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Un articolo scritto per il mondo e che ben si adatta all’Italia, per quanto riguarda un partito come il M5S. L’autore è Robert D.Kaplan, il famoso editorialista del New York Times, del Washington Post e di altri grandi giornali. Manca la breve introduzione e il titolo originale è “Perché tanta anarchia?” Il testo integrale è reperibile nella nota rivista americana di geopolitica Stratfor, n. 0206.
Significative parti della Terra, piuttosto che seguire i dettami del Progresso e del Razionalismo, sono ogni giorno più difficili da governare, soprattutto perché non ci sono prove sufficienti dell’emergere di una diffusa società civile. La società civile, in molte zone della Terra, è ancora la sfera di relativamente pochi membri delle élite, nelle capitali: esattamente le persone con cui i giornalisti occidentali trovano più comodo avere rapporti di amicizia e di interviste, sicché le proporzioni e l’influenza di una simile classe è esagerata dai media.
Tuttavia l’anarchia scatenata nel mondo arabo, in particolare, ha altre radici e di queste radici non mi sono occupato abbastanza nel mio articolo [del 1994, di cui si parla nell’introduzione NdT].
La fine dell’imperialismo. Esattamente. L’imperialismo ha fornito alla maggior parte dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina sicurezza e ordine amministrativo. Gli europei dividevano il pianeta in un reticolo di entità – sia artificiali sia no – e governavano. Può non essere stato corretto, e può perfino non essere stato civile, nell’insieme, ma forniva un ordine. L’imperialismo, il solido fondamento della stabilità per le popolazioni umane per migliaia di anni, è ora finito.
La fine degli uomini forti post-coloniali. Il colonialismo non finì completamente con la partenza dei colonialisti europei. Continuò per decenni nella forma di forti dittatori che avevano ereditato i sistemi degli Stati dai colonialisti. Dal momento che questi uomini forti spesso si vedevano come combattenti della libertà contro gli Occidentali, pensavano di avere ora la giustificazione morale per governare come meglio gli piaceva. Gli europei non erano stati democratici nel Medio Oriente, e non lo era neppure questa nuova classe di governanti. Hafez el Assad, Saddam Hussein, Alì Abdullah Saleh, Muhammar Gheddafi, i faraoni nasseriani in Egitto, fino ad arrivare ad Hosni Mubarak, tutti appartenevano a questa categoria la quale, come quella degli imperialisti, si è venuta ritirando dalla scena, malgrado un ritorno in Egitto.
Niente istituzioni. E qui arriviamo all’elemento chiave. I dittatori arabi post-coloniali governavano Stati moukhabarat: Stati il cui ordine dipendeva dalla polizia segreta e dagli altri servizi di sicurezza collegati. Ma al di là di questo, lo sviluppo istituzionale e democratico era debole e non rispondente ai bisogni della popolazione. Una popolazione che, dal momento che era sempre più urbanizzata, richiedeva servizi sociali e una complessa infrastruttura: ahimè, le società urbane sono più esigenti, rispetto ai governi centrali, di quanto lo siano le società agricole, e il mondo si sta rapidamente urbanizzando. Sono le istituzioni che riempiono il fossato fra il governante al vertice e la famiglia estesa o la tribù alla base. Così, con uno sviluppo istituzionale insufficiente, le probabilità di dittatura o di anarchia si moltiplicano. La società civile occupa il terreno di mezzo fra questi estremi, ma non può prosperare senza le istituzioni e le burocrazie indispensabili.
Identità deboli. Con istituzioni deboli, tali Stati post-coloniali hanno identità deboli. Se lo Stato significa soltanto oppressione, la popolazione diviene composta di sudditi, non di cittadini. E i sudditi del dispotismo conoscono soltanto la paura, non la lealtà. Se lo Stato ha da offrire soltanto la paura, i pilastri della dittatura si sbriciolano o sono tirati giù, e sono identità non statuali che riempiono il conseguente vuoto. E in uno Stato configurato da antichi confini legali, per quanto essi possano essere stati tracciati in modo artificiale, il trionfo di identità non statuali può significare anarchia.
Le battaglie dottrinali. Nel mondo islamico la religione occupa nella vita quotidiana un posto quale l’Occidente non ha conosciuto dai giorni – un millennio fa – in cui l’Occidente era chiamato “Cristianità”. Così, l’identità non statale, nel Medio Oriente del XXI secolo, generalmente significa identità religiosa. E poiché ci sono variazioni di credo perfino in una grande religione mondiale come l’Islàm, il sorgere di un’identità religiosa e il conseguente declino dell’identità statuale significano l’accendersi delle dispute dottrinali, che possono anche assumere una forma militare, anche se irregolare. Nella prima era medievale, l’Impero Bizantino – la cui complessiva identità era permeata di Cristianità – ebbe violente dispute dottrinali fra iconoclasti (quelli che si opponevano a idoli come le icone) e iconoduli (quelli che le veneravano). Quando l’Impero Romano crollava e la Cristianità sorgeva come un’identità sostitutiva, il risultato non fu la tranquillità ma violente dispute dottrinali fra Donatisti, Monoteliti, altre sette cristiane ed altre eresie. Così, anche oggi, nel mondo musulmano, nel momento in cui le identità statali si indeboliscono, le differenze settarie e di altro genere all’interno dell’Islàm vengono in primo piano, spesso violentemente.
La tecnologia dell’informazione. Varie forme di comunicazione elettronica, spesso trasmesse con smartphones, possono dare un potere alla folla contro un regime odiato, dal momento che delle persone che protestano e non si conoscono personalmente possono ritrovarsi attraverso Facebook, Twitter ed altri media sociali. Ma mentre una tale tecnologia può aiutare a far cadere i governi, non può poi fornire un polo di potere burocratico organizzato, di sostituzione di quei governi, che possa mantenere la stabilità. Questo è il modo in cui la tecnologia incoraggia l’anarchia. L’Era Industriale riguardò le grandi dimensioni: grandi carri armati, portaerei, reti ferroviarie e così via, che celebravano il potere dei grandi Stati centralizzati. Ma l’era postindustriale riguarda la piccolezza, che può dare a piccoli gruppi oppressi il potere di sfidare lo Stato, avendo a volte per risultato l’anarchia.
Dal momento che stiamo parlando di processi di lungo termine piuttosto che di specifici avvenimenti, avremo l’anarchia, in una forma o nell’altra, fino a che nuove formazioni politiche non riusciranno a fornire l’ordine desiderato. E queste nuove formazioni politiche non è assolutamente detto che siano democratiche.
Quando l’Unione Sovietica è crollata, le società che nell’Europa Centrale ed Orientale avevano una classe media di qualche consistenza, e accettabili tradizioni burocratiche precedenti la Seconda Guerra Mondiale, furono in grado di trasformarsi in democrazie relativamente stabili. Ma il Medio Oriente e la maggior parte dell’Africa mancano di tali tradizioni borghesi, e così la caduta degli uomini forti ha lasciato un vuoto. Le nazioni dell’Africa Occidentale che caddero nell’anarchia alla fine degli Anni Novanta – un paio d’anni dopo che il mio articolo era stato pubblicato – come la Sierra Leone, la Liberia e la Costa d’Avorio, non si sono ancora riprese, sono corsie d’ospedale della comunità internazionale sostenute da forze di pace straniere e consiglieri, anche se lottano per sviluppare una classe media e una base manifatturiera. Infatti lo sviluppo di efficienti e capaci burocrazie richiede funzionari alfabetizzati e ciò, a sua volta, richiede una classe media.
I veri punti interrogativi sono la Russia e la Cina. Il possibile indebolimento di un potere autoritario in questi Stati che progrediscono in modo disordinato potrebbe condurre a una minore democrazia e soprattutto a una cronica instabilità e ad un separatismo etnico che renderebbero comparativamente insignificante e risibile l’attuale instabilità nel Medio Oriente. Di fatto, ciò che segue Vladimir Putin potrebbe essere peggiore, non migliore. E lo stesso vale per un indebolimento dell’autocrazia in Cina.
Il futuro della politica del mondo dipenderà da quali società saranno capaci di sviluppare istituzioni adeguate per governare un vasto spazio geografico, e da quali non ne saranno capaci. Questo è il problema verso il quale ci conduce la presente stagione di anarchia.
Robert D.Kapkan
(Traduzione di Gianni Pardo)
Twenty years ago, in February 1994, I published a lengthy cover story in The Atlantic Monthly, “The Coming Anarchy: How Scarcity, Crime, Overpopulation, Tribalism, and Disease are Rapidly Destroying the Social Fabric of Our Planet.” I argued that the combination of resource depletion (like water), demographic youth bulges and the proliferation of shanty towns throughout the developing world would enflame ethnic and sectarian divides, creating the conditions for domestic political breakdown and the transformation of war into increasingly irregular forms — making it often indistinguishable from terrorism. I wrote about the erosion of national borders and the rise of the environment as the principal security issues of the 21st century. I accurately predicted the collapse of certain African states in the late 1990s and the rise of political Islam in Turkey rise of political Islam in Turkey and other places. Islam, I wrote, was a religion ideally suited for the badly urbanized poor who were willing to fight. I also got things wrong, such as the probable intensification of racial divisions in the United States; in fact, such divisions have been impressively ameliorated.
However, what is not in dispute is that significant portions of the earth, rather than follow the dictates of Progress and Rationalism, are simply harder and harder to govern, even as there is insufficient evidence of an emerging and widespread civil society. Civil society in significant swaths of the earth is still the province of a relatively elite few in capital cities — the very people Western journalists feel most comfortable befriending and interviewing, so that the size and influence of such a class is exaggerated by the media.
The anarchy unleashed in the Arab world, in particular, has other roots, though — roots not adequately dealt with in my original article:
The End of Imperialism. That’s right. Imperialism provided much of Africa, Asia and Latin America with security and administrative order. The Europeans divided the planet into a gridwork of entities — both artificial and not — and governed. It may not have been fair, and it may not have been altogether civil, but it provided order. Imperialism, the mainstay of stability for human populations for thousands of years, is now gone.
The End of Post-Colonial Strongmen. Colonialism did not end completely with the departure of European colonialists. It continued for decades in the guise of strong dictators, who had inherited state systems from the colonialists. Because these strongmen often saw themselves as anti-Western freedom fighters, they believed that they now had the moral justification to govern as they pleased. The Europeans had not been democratic in the Middle East, and neither was this new class of rulers. Hafez al Assad, Saddam Hussein, Ali Abdullah Saleh, Moammar Gadhafi and the Nasserite pharaohs in Egypt right up through Hosni Mubarak all belonged to this category, which, like that of the imperialists, has been quickly retreating from the scene (despite a comeback in Egypt).
No Institutions. Here we come to the key element. The post-colonial Arab dictators ran moukhabarat states: states whose order depended on the secret police and the other, related security services. But beyond that, institutional and bureaucratic development was weak and unresponsive to the needs of the population — a population that, because it was increasingly urbanized, required social services and complex infrastructure. (Alas, urban societies are more demanding on central governments than agricultural ones, and the world is rapidly urbanizing.) It is institutions that fill the gap between the ruler at the top and the extended family or tribe at the bottom. Thus, with insufficient institutional development, the chances for either dictatorship or anarchy proliferate. Civil society occupies the middle ground between those extremes, but it cannot prosper without the requisite institutions and bureaucracies.
Feeble Identities. With feeble institutions, such post-colonial states have feeble identities. If the state only means oppression, then its population consists of subjects, not citizens. Subjects of despotisms know only fear, not loyalty. If the state has only fear to offer, then, if the pillars of the dictatorship crumble or are brought low, it is non-state identities that fill the subsequent void. And in a state configured by long-standing legal borders, however artificially drawn they may have been, the triumph of non-state identities can mean anarchy.
Doctrinal Battles. Religion occupies a place in daily life in the Islamic world that the West has not known since the days — a millennium ago — when the West was called “Christendom.” Thus, non-state identity in the 21st-century Middle East generally means religious identity. And because there are variations of belief even within a great world religion like Islam, the rise of religious identity and the consequent decline of state identity means the inflammation of doctrinal disputes, which can take on an irregular, military form. In the early medieval era, the Byzantine Empire — whose whole identity was infused with Christianity — had violent, doctrinal disputes between iconoclasts (those opposed to graven images like icons) and iconodules (those who venerated them). As the Roman Empire collapsed and Christianity rose as a replacement identity, the upshot was not tranquility but violent, doctrinal disputes between Donatists, Monotheletes and other Christian sects and heresies. So, too, in the Muslim world today, as state identities weaken and sectarian and other differences within Islam come to the fore, often violently.
Information Technology. Various forms of electronic communication, often transmitted by smartphones, can empower the crowd against a hated regime, as protesters who do not know each other personally can find each other through Facebook, Twitter, and other social media. But while such technology can help topple governments, it cannot provide a coherent and organized replacement pole of bureaucratic power to maintain political stability afterwards. This is how technology encourages anarchy. The Industrial Age was about bigness: big tanks, aircraft carriers, railway networks and so forth, which magnified the power of big centralized states. But the post-industrial age is about smallness, which can empower small and oppressed groups, allowing them to challenge the state — with anarchy sometimes the result.
Because we are talking here about long-term processes rather than specific events, anarchy in one form or another will be with us for some time, until new political formations arise that provide for the requisite order. And these new political formations need not be necessarily democratic.
When the Soviet Union collapsed, societies in Central and Eastern Europe that had sizable middle classes and reasonable bureaucratic traditions prior to World War II were able to transform themselves into relatively stable democracies. But the Middle East and much of Africa lack such bourgeoisie traditions, and so the fall of strongmen has left a void. West African countries that fell into anarchy in the late 1990s — a few years after my article was published — like Sierra Leone, Liberia and Ivory Coast, still have not really recovered, but are wards of the international community through foreign peacekeeping forces or advisers, even as they struggle to develop a middle class and a manufacturing base. For, the development of efficient and responsive bureaucracies requires literate functionaries, which, in turn, requires a middle class.
The real question marks are Russia and China. The possible weakening of authoritarian rule in those sprawling states may usher in less democracy than chronic instability and ethnic separatism that would dwarf in scale the current instability in the Middle East. Indeed, what follows Vladimir Putin could be worse, not better. The same holds true for a weakening of autocracy in China.
The future of world politics will be about which societies can develop responsive institutions to govern vast geographical space and which cannot. That is the question toward which the present season of anarchy leads.
Robert D.Kaplan, Stratfor, n. 0206.
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