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Può Mattarella rinviare alle Camere una legge che non rispetta il vincolo del pareggio di bilancio? di G. PALMA e P. BECCHI

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Può Mattarella rinviare alle Camere una legge che non rispetta il vincolo del pareggio di bilancio? (di G. PALMA e P. BECCHI)

Sono giorni di grande disinformazione, giorni in cui si danno letture sbagliate della Costituzione. Abbiamo già scritto sulle prerogative del Capo dello Stato nella nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri (art. 92 Cost.), evidenziando a tal proposito la posizione di preminenza dei gruppi parlamentari rispetto alle prerogative del Colle, mentre oggi vogliamo fare chiarezza sul potere del Presidente della Repubblica nel rinvio alle Camere delle leggi sottoposte alla sua promulgazione per richiederne una nuova deliberazione (art. 74 Cost).

Occorre anzitutto evidenziare che si tratta di un potere molto meno invasivo del diritto di veto che fu dei Re nelle prime monarchie costituzionali e parlamentari, si tratta infatti di una specie di “riesame” che il Capo dello Stato chiede al Parlamento su ciascuna legge sottoposta alla sua promulgazione, richiesta che deve essere motivata, cioè deve riportare le ragioni di natura costituzionale per cui il Presidente ha deciso di rinviare la legge.

Se le Camere l’approvano nuovamente senza alcuna modifica, il Presidente della Repubblica deve obbligatoriamente promulgarla. Finora non si è mai verificato che, rinviata una legge alle Camere, queste l’abbiano approvata nuovamente senza mutarne il contenuto. In pratica si è sempre evitato lo strappo istituzionale.
Negli ultimi giorni – nell’ottica della formazione di un governo “sovranista” Lega/M5S – qualcuno ha richiamato il potere di rinvio del Capo dello Stato delle leggi che non rispettassero le regole di bilancio, cioè il famigerato vincolo del pareggio di bilancio inserito in Costituzione nel 2012 (art. 81).

A parte il fatto che si tratta di un principio in palese contrasto coi principi fondamentali (e come tale andrebbe abrogato), la vulgata degli ultimi giorni è priva di fondamento anche nei contenuti. L’articolo 81 della Costituzione infatti, così come modificato nel 2012, prevede che “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali […]”.

In pratica, tenuto conto delle diverse fasi economiche che potrebbero interessare il Paese, lo Stato può spendere a deficit purché il Parlamento approvi il ricorso all’indebitamento a maggioranza assoluta dei componenti di Camera e Senato. Esattamente quello che ha fatto il governo Gentiloni nel dicembre 2016 quando stanziò a deficit circa 20 miliardi di euro per salvare le banche, in primis gli amici di Mps. Non si comprende quindi per quale motivo il Parlamento – osservando addirittura alla lettera l’art. 81 – non possa deliberare una spesa a deficit per far fronte al perseguimento dei diritti fondamentali come il lavoro, la sanità, le pensioni, l’istruzione, la sicurezza e quant’altro.

Per aiutare le banche sì, per abbassare le tasse e aiutare i cittadini no? Del resto, di fronte a diritti fondamentali non attuati da parte dello Stato, si verifica quel requisito di “eccezionalità” previsto dalla norma costituzionale che consente il ricorso all’indebitamento.
A suffragare le nostre argomentazioni è intervenuta anche la Corte Costituzionale che, con sentenza 275/2016, ha sancito il principio che i diritti fondamentali (nel caso di specie la concretizzazione del diritto all’istruzione di un disabile), non possono sottostare al vincolo del pareggio di bilancio. Il Capo dello Stato che si trovasse pertanto di fronte ad una legge che facesse ricorso all’indebitamento per attuare i principi fondamentali, non dovrebbe quindi fare altro che promulgarla.

di Giuseppe PALMA e Paolo BECCHI


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