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Adam Smith: il padre dell’Economia che non usò mai il termine “Capitalismo”

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Adam Smith è stato un filosofo e, con l’occhio postumo,  economista scozzese, considerato il padre del capitalismo moderno, a che se lui non utilizzò mai la parola “Capitalismo”, parlando al limite di “Società dei commercianti”. Comunque cerchiamo di darvi qualche notizia su di lui che, magari, vi svegli la curiosità e vi spinga ad approfondire.

Vita e studi

Nacque a Kirkcaldy, in Scozia, nel 1723 e crebbe in una famiglia di mezzi modesti, ma sicuri, nonostante il padre morisse prima della sua nascita. Nonostante le difficoltà incontrate all’inizio della sua vita, Smith frequentò l’Università di Glasgow e successivamente il Balliol College dell’Università di Oxford, dove studiò filosofia e letteratura. Si troò molto bene in Scozia, mentre i rapporti con i docenti inglesi non furono ottimali, e questo ne influenzò la vita e le opere.

Dopo aver completato la sua formazione, Smith tornò in Scozia e iniziò a insegnare all’Università di Edimburgo. In questo periodo sviluppò le sue idee sull’economia, fortemente influenzate dalle filosofie dell’Illuminismo. Smith aveva una forte ammirazione per Hume e per Locke, anche se soprattutto il primo, accusato di essere ateo, non era ben visto ad Oxford.

Come giovane filosofo, Smith sperimentò diversi argomenti, e c’è una raccolta di frammenti di scrittura che completano i suoi appunti di lezioni e i primi saggi. Questi includono brevi esplorazioni delle “Logiche antiche”, della metafisica, dei sensi, della fisica, dell’estetica, dell’opera di Jean-Jacque Rousseau e di altri argomenti assortiti. I contemporanei illuministi scozzesi di Smith condividevano l’interesse per tutti questi temi.

Dopo aver ricoperto la cattedra di logica a Glasgow per un solo anno (1751-1752), Smith fu nominato alla cattedra di filosofia morale, la posizione originariamente occupata da Hutcheson. Scrisse La teoria dei sentimenti morali, pubblicata per la prima volta nel 1759, mentre ricopriva questa posizione e, presumibilmente, mentre sperimentava molte delle sue discussioni in classe. Sebbene parlasse molto bene di questo periodo della sua vita e nutrisse un profondo interesse per l’insegnamento e la formazione di giovani menti, Smith si dimise nel 1764 per fare da precettore al Duca di Buccleuch e accompagnarlo nei suoi viaggi.

Duranti questi viaggi, soprattutto in Francia, venne in contatto con i filosofi illuministi francesi e questo contatto influenzò notevolmente le sue opere future, soprattutto le sue principali, spingendolo verso l’economia.

Nel 1776, tornato in patria,  pubblicò la sua opera magna, “An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations” (Un’indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni), che sarebbe diventata uno dei libri più influenti mai scritti sul tema dell’economia.

Quest’opera fu sempre più diffusa e le sue quattro riedizioni riempirono, con l’insegnamento, la sua vita fino alla morte avvenuta nel 1790, l’anno dopo po scoppio della Rivoluzione francese.

Un’indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni

La Ricchezza delle Nazioni (WN) fu pubblicata nel marzo del 1776, quattro mesi prima della firma della Dichiarazione d’Indipendenza americana. È un libro molto più ampio de La teoria dei sentimenti morali: senza contare le appendici e gli indici, conta 947 pagine. Per chi lo legge per la prima volta, quindi, può sembrare più scoraggiante del precedente lavoro di Smith, ma per molti versi è in realtà una lettura più semplice. Con l’avanzare dell’età, lo stile di scrittura di Smith è diventato più efficiente e meno scorrevole, ma la sua voce autoriale è rimasta colloquiale.

Il testo è suddiviso in cinque “libri” pubblicati in uno, due o tre volumi rilegati a seconda dell’edizione. I primi libri delineano l’importanza della divisione del lavoro e dell’interesse personale. Il secondo discute il ruolo delle scorte e del capitale. Il terzo fornisce un resoconto storico dell’aumento della ricchezza dai tempi primitivi fino alla società commerciale. Il quarto libro analizza la crescita economica che deriva dall’interazione tra i settori urbani e rurali di una società commerciale. Il quinto e ultimo libro presenta il ruolo del sovrano in un’economia di mercato, sottolineando la natura e i limiti dei poteri governativi e i mezzi con cui le istituzioni politiche devono essere pagate. Smith, come i suoi contemporanei illuministi scozzesi, accosta periodi diversi per trovare una guida normativa. Il libro può essere considerato come un testo di filosofia della storia, oltre che come un testo di economia.

Il suo risultato più impressionante ne La ricchezza delle nazioni è la presentazione di un sistema di economia politica. Smith rende interdipendenti e coerenti elementi apparentemente disparati. Riesce a prendere il suo approccio newtoniano e a creare una narrazione di potenza e bellezza, affrontando il tema filosofico insieme a quello economico, descrivendo il comportamento umano e la storia e prescrivendo le azioni migliori per il miglioramento economico e politico. E lo fa partendo da un primo principio controverso almeno quanto la frase con cui inizia La teoria dei sentimenti morali. Egli inizia l’introduzione affermando che:

Il lavoro annuale di ogni nazione è il fondo che la rifornisce originariamente di tutte le necessità e convenienze della vita che essa consuma annualmente, e che consistono sempre o nel prodotto immediato di quel lavoro, o in ciò che viene acquistato con quel prodotto da altre nazioni.

La teoria economica dominante all’epoca di Smith era il mercantilismo. Secondo questa teoria, la ricchezza di una nazione doveva essere valutata in base alla quantità di denaro e di beni che si trovavano all’interno dei suoi confini in un determinato momento. Smith chiama questo “stock”. I mercantilisti cercavano di limitare il commercio perché questo aumentava i beni all’interno dei confini che, a loro volta, si pensava aumentassero la ricchezza. Smith si oppose e la frase citata sopra spostò la definizione di ricchezza nazionale su un altro standard: il lavoro.

Il lavoro porta ricchezza, sostiene Smith. Più si lavora e più si guadagna. Questo fornisce agli individui e alla comunità le loro necessità e, con una quantità di denaro sufficiente, offre i mezzi per rendere la vita più conveniente e talvolta per perseguire ulteriori guadagni.

L’argomento centrale di Smith ne “La ricchezza delle nazioni” è che gli individui che agiscono nel loro interesse personale possono involontariamente portare benefici alla società nel suo complesso. Questo concetto, noto come “mano invisibile”, è diventato una pietra miliare del capitalismo moderno. Secondo Smith, quando gli individui possono perseguire liberamente i propri interessi, cercheranno naturalmente i modi più efficienti per produrre beni e servizi, il che porta a un aumento della produttività e dell’innovazione. Questo, a sua volta, porta benefici alla società, creando posti di lavoro, aumentando la ricchezza e migliorando il tenore di vita.

Una delle intuizioni chiave de “La ricchezza delle nazioni” è che i governi non dovrebbero interferire con il naturale funzionamento del mercato. Smith riteneva che gli interventi governativi nell’economia, come tariffe, sussidi e altre forme di protezionismo, potessero solo distorcere il funzionamento naturale del mercato e creare inefficienze. Egli sosteneva invece che i governi dovessero concentrarsi sulla protezione dei diritti di proprietà, sull’applicazione dei contratti e sulla fornitura di beni pubblici che non possono essere forniti efficacemente dal settore privato.

Un altro aspetto importante della teoria economica di Smith è il concetto di divisione del lavoro. Egli osservò che quando i lavoratori si specializzano in compiti specifici, diventano più abili ed efficienti in quei compiti, portando a un aumento della produttività. Questo, a sua volta, consente alle imprese di produrre più beni e servizi a costi inferiori, a vantaggio dei consumatori e della crescita economica. Tuttavia, Smith riconosceva anche che la divisione del lavoro può portare all’alienazione e alla disuguaglianza se i lavoratori diventano troppo specializzati e perdono di vista il più ampio contesto sociale ed economico in cui operano.

Per Adam Smith la ricerca universale della ricchezza ha anche una funzione sociale e permette di migliorare la situazione di tutti: “opulenza universale che si estenda ai ranghi più bassi del popolo”. In altre parole, Smith ritiene che un sistema commerciale migliori la vita dei più svantaggiati della società; tutti gli individui dovrebbero avere le necessità necessarie per vivere ragionevolmente bene. È meno interessato alle “comodità” e ai “lussi”; non sostiene un sistema economicamente egualitario. Egli sostiene invece un sistema commerciale che aumenti sia la ricchezza generale che quella particolare dei membri più poveri. Lui scrive:

Questo miglioramento della situazione degli strati più bassi della popolazione deve essere considerato un vantaggio o un inconveniente per la società? La risposta sembra a prima vista abbondantemente semplice. Servi, operai e operai di vario genere costituiscono la parte di gran lunga maggiore di ogni grande società politica. Ma ciò che migliora la situazione della maggioranza non può mai essere considerato un inconveniente per l’insieme. Nessuna società può certamente essere fiorente e felice se la maggior parte dei suoi membri sono poveri e miserabili. È equità, inoltre, che coloro che nutrono, vestono e alloggiano tutto il popolo, abbiano una parte del prodotto del loro lavoro tale da essere essi stessi abbastanza ben nutriti, vestiti e alloggiati. 

Questa citazione dovrebbe essere fatta leggere a tanti che oggi si richiamano ad Adam Smith e che, in suo nome, giustificano  le più nefaste discriminazioni sociali ed economiche che Smith non amava, come vedeva un segno di arretramento sociale la persistenza della schiavitù.

Nonostante i numerosi contributi di Adam Smith al campo dell’economia, egli non fu esente da critiche. Alcuni hanno sostenuto che il suo concetto di mano invisibile è eccessivamente semplicistico e non tiene conto delle conseguenze negative di mercati non regolamentati, come il degrado ambientale e la disuguaglianza di reddito. Altri hanno criticato il suo punto di vista sulla divisione del lavoro, sostenendo che non affronta adeguatamente il potenziale di sfruttamento e alienazione che può derivare dalla specializzazione.

Oltre al suo lavoro sull’economia, Adam Smith ha dato anche contributi significativi alla filosofia e all’etica. Era un forte sostenitore dei principi di libertà e giustizia e riteneva che gli individui dovessero essere liberi di perseguire i propri interessi, purché non danneggiassero gli altri. Sottolineò inoltre l’importanza dell’educazione e dei sentimenti morali nel plasmare il comportamento individuale e nel promuovere il benessere sociale.

Ed ora tocca a voi approfondire.

Tra le fonti online consigliamo: Adam Smith


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