Economia
L’Europa fiscale che non c’è: il paradosso dell’unione incompiuta (di Antonio Maria Rinaldi)
Tasse in Europa: perché l’armonizzazione è fallita. Tra aliquote diverse e difesa della sovranità, l’UE cerca una soluzione impossibile. Scopri perché la Commissione FISC non ha raggiunto i suoi obiettivi.

Nella scorsa legislatura del Parlamento Europeo, la Commissione ECON ha istituito una sottocommissione permanente, la FISC, con il mandato di favorire l’armonizzazione dei sistemi fiscali degli Stati membri. L’obiettivo dichiarato era nobile: dotare il mercato unico di un fondamento economico omogeneo. Tuttavia, a distanza di anni, i risultati sono del tutto insoddisfacenti. La FISC ha raccolto analisi, organizzato audizioni, elaborato proposte, ma non ha prodotto alcuna misura concreta. È l’ennesima dimostrazione di come l’Unione Europea continui a proclamare l’integrazione economica senza affrontarne le contraddizioni operative.
Il cuore del problema è evidente: non esiste un mercato unico con ventisette sistemi fiscali differenti, ognuno modellato su esigenze e priorità nazionali. Le imprese europee operano in un mosaico di regimi tributari disomogenei: l’aliquota dell’imposta sulle società varia dal 9% dell’Ungheria al 31% della Francia, i meccanismi di deduzione e ammortamento non sono confrontabili, la tassazione sui dividendi e sui redditi esteri segue logiche incoerenti. Tutto ciò altera la concorrenza, orienta gli investimenti secondo criteri fiscali anziché produttivi e rende inattuabile una politica industriale comune.
Il fenomeno dell’arbitraggio fiscale intraeuropeo non è dunque un effetto collaterale, ma la conseguenza diretta dell’assenza di una cornice condivisa. Gli Stati, nel tentativo di attrarre capitali, finiscono per competere tra loro sul terreno del prelievo. È la cosiddetta “race to the bottom”(corsa al ribasso), che indebolisce le basi imponibili e comprime gli spazi di politica pubblica. Tuttavia, sarebbe un errore considerare questa dinamica soltanto come una distorsione: essa riflette anche la diversità dei modelli economici europei e la legittima volontà di preservare margini di autonomia decisionale.
La sovranità fiscale rappresenta infatti uno degli ultimi strumenti effettivi di politica economica nazionale. Cederla a un livello sovranazionale, sotto il pretesto dell’efficienza, significherebbe privare gli Stati della possibilità di adattare la propria struttura tributaria alla realtà produttiva e sociale interna. L’unanimità nel processo decisionale, spesso criticata come causa di paralisi, è in realtà una garanzia di equilibrio istituzionale: impedisce che le esigenze dei Paesi più grandi o più forti si impongano su quelle degli altri. L’Europa non ha bisogno di uniformità imposta, ma di coordinamento rispettoso delle differenze.
Negli ultimi anni, la Commissione ha avanzato proposte tecniche come la Common Consolidated Corporate Tax Base (CCCTB) e il successivo schema BEFIT (Business in Europe Framework for Income Taxxation) volti a creare una base imponibile unica per le imprese europee. Anche la minimum tax globale del 15%, derivante dall’accordo OCSE/G20, è stata presentata come un primo passo verso la convergenza. Ma tali iniziative restano limitate e, soprattutto, non affrontano il nodo politico di fondo: la mancanza di una volontà condivisa di conciliare integrazione e sovranità.
L’assenza di armonizzazione fiscale continua a incidere anche sulla stabilità dell’unione monetaria. La coesistenza di una moneta unica con politiche di bilancio e prelievo differenti genera squilibri strutturali che la Banca Centrale Europea è costretta a compensare con strumenti monetari non sempre adeguati e possibili dallo statuto. Tuttavia, una vera unione fiscale, se costruita dall’alto e senza consenso pieno, aggraverebbe anziché ridurre tali asimmetrie.
È quindi necessario perseguire una via intermedia, fondata sulla cooperazione volontaria e sulla trasparenza reciproca, piuttosto che sull’imposizione di regole uniformi. L’obiettivo non dovrebbe essere l’unificazione dei sistemi, ma la loro compatibilità funzionale, affinché ciascun Paese possa conservare la propria autonomia nel rispetto dei principi comuni del mercato interno.
La nuova legislatura europea dovrà restituire alla FISC un ruolo realistico: non quello di ingegneria normativa, ma di laboratorio di convergenza graduale, dove la competenza fiscale rimanga ancorata alle istituzioni nazionali e la posta in gioco è se saprà coniugare unità economica e pluralità politica. Il progresso dell’integrazione non risiede infatti nella rinuncia alla sovranità, ma nella capacità di esercitarla in modo coordinato e responsabile. In questo equilibrio difficile, eppure necessario, si gioca anche il futuro dell’Unione.
*ex membro Commissione ECON e sotto-Commissione FISC del Parlamento europeo
Domande e risposte
Perché l’Unione Europea non riesce ad armonizzare le tasse? Il motivo principale è la resistenza degli Stati membri a cedere la sovranità fiscale. Le differenze economiche e sociali tra i Paesi richiedono strumenti di intervento diversi. Inoltre, il principio dell’unanimità nelle decisioni fiscali protegge gli interessi nazionali, impedendo che un modello unico venga imposto dall’alto, magari a vantaggio solo delle economie più forti.
La concorrenza fiscale tra Stati è sempre negativa? Non necessariamente. Sebbene la “corsa al ribasso” possa ridurre le entrate pubbliche, la competenza fiscale permette agli Stati periferici o con economie diverse di attrarre investimenti che altrimenti finirebbero solo nel “centro” economico dell’Europa. È uno strumento di compensazione e di politica industriale che, se ben gestito, garantisce un certo grado di libertà economica.
Quali sono le proposte attuali sul tavolo? Le iniziative principali sono la BEFIT, che mira a creare una base imponibile comune per le imprese, e la Minimum Tax globale al 15%. Tuttavia, queste sono soluzioni tecniche che non risolvono il problema politico: creare un sistema che funzioni per 27 economie diverse senza soffocare le specificità nazionali. La soluzione più probabile resta un coordinamento volontario piuttosto che un’unificazione rigida.







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