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Il sistema economico UE? La parodia del paradosso dell’incubo di un contabile.

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Continuano a riempirci la testa di fandonie. Ci raccontano che abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità sperperando troppi soldi e che oggi dobbiamo “tirare la cinghia” ed attuare il pareggio in bilancio per ridurre il debito.

Un simile concetto applicato agli Stati, e dunque al diritto pubblico, è semplicemente demenziale. Denota la stessa ignoranza di chi se ne andasse in giro ad affermare che uno più uno fa quattro anziché due. Non siamo nel campo delle opinioni dunque e non è accettabile che ci sia qualcuno che ancora lo nega. Tale reazione è solo frutto di mancanza di conoscenza e di una costante cooptazione da parte di chi utilizza tale principio, in totale malafede, con il preciso fine di cancellare gli Stati per sostituirli con il potere finanziario.

Ovviamente il criterio del pareggio in bilancio è invece perfettamente applicabile alla nostra economia “domestica” dove è chiaro che non possiamo spendere più di quanto guadagnamo, se lo facciamo ci indebitiamo davvero.

Le nazioni  possono dotarsi di tutte le meraviglie che la tecnica e le risorse naturali consentono, non ipotecano il futuro se lo fanno, ma lo migliorano.

Le nazioni non hanno limiti di spesa, non li hanno per pagare le pensioni, non li hanno per pagare la sanità, non li hanno per pagare i disoccupati. Gli unici limiti sono quelli naturali. Le nazioni potrebbero per assurdo decidere di mantenere nell’ozio tutti i cittadini accreditandogli, creandoli dal nulla, importi in denaro illimitati. A quel punto però tutti diventerebbero poverissimi, non avrebbero neppure da mangiare. Ma questo avverrebbe non certo perché hanno speso troppo, ma esclusivamente perché se nessuno lavora anche i supermercati restano vuoti! Insomma solo una mente obnubilata potrebbe non capire che noi disponiamo unicamente di ciò che siamo stati in grado di creare con le nostre capacità e le nostre risorse naturali e non di ciò che siamo in grado di pagare.

Le nazioni si possono definire tali solo se hanno la sovranità, ed una delle prerogative fondanti di uno Stato è quella di poter emettere dal nulla tutta la moneta che ritiene necessaria alla propria economia. Ma non voglio rubare ulteriore spazio al motivo per cui scrivo questo post, ovvero riportarvi le parole di un passo di Keynes nel quale è argomentato brillantemente esattamente quanto dico.

John Maynard Keynes, padre indiscusso della macroeconomia, si è spinto addirittura sino a dare dell’imbecille a chi immagina la società come la parodia dell’incubo di un contabile, in cui non si può creare ciò di cui siamo capaci per presunta mancanza di denaro. Questa è esattamente la struttura dell’UE.

In “Autarchia economica” (1933) l’economista scrive:

“C’è un’altra spiegazione, io credo, di questo nuovo orientamento delle nostre menti. Il secolo XIX aveva esagerato sino alla stravaganza quel criterio che si può chiamare brevemente dei risultati finanziari, quale segno della opportunità di una azione qualsiasi, di iniziativa privata o collettiva. Tutta la condotta della vita era stata ridotta a una specie di parodia dell’incubo di un contabile. Invece di usare le loro moltiplicate riserve materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, gli uomini dell’ottocento costruirono dei sobborghi di catapecchie; ed erano d’opinione che fosse giusto ed opportuno di costruire delle catapecchie perché le catapecchie, alla prova dell’iniziativa privata, «rendevano», mentre la città delle meraviglie, pensavano, sarebbe stata una folle stravaganza che, per esprimerci nell’idioma imbecille della moda finanziaria, avrebbe «ipotecato il futuro», sebbene non si riesca a vedere, a meno che non si abbia la mente obnubilata da false analogie tratte da una inapplicabile contabilità, come la costruzione oggi di opere grandiose e magnifiche possa impoverire il futuro (n.d.s. Eppure sentite dire spesso proprio che abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità da odierni imbecilli che purtroppo decidono del nostro futuro). Ancor oggi io spendo il mio tempo, – in parte vanamente, ma in parte anche, lo devo ammettere, con qualche successo, a convincere i miei compatrioti che la nazione nel suo insieme sarebbe senza dubbio più ricca se gli uomini e le macchine disoccupate fossero adoperate per costruire le case di cui si ha tanto bisogno, che non se essi sono mantenuti nell’ozio. Ma le menti di questa generazione sono così offuscate da calcoli sofisticati, che esse diffidano di conclusioni che dovrebbero essere ovvie, e questo ancora per la cieca fiducia che hanno in un sistema di contabilità finanziaria che mette in dubbio se un’operazione del genere «renderebbe». Noi dobbiamo restare poveri perché essere ricchi non « rende ». Noi dobbiamo vivere in tuguri, non perché non possiamo costruire dei palazzi, ma perché non ce li possiamo «permettere».

La stessa norma, tratta da un calcolo finanziario suicida, regola ogni passo della vita. Noi distruggiamo le bellezze della campagna perché gli splendori della natura, accessibili a tutti, non hanno valore economico. Noi siamo capaci di chiudere la porta in faccia al sole e alle stelle, perché non pagano dividendo. Londra è una delle città più ricche che ricordi la storia della civiltà, ma non si può «permettere» i massimi livelli di civiltà di cui sono capaci i suoi cittadini, perché non «rendono».

Se io oggi avessi il potere, mi metterei decisamente a dotare le nostre capitali di tutte le raffinatezze dell’arte e della civiltà, ognuna della più alta e perfetta qualità, di cui fossero individualmente capaci i cittadini, nella persuasione che potrei permettermi tutto quello che potessi creare, – e nella fiducia che il denaro così speso non solo sarebbe preferibile ad ogni sussidio di disoccupazione, ma renderebbe i sussidi di disoccupazione superflui. Con quello che abbiamo speso in Inghilterra, dalla guerra in poi, in sussidi di disoccupazione, avremmo potuto fare delle nostre città, i maggiori monumenti dell’opera dell’uomo.

O anche, per fare un altro esempio, sino a poco tempo fa, abbiamo considerato come un dovere morale di rovinare i lavoratori della terra e di distruggere le secolari tradizioni collegate all’agricoltura, solo che potessimo ottenere un filo di pane mezzo centesimo più a buon mercato. Non c’era più niente che non fosse nostro dovere di sacrificare a quest’idolo, Moloch e Mammone insieme; perché noi fiduciosamente credevamo che l’adorazione di questi mostri avrebbe vinto i mali della povertà e condotto la prossima generazione, sicuramente e comodamente, in sella agli interessi intrecciati, verso la pace economica.

Oggi noi soffriamo una delusione, non perché siamo più poveri di quello che eravamo, – al contrario, anche oggi, in Inghilterra almeno, noi godiamo di un tenore di vita più elevato che in ogni altra epoca, – ma perché ci pare che altri valori siano stati sacrificati e perché ci sembra che siano stati sacrificati senza necessità. Infatti, il nostro sistema economico non ci permette davvero di sfruttare al massimo le possibilità di ricchezza economica offerteci dai progressi della tecnica, resta anzi ben lontano da questo ideale, e ci fa sentire come se avessimo potuto benissimo usare tutto il margine disponibile in tanti altri modi più soddisfacenti.

Ma, una volta che ci siamo permessi di disubbidire al criterio dell’utile contabile, noi abbiamo cominciato a cambiare la nostra civiltà. E noi dobbiamo farlo molto prudentemente, cautamente e coscientemente. Perché c’è un ampio campo dell’attività umana in cui sarà bene che conserviamo i consueti criteri pecuniari. È lo Stato, piuttosto che l’individuo, che bisogna cambi i suoi criteri. È la concezione del Ministro delle Finanze, come del Presidente di una specie di società anonima, che deve essere respinta. Ora, se le funzioni e gli scopi dello Stato devono essere di tanto allargati, le decisioni riguardo a ciò che, parlando grossolanamente, dovrà essere prodotto nel paese e ciò che dovrà essere ottenuto in cambio dall’estero, dovranno essere tra le più importanti della politica”.

Keynes dice cose così ovvia da rendere surreale l’incubo in cui siamo sprofondati. Tutti disoccupati pur di non spendere, riteniamo che l’economia debba svilupparsi sul debito privato (l’unico che andrebbe ridimensionato!) anziché sul credito pubblico (smettiamo di chiamare debito ciò che, se deteniamo la sovranità, costituisce la nostra ricchezza), che ogni Stato può creare dal nulla.

Usciremo mai da questo incubo?

Combattendo l’ignoranza con durezza e senza mezze misure forse si. Ed il primo da combattere è proprio chi pedissequamente persegue le politiche che portano esattamente l’Italia sempre più dentro l’incubo del contabile e sempre più lontana dalla sua sovranità.

Uno su tutti? Matteo Renzi e la sua impreparazione che portano il Paese dritto verso il baratro…

 

 

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