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Politica

LA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO CHE DIVORO’ SE STESSA

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Da Paolo Cardena’ di Vincitori e Vinti 

Renzi-Premier

Trovo che il dibattito politico sull’articolo 18 e, più in generale, quello sul Job Act, si fondi sul nulla.
Vi chiederete perché affermo questo, immagino. Lo affermo per il semplice fatto che tutto dipende dal mondo in cui viviamo e dal modo in cui vogliamo viverci. Il mondo è globalizzato, l’economia è globalizzata e i mercati lo sono ancora di più. Le nostre aziende (quelle rimaste) si trovano a competere con economie che hanno modelli di business del tutto deregolamentati (vedi Cina, ma anche tante altre economie). Davvero vogliamo credere di poter competere con altri competitors modificando l’art 18?

Con le riforme del mercato del lavoro,  in estrema sintesi, si tende a creare più flessibilità che, per forza di cose, si riflette anche sul costo del lavoro, che diminuisce. 

Ok, facciamo tutte le riforme del mercato del lavoro possibili: rendiamolo più flessibile, tagliamo i salari e rendiamo il lavoro più competitivo. Di quanto vogliamo farlo diminuire? Lo vogliamo portare ai livelli cinesi, indiani, vietnamiti o altro? Ammesso che ci si riesca,  poi, che facciamo? Tutto risolto? Neanche per sogno!Ci mettiamo a fare concorrenza al Bangladesh, ai vietnamiti, ai cinesi o agli indiani? Pensate davvero che potremmo fare concorrenza a popoli estremamente più operosi, che sono in grado di produrre lo stesso bene prodotto in Italia con la metà del tempo impiegato qui da noi, in assenza di eccessi di burocrazia (solo per usare un eufemismo) e a costi infinitamente di più bassi dei nostri.. Cioè, paesi che non hanno la zavorra del debito pubblico o quella derivante dai costi per il mantenimento dello stato sociale, con fattori demografici imparagonabili con quelli dell’Italia, che è invece vittima di un cronico deficit demografico, aggravato dalla fuga di massa di giovani ragazzi che stanno abbandonando il paese per cercare futuro altrove. Semplicemente impensabile.
Poi, ci sarebbe da considerare il fatto  che il costo del lavoro (o almeno parte di esso), essendo un reddito per chi lo percepisce, costituisce anche base imponibile da colpire con le imposte vigenti nell’ordinamento italiano. Le quali imposte sono necessarie per sostenere la spesa pubblica, ivi compresa quella destinata agli stipendi dei dipendenti pubblici. Davvero pensiamo che abbattere i salari privati ( e quindi godere di costi sul lavoro più competitivi) possa rimetterci in carreggiata, senza rendere flessibili anche i contratti del pubblico impiego, o senza tagliare la spesa pubblica? Se diminuisce la base imponibile dei redditi dei lavoratori dipendenti del settore privato, va da se che diminuisce anche la base imponibile da colpire con la tassazione. In poche parole, il gettito si contrae e dubito che possa essere compensato da un maggior numero di occupati derivanti da un mercato del lavoro più flessibile.La macchina statale, per poter funzionare (peraltro male) ha bisogno di soldi, molti soldi. Se diminuisce il gettito, la macchina statale, siccome non si mette a dieta, allora aumenta il debito: cosa che peraltro sta già avvenendo a ritmi allarmanti.
C’è poi da considerare un altro fattore. Ossia che il debito privato è al 130% del Pil. E questi sono debiti che attendono di essere ripagati da parte di chi li ha contratti. Se diminuiscono i salari (per via di una maggiore flessibilità), diminuisce anche la quota di reddito disponibile per ripagare questi debiti, che invece non diminuiscono. Quindi, o non si pagano i debiti: ipotesi disastrosa, considerata l’estrema fragilità del sistema bancario;  oppure si riducono i consumi per poterli ripagare: ipotesi altrettanto disastrosa perché implicherebbe un ulteriore riduzione del PIL
Non sto dicendo che il mercato del lavoro non andrebbe rivisto, riformato, modificato o quello che diamine volete. Quel che sto dicendo è che occorrerebbe ripensare il modello economico del paese e chiedersi:  cosa vogliamo essere tra 20 anni? Dove vogliamo arrivare? Come vogliamo arrivarci? Da questo, poi, tutto quanto il resto. 
Ed è assai difficile immaginare un lieto fine per l’Italia e per gli italiani.
E non sarà di certo l’articolo 18 o Job Act a risollevare le sorti del paese.Ed ecco cosa dice Hans-Werner Sinn (Presidente dell’Ifo tedesca), in un articolo pubblicato da Il Fatto, che riprende le dichiarazioni rilasciate al quotidiano economico Handelsblatt

…Per Sinn non ci sarebbero alternative: perché l’Italia torni a funzionare bisogna svalutare l’euro in Italia. Visto che l’euro o si svaluta dappertutto o non si svalutada nessuna parte, questo significherebbe svalutare i beni e i servizi che l’Italia produce e vende per adattare il loro prezzo alla minore produttività italiana. Si chiama “svalutazione reale” e non è certo la prima volta che se ne parla. Il professor Sinn scende però nei dettagli: da quando si decise di introdurre l’euro (1995) alla fine del 2013 – spiega – l’Italia è diventata più cara del 25% rispetto ai suoi partner commerciali. Il 17% a causa di un’inflazione relativamente più alta, a cui va sommato l’8% dovuto alla rivalutazione della lira prima dell’entrata nell’euro. Rispetto alla Germania – che invece nel frattempo ha introdotto politiche di contenimento salariale (cosa che Sinn omette di dire) – l’Italia sarebbe diventata più cara addirittura del 42%.Ma in cosa si tradurrebbe una “svalutazione reale”? Hans-Werner Sinn accenna alla  “moderazione salariale”, a “maggiore flessibilità” nel mercato del lavoro. In effetti, se si vuole diminuire il prezzo di un bene che si esporta e non si puo’ intervenire sul tasso di cambio, la via più rapida passa per il taglio dei salari. Una misura che, come deve ammettere lo stesso Sinn, porterebbe sì a un abbassamento dei prezzi italiani ma aumenterebbe il peso del debito privato mettendo in difficoltà i debitori, il cui debito reale crescerebbe. “Molte imprese e famiglie finirebbero in bancarotta”. In più, aggiungiamo noi, si abbasserebbero le entrate fiscali e peggiorerebbe la dinamica del debito pubblico. “Una valle di lacrime”, continua il professore, che però nessun attore di “un mondo politico (italiano) preso da preoccupazioni di breve periodo” avrebbe il coraggio di attraversare.


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