentare alla popolazione un periodo di pericoli e sacrifici. Lo scopo di una leadership, in un frangente del genere, dovrebbe essere quello di spaventare, sì, per garantirsi l’obbedienza delle regole; ma anche di mantenere la calma per evitare sommosse, di offrire speranza per il futuro, di indurre negli animi determinazione e volontà di agire per tornare alla propria vita il prima possibile. Impegnarsi invece con questa pervicacia e convinzione nel distruggere ogni speranza, nel prospettare a una popolazione oggi rinchiusa una futura vita squallida e consistente solo in casa/lavoro in solitudine, fretta e diffidenza permanenti, significa provocare deliberatamente la disperazione.

Per tacere poi delle operazioni di gaslighting, in cui oggi l’esperto afferma una cosa e domani con la massima serenità il suo completo opposto. Accade sia negli aspetti sanitari che in quelli pratici. E poi la folle stagnazione nei provvedimenti economici, che da settimane “arriveranno” ma non arrivano mai, come se si attendesse un deus ex machina che non pare palesarsi. Qualcuno ha visto i bonus babysitter, che da fine febbraio “sono in arrivo”? E così tutto il resto. Non c’è luce in fondo al tunnel.

L’epidemia c’è. Ma tutto il resto somiglia sempre più ad una gigantesca operazione psicologica sperimentata su milioni di persone per vedere l’effetto che fa. Vogliono cominciare a contare i suicidi? C’è gente, molta, che comincia a dire che la vita futura così come viene prospettata non vale la pena di essere vissuta. Vogliono contare gli impazziti?

Mi auguro di vedere una bella sterzata nel modo con cui si sta comunicando la difficoltà del momento. Perché gettare deliberatamente la popolazione nel panico, con un batti e ribatti quotidiano e slogan che sembrano studiati allo scopo, non depone bene né per i leader né per i media che ci sguazzano. E neanche per il futuro che ci aspetta.

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