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Quel 3% che divide governo ed economisti.

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Pubblichiamo l’articolo integrale a firma Antonio M.Rinaldi apparso il 10.9.18 su Affari e Finanza de La Repubblica, poiché per ragioni di spazio è stato sintetizzato, insieme ai contributi di Minenna, Bini Smaghi, Gros, Esposito,  Boitani.

Partendo dalla considerazione che il parametro del 3% di deficit, nonostante sia parte integrante dei trattati su cui si fonda l’Unione Europea, non abbia nessun fondamento scientifico, essendo stato adottato per “similitudine” alla regola introdotta negli anni ’80 da Mitterand per contenere le esuberanze di spesa dei suoi ministri, va ricordato che il Trattato sulla Stabilitàcioè l’accordo intergovernativo firmato nel 2012 meglio conosciuto come Fiscal Compact, prevede invece fra l’altro il pareggio di bilancio inteso come l’obbligo di migliorare dello 0,50% annuo l’obiettivo di deficitstrutturale per i paesi con il rapporto debito pubblico superiore all’altro parametro fondamentale del 60% e dell’1% per i più virtuosi che invece lo rispettano.

In merito sono state avanzate molte obiezioni sulla stessa legittimità del Trattato sulla Stabilità, ancora non inglobato nel corpus normativo dell’Unione Europea, fra i quale emerge senza dubbio quella sollevata dal prof. Giuseppe Guarino, sostenendo, a ragione, che lo stesso art.2 del Trattato sulla Stabilità dispone testualmenteche: Le parti contraenti applicano e interpretano il presente Trattato conformemente ai trattati su cui si fonda l’Unione europea”, il cui concetto è ribadito nel comma successivo: “Il presente Trattato si applica nella misura in cui è compatibile con i trattati su cui si fonda l’Unione europea e con il diritto dell’Unione europea”. Risulta pertanto evidente come il Fiscal Compact, stabilendo all’art.3, n.1, lett.a), che “la posizione di bilancio della Pubblica amministrazione di una parte contraente è in pareggio o in avanzo”, è in palese contrasto con quanto disposto dai trattati fondativi della UE il quale fissano invece al 3% il limite dell’indebitamento annuale (il prot.12 fissa i valori di riferimento previsti dall’art.126 TUEF).  

Perciò, anche in presenza di questa “legittima istanza di illegittimità e di una non formale richiesta di moratoria, l’Italia si è impegnata al rispetto delle direttive del Fiscal Compact, che per quest’anno si traducono in un deficit programmato dell’1,6% e per il 2019 dello 0,9% a compensazione delle flessibilità ottenute negli esercizi precedenti. Cosa significa quindi voler procedere invece verso un deficit del 3%, se non superarlo, così come annunciato da esponenti del governo?

Tecnicamente l’Italia potrebbe superare questi limiti abbandonando il percorso tracciato dal Trattato sulla Stabilità, ma come conseguenza vi sarebbero richieste da parte della UE di correzioni automatiche con scadenze determinate non avendo raggiunto l’obiettivo di bilancio di medio termine (OMT) concordato e si aprirebbe la previstaprocedura d’infrazione (se>al 3%) per i disavanzi eccessivi (PDE) inserita nello stesso art.126 del TFUEcon possibilità di sanzione fino al 0,2% del PIL, tuttavia mai precedentemente comminata, la cui entità sarebbe comunque compensata però dall’attivazione di unamaggiore crescita.

Procedura che tuttavia paradossalmentecongelerebbe” per 3 anni eventuali ulteriori provvedimenti nei confronti dell’Italia, a fronte di un piano di azione correttivo e politiche corrispondenti, fino alla chiusura della procedura stessa. Ma la conseguenza maggiore sarebbe comunque l’esposizione al giudizio dei mercati e delle società di rating nei confronti dei titoli del debito pubblico in una situazione già di perenne monitoraggio attento e costante a cui da tempo sono sottoposti, non per altro per le sue dimensioni.

Di fronte a questo scenario, e tenendo conto della totale indisponibilità da parte della Commissione Europea nel concedere scorpori dal computo del deficit di risorse da destinare per effettivi investimenti pubblici che determinerebbero corposi aumenti del prodotto per via dei moltiplicatori fiscali, la via migliore che il governo potrà intraprendere sarà quella verso una nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanze (DEF) che preveda un deficit per il 2019 intorno al 2,2% (<3%), pari a circa ulteriori 22Mld. aggiuntivi, rispetto a quello programmato dello 0,9% e superiore comunque a quello in via di concessione dell’1,5% da parte di Bruxelles.

Con queste risorse, magari accompagnate da una razionalizzazione intelligente della spesa e una sanatoria fiscale, sarebbe infatti possibile iniziare a rendere esecutive, almeno parzialmente, le promesse elettorali contemplate nel contratto di governo, come il reddito di cittadinanza, la flat tax e la revisione della leggeFornero, oltre a “disinnescare” le citate clausole di salvaguardia per 12,4Mld posticipate all’1.1.19(aumento IVA). D’altronde in un vero e proprio limbo normativo in cui lo stesso Fiscal Compact non è fortunatamente ancora elevato, come già ricordato, a ruolo integrante della normativa europea, anche l’applicazione della c.d. Golden Rule, (regola di bilancio secondo la quale gli investimenti pubblici produttivi possono essere scorporati dal deficit), ma che tuttavia non risulta ancora essere mai stata applicata, è una opzione da intraprendere anche se non previstadal Trattato sulla Stabilità. Insomma un percorso che varrebbe la pena richiedere con forza e determinazionenell’assoluta certezza che produrrebbe enormi effetti sulla crescita per abbassare i valori percentuali dei rapporti debito/PIL e del deficit stesso. In fondo quando la Commissione ha varato i vari meccanismi per il sostegno finanziario ai paesi in difficoltà, ha consentito di poter scorporare dai rispettivi deficit le risorse destinate a tale scopo (l’Italia ha contribuito per più di 60 Mld.) e non si comprende come non ci sia la stessa disponibilità anche per organici piani d’investimenti pubblici produttivi.

Significherebbe poter perseguire politiche economiche anticicliche invece di quelle procicliche sin d’ora adottate. In ultimo va ricordato che paesi come la Francia e la Spagna hanno goduto di disavanzi continuativi ben superiori al limite del 3% negli anni passati, mentre invece l’Italia, tranne negli anni di maggior crisi, ha sempre rispettato questo limite. Se è vero che Parigi e Madrid hanno avuto la possibilità di poter sforare grazie a rapporti didebito inferiori, anche se nel frattempo notevolmente aumentati, è pur vero che deficit di questa entità hannopermesso ad entrambe di registrare saggi di crescitasuperiori a quelli del nostro Paese.

Antonio Maria Rinaldi, docente Politica Economica Link Campus University, Roma

PS- Nella didascalia La Repubblica mi attribuisce in passato il ruolo di economista dell’ENI (carica che ufficialmente ai miei tempi non esisteva), mentre ad onor delle cronache, ho ricoperto l’incarico di Direttore Generale della Capogruppo finanziaria dell’ENI, la SOFID (per il sottoscritto è sicuramente molto di più!)


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