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ALL’ITALIANO NON FAR MAI SAPERE CHE SUL SUO RISPARMIO HA PERSO OGNI POTERE di Luigi Luccarini.

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Dato a Roma, addì 30 novembre 2013” il Presidente della Repubblica firmò il Decreto Legge 30 novembre 2013, n. 133, intitolato Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia che in tre suoi  articoli ridisegnava assetto, funzioni e ruolo del nostro Istituto di Vigilanza.

Non si può che partire da qui se vogliamo parlare di banche, gestione del credito in Italia e relative sovranità, interne o sovranazionali, ancora prima che inizi ad operare la commissione di inchiesta finalmente istituita per fare luce su quanto accaduto negli ultimi anni nella materia di risparmio.

Il 30 novembre 2013 in Italia è in carica il governo Letta, quello delle “grandi intese”.

Ministro per l’Economia è Fabrizio Saccomanni, catapultato al MEF direttamente da Banca d’Italia di cui fino al giorno prima era stato direttore generale.

Non è il solo ruolo che il bocconiano Saccomanni riveste, perché in forza di quanto stabilito dal decreto legge 6 luglio 2012, n. 95, emanato dal Governo Monti nel quadro delle politiche di “spending review”, egli era stato anche presidente dell’IVASS, istituto nato dalle ceneri dell’ISVAP (l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private) per esser  accorpato con Banca d’Italia e così assicurare la piena integrazione dell’attività di vigilanza assicurativa con quella bancaria.

Saccomanni ha tra i suoi vice al MEF anche Stefano Fassina, che magari meglio potrà illuminarci, se vorrà, in ordine ad alcuni punti che riguardano quel D.L. 133/2013.

E magari potrebbe farlo anche Carlo Calenda, in quel periodo Vice Ministro allo Sviluppo Economico, per Scelta Civica di Monti.

Perché questo tuffo nel (recente) passato?

Per questo:

E’ uno stralcio dell’art. 4 del D.L. 133/2013 che riguarda il capitale della Banca d’Italia e, sì, avete capito bene, prevedeva che ne potessero essere quotisti anche soggetti giuridici stranieri, istituti bancari ed assicurativi, con sede, e quindi in senso lato nazionalità, in un paese “diverso dall’Italia”, purché interno all’EU.

L’unico limite posto da questa norma era quello che limitava il possesso di partecipazioni, per ciascun investitore, al 5% del totale (poi ridotto al 3%) ma non esisteva alcuna clausola di sbarramento che garantisse che da quell’addì 30 novembre 2013 Banca d’Italia diventasse, tempo per tempo, patrimonio di un pool di banche estere o comunque sotto il loro controllo maggioritario.

La vicenda onestamente non ricordo se abbia suscitato all’epoca particolari interesse e polemica.

L’impostazione del D.L. 133/2013 venne più che altro criticata (soprattutto su “il Fatto Quotidiano”) per ciò che riguardava i meccanismi di rivalutazione del capitale di Banca d’Italia, di cui avrebbero beneficiato due istituti che in quel momento ne detenevano una percentuale esorbitante e che avrebbero perciò dovuto alienarne gran parte, incassando milioni, se non miliardi di Euro.

Non è necessario far nomi, si intuisce facilmente di quali banche parliamo.

Un indizio: di una di queste Saccomanni è diventato poi presidente del CdA.

Fatto sta comunque che quando poi il Senato, in sede di esame del DDL di conversione del decreto, modificò quell’art. 4, escludendo tra le categorie di investitori che potevano acquisire le quote di partecipazione al capitale dell’Istituto i soggetti aventi sede fuori dall’Italia, il Governatore Visco, in audizione del 13 dicembre, chiarì “che la decisione di aprire il capitale della Banca a soggetti di altri Paesi dell’Unione era una decisione politica e che non contrastava con la collocazione dell’Istituto nella governance economica europea, in quanto restano ferme la non ingerenza dei partecipanti negli affari istituzionali stabilita dalla legge nazionale in conformità con i Trattati Europei, nonché la delimitazione dei loro diritti patrimoniali che il decreto legge precisa e circoscrive” e lo stesso MEF (dunque Saccomanni) con comunicato piuttosto polemico del 2 dicembre 2013 (lo puoi leggere in http://www.mef.gov.it/ufficio-stampa/comunicati/2013/comunicato_0243.html) prendeva posizione dura e pura al riguardo: “non c’è alcuna violazione della Costituzione nelle norme sulla rivalutazione delle quote del capitale della Banca d’Italia per le quali il Governo ha utilizzato lo strumento del decreto-legge. Le critiche sollevate sono assolutamente immotivateL’assetto della Banca d’Italia, fondato sulla partecipazione di soggetti privati, ha garantito nel tempo questi elementi, è stato considerato conforme ai principi europei al momento dell’ingresso dell’Italia nella moneta unica e va preservato.

In conformità ai Trattati europei ed ai principi di libertà in essi contenuti poi, non si può escludere che i soggetti autorizzati a partecipare al capitale della Banca d’Italia possano avere anche sede legale e amministrazione centrale in uno Stato dell’Unione diverso dall’Italia”.

Quindi direi che tutto sommato, vista la scarsa attenzione mediatica al problema di allora, alla fine ci è andata piuttosto bene.

La legge di conversione del DL 133/2013, infatti non solo ha escluso la possibilità che soggetti stranieri partecipino al capitale di Banca d’Italia ma ha altresì introdotto una disposizione, il comma 4 bis dell’art. 4, che stabilisce che:

«Nei casi in cui i soggetti di cui alle lettere  a)  e  b) del comma 4 dovessero perdere  il  requisito  di  sede  legale  o  di amministrazione centrale in Italia si dovrà procedere  alla  vendita delle quote a favore di un soggetto  in  possesso  dei  requisiti di territorialità richiesti ai sensi delle lettere a) e b) del comma 4. Fino alla vendita delle predette quote  rimane  sospeso  il  relativo diritto di voto».

E questa norma, contenuta nella legge 29 gennaio 2014, n. 5 rappresenta in fondo l’ultimo baluardo di nazionalità della nostra Banca Centrale.

Perché per il resto, si tratta ormai di un istituto organicamente inserito nel MVU, meccanismo di vigilanza unico composto dalla BCE e dalle autorità nazionali competenti, creato dal pressochè coevo Regolamento EU del 15 ottobre 2013 n. 1024 che attribuisce tali poteri all’Istituto di Francoforte da far ritenere che quelli residui della Banca d’Italia e per traslato degli organi costituzionali deputati alla “tutela del risparmio in tutte le sue forme” secondo quanto dispone l’art. 47 della Costituzione siano diventati del tutto inadeguati.

Anche perché disposizioni, come quella contenuta nell’art. 4, del suddetto Regolamento secondo cui BCE ha competenza esclusiva nel rilasciare e revocare l’autorizzazione agli enti creditizi sottoposti al suo controllo (più di 120), ed altre contenute in quello stesso articolo e nei successivi 5 e 6, come ad esempio quella che le attribuisce il potere di applicare, qualora lo ritenga necessario, in vece delle autorità nazionali competenti requisiti più elevati in materia di riserve in aggiunta ai requisiti in materia di fondi propri, di fatto hanno spogliato la vigilanza di Bankitalia di gran parte delle sue prerogative tipiche.

Non bastasse questo, normative come quelle relative al bail-in sono state introdotte nel nostro paese in assenza di quelle cautele che in altri hanno invece operato come necessario contrappeso.

Perché tutti quelli che vi raccontano che il bail-in è un istituto di diritto anglosassone, in modo da farvi detestare paesi e popoli che ne hanno in qualche modo suggerito l’adozione, si dimenticano sempre di dirvi che nel Regno Unito, ad esempio, nel dicembre 2013 è entrato in vigore il Banking Reform Act, con l’intento di sottrarre i clienti dalle perdite accumulate dalla banca, mediante l’imposizione di una separazione (un ring-fence) tra le attività al dettaglio (depositi e prestiti) e le attività di investimento, rafforzato dal divieto di finanziare gli investimenti con i depositi raccolti affidato al controllo di una nuova autorità di vigilanza (Prudential Regulation Authority). Mentre negli Stati Uniti, invece, già la sec. 619 del Dodd-Frank Act del 2010 vietava alle banche che raccolgono depositi di impegnarsi nel proprietary trade e in finanziamenti a hedge funds o a fondi di private equity, delegando poi a cinque autorità di vigilanza il compito di articolare questa disposizione nota come la Volcker rule, ulteriormente rafforzata nel 2013.

Meccanismi di protezione del risparmio, inteso in senso stretto che in Italia non esistono, perché in realtà lo stesso meccanismo di risoluzione unico (SRM) introdotto dal Regolamento 806/2014 ha lo scopo di garantire una risoluzione delle banche in dissesto, con costi minimi per i contribuenti e per l’economia reale, che sono soggetti ben diversi dal risparmiatore.

In effetti studiosi (veri, non quelli che si limitano alle battute su Twitter) hanno fatto rilevare che nel contesto dell’UE, non solo non si è percepita alcuna reazione premiale a favore del risparmio, ma che nell’ottica di una sua stretta interconnessione con la moneta ed il credito, il risparmio vi appare soltanto destinato a seguire in scia le altre due, con la conseguenza di vedere così avvilite le valenze riscontrabili nell’art. 47 Cost., soprattutto in assenza di una simile disposizione a livello comunitario.

D’altra parte, come noto, sotto il profilo economico, le politiche antinflazionistiche strumentali al più ampio obiettivo di mantenimento della stabilità dei prezzi affidato a BCE (art. 127 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) producono spesso conseguenze di segno opposto, vale a dire fenomeni di deflazione che a loro volta comportano l’erosione del valore del risparmio.

E come una situazione di tal genere possa conciliarsi con l’art. 47 Cost. nessuno si prende la briga di spiegarlo.

Probabilmente perché non potrebbe farlo senza rischiare di cadere nel ridicolo.

Perciò non dobbiamo stupire più di tanto quando leggiamo che persino da alte cariche istituzionali arrivano segnali di preoccupazione o addirittura allarmi sul fatto che un ruolo più invasivo del Parlamento in materia di gestione del credito rappresenti un pericolo per la stabilità dell’intero sistema.

Si tratta per lo più di voci che appartengono a quello stesso mondo politico che nel periodo che tra il 2011 ed il 2015 ha consentito che l’Italia soffrisse non una limitazione di sovranità, quanto addirittura una vera e propria forma di esproprio delle attività legate alla raccolta ed alla valorizzazione del risparmio dei suoi cittadini.

Era il momento in cui si tentava di dare fondo alla cessione degli asset più remunerativi del paese, facendo finta di ragionare in termini di spending review. Il risparmio privato ne era senz’altro uno, certamente il più ghiotto.

E non è un caso che il DL 133/2013 si occupa nello stesso tempo della vendita di immobili pubblici e di Banca d’Italia.

Era anche il momento in cui si riteneva che gli italiani non avessero più titolo per governarsi da soli, perché essenzialmente inetti nel farlo.

A parte quei pochi, i “competenti”, che avevano titolo per poter gestire quelle vendite. E guadagnare un posto al sole per poter poi garantirsi l’amministrazione delegata di ciò che rimaneva disponibile sul territorio dello stato.

Certo, affermare oggi che Banca d’Italia è indipendente nell’esercizio dei suoi poteri è sottolineare un’ovvietà, visto per il principio risulta dall’art. 4 del DL. 133/2013.

Che però essendo norma di legge ordinaria può essere sempre modificata.

Anche perché quell’art. 4 è altrettanto chiaro nello stabilire la banca centrale della Repubblica italiana è oggi soltanto parte integrante del Sistema Europeo di Banche Centrali e autorità nazionale competente nel meccanismo di vigilanza unico di cui all’articolo 6  del  Regolamento (UE) n. 1024/2013 del Consiglio del 15 ottobre 2013.

Insomma indipendente dalla nazione che dovrebbe servire come organo, dal momento che si tratta pur sempre di un Ente pubblico di diritto italiano; organico piuttosto ad un soggetto terzo, sovranazionale, non elettivo, a cui nessuna norma ha mai attribuito il potere di violare o comunque pretermettere la portata di precetti costituzionali della Repubblica Italiana.

Così è, se vi pare ed anche se non vi pare

E non venitemi a dire, per favore, che una delega di sovranità di questo genere è consentita dall’art. 11 della nostra Costituzione perché altrimenti vi deve essere revocato d’ufficio qualsiasi titolo accademico che ne abbia implicato lo studio.

Anche la licenza media, se necessario.

@luigiluccarini


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