Crisi
“L’ECO” DELLA (NON)GUERRA CON L’ISLAM E IL PRINCIPIO DI NON INGERENZA (di Luciano Barra Caracciolo)
“L’ECO” DELLA (NON)GUERRA CON L’ISLAM E IL PRINCIPIO DI NON INGERENZA. GOVERNANCE ECONOMICA GLOBALE VS. DEMOCRAZIA (sostanziale)
(di Luciano Barra Caracciolo ed Orizzonte48)
1. Secondo il principio base del test di Orwell, ciò che viene diffuso all’opinione pubblica come pensiero riduzionistico, cioè come slogan che definisce e interpreta “vincolativamente” la realtà, può essere riportato, o quantomeno riavvicinato, ad un’affermazione “reale“, in base all’uso della funzione negativa “not“.
Prendiamo la diffusione attuale dell’idea che “siamo in guerra“, riferita alla strage terroristica di Parigi.
Non si capisce bene cosa sottintenda, perchè i vari opinionisti, intendo quelli italiani, da questa premessa sviluppano poi una serie di ragionamenti che, nella migliore delle ipotesi, sono urlati – e si appuntano sul fatto che “siamo in guerra” con tutto l’Islam ovvero con tutti i musulmani, – e nella maggioranza dei casi risultano contraddittori ed incomprensibili sul piano della coerenza logica e storica. Peraltro questi ragionamenti contraddittori divengono comprensibilissimi sul piano emotivo ed è questo lo scopo che hanno: diffondere panico ed insicurezza.Esattamente come la storiella degli “spread”, detto incidentalmente (per ora).
2. Facciamo un esempio: il “massimo intellettuale-di-fama-internazionale” italiano, cioè Umberto Eco, ci dice, pure lui, che siamo in guerra e lo fa in modo un po’ indiretto. In sostanza, ci dice che “sono cambiate le modalità della guerra“, implicando che pur sempre di guerra si tratta.
Anche se poi individua la causa di tutta questa esplosione di “violenza” in una “migrazione“, cioè in un movimento “globale” di popolazioni all’interno del mondo che paragona a quello, a suo tempo, subito dalla “romanità”.E conclude, nel sommo della confusione concettuale, con questo botta e risposta: “La prospettiva che la civiltà occidentale in crisi, erede decaduta della cultura dei Lumi, possa un giorno allearsi con i Paesi arabi, è dunque tutt’altro che una visione fantapolitica confinata nei romanzi?
“La fusione di civiltà è una possibilità che può verificarsi grazie alle migrazioni. Quando in Italia ci saranno 50 milioni di extracomunitari e solo 10 milioni di italiani, avverrà, forse, quel che è avvenuto duemila anni fa. Del resto è già successo chissà quante volte, in Asia o altrove: i mongoli in Cina eccetera”.
Non si può negare che questa previsione fa paura, a pensarla oggi:
«È chiaro che tutti i grandi cambiamenti ci terrorizzano. Ma sa, a me tutto sommato resta poco, però ho dei nipoti, e mi auguro che imparino a vivere in queste prospettive. E poi in fondo sarebbe terrorizzante anche immaginare un outlet al posto del Duomo (…? Finale che risulta del tutto “estemporaneo” rispetto alla questione dell’Islam…)”.
3. Si potrebbe dire dell’incomparabilità storica dei mongoli con le invasioni-migrazioni di massa: i mongoli conquistarono il mondo come elite militare (erano un popolo-esercito) e si espansero oltre ogni limite delle loro capacità demografiche, tanto che persero, altrettanto rapidamente come l’avevano conquistato, il controllo sociale, – e mai culturale – dei territori conquistati, facendosi anzi assorbire nell’Islam e, rispettivamente, nella civiltà cinese, laddove poterono affermare una qualche continuità dinastica. Lo stesso potrebbe dirsi della conquista greco-macedone dell’Oriente, specialmente laddove si mosse in territori dove l’ellenismo non era già penetrato autonomamente, rispetto alla successiva conquista di Alessandro e dei suoi vari epigoni.
E si potrebbe anche parlare della conquista longobarda, che avrebbe potuto (molto utilmente) ri-unificare l’Italia già nell’alto medioevo, ma non vi riuscì proprio per la limitatezza della base demografica di quel popolo e per la incapacità di fusione della minoranza feudale-guerriera con la maggioranza latino-romana. Che era rimasta tale, senza alcuna fusione, e meno che mai una impossibile “incorporazione” da parte di tale minoranza (altro che 50 milioni di extracomunitari contro 10 milioni di italiani!).Ma questi ci paiono errori di inquadramento storiografico che, peraltro, dimostrano il grado di imprecisione concettuale cui il sistema mediatico ha portato la “percezione della realtà” in Italia. Evidentemente a tutti i livelli culturali.
4. Se Eco riesce a produrre questo tipo di analisi, allora, parrebbe di essere in presenza un problema inestricabile: ma ricorrendo al test di Orwell si può iniziare a fare chiarezza.
Anche Salvini cade nell’equivoco orwelliano (cioè di ritenere che “siamo in guerra”); e magari è più comprensibile, dato che la comunicazione politica si muove per suggestione, un mezzo concettualmente semplificato per attrarre consenso e rendersi apparentemente coerenti.
Tuttavia la teoria del “siamo in guerra” si scontra con l’uso immediato del test di Orwell: se da Vespa e da Santoro si urla “siamo in guerra“, parrebbe del tutto ovvio che la proposizione corretta possa essere, appunto , o “NON siamo in guerra” o, al più, “siamo in una NON guerra“.
Per fare capire come il test di Orwell possa risultare esatto per entrambe le proposizioni (la cui conciliazione richiede però un raccordo di spiegazioni, in modo da renderle possibilmente compatibili, nella loro evidente similitudine ma non “coincidenza”), andiamo a cercare una definizione dello “Stato di guerra”.
Ebbene questo è un concetto (in teoria) relativo, potendo essere mutabile, nel corso della Storia e nelle culture (o meglio nelle strutture sociali di organizzazione), e, nel nostro tempo, nelle varie concezioni specialistiche delle scienze sociali: siccome però non sarebbe utile addentrarsi su un piano epistemologico e ermeneutico-cognitivo (laddove ogni possibile concetto sarebbe relativizzabile, per arrivare magari ad una definizione impossibile o peggio “controintuitiva”), il concetto di guerra è sensatamente ricavabile sul piano storico e del diritto internazionale.
Inserendo su un motore di ricerca il vocabolo “guerra”, questo è il risultato che si ottiene; e conferma di appartenere all’ambito del diritto internazionale:
guerra
guèr·ra/
sostantivo femminile
1.
Lotta armata fra stati o coalizioni per la risoluzione di una controversia internazionale più o meno direttamente motivata da veri o presunti (ma in ogni caso parziali) conflitti di interessi ideologici ed economici, non ammessa dalla coscienza giuridica moderna.
5. Ricorrendo ai sacri testi (quelli che, peraltro, gli incompetenti in malafede non sanno capire neppure avendo il testo davanti), possiamo spiegare ed arricchire questa definizione (v.Conforti “Diritto internazionale”, pagg.365 e ss., ediz 1999):
– a) la guerra è una grave violazione del diritto internazionale, la più grave. Cercando di sintetizzare un lungo percorso storico, oggi è la violazione di un principio fondamentale di jus cogens (o “ius”; è questione del tutto aperta di linguistica latino-giuridica): cioè della parte del diritto internazionale più inviolabile e inderogabile, tra l’altro, da qualsiasi trattato.
Per ora ci limitiamo ad accennare al fatto che, – essendo il diritto internazionale governato dai rapporti di forza affermati dalle Nazioni politicamente ed economicamente prevalenti-, la illiceità secondo lo jus cogens, assume per “necessità”, che nessuna norma di diritto internazionale potrà mai eliminare, un senso storicamente relativo;– b) tale norma dello jus cogens è ritenuta oggi essere espressa dall’art.4, par.2, della Carta delle Nazioni Unite che contiene il divieto di uso e minaccia della forza TRA STATI. Con la sola dovuta eccezione della legittima difesa (art.51 della stessa Carta) di fronte all’aggressione – attraverso l’uso della forza, cioè con un “attacco armato“- da parte di UNO STATO IN DANNO DI UN ALTRO;
– c) tralasciamo anche, per brevità, tutti i tentativi di allargare la clausola della “legittima difesa” dell’art.51, (peraltro, nei fatti “recenti” della politica internazionale, alquanto riusciti), limitandoci a segnalare che questi tentativi sono stati fatti, a partire dalla vigenza della Carta (cioè dopo il 1945) generalmente da parte dei paesi più forti in danno di paesi “piccoli” e comunque più deboli.
Non è una sorpresa: basti dire che il precedente più importante della Corte di Giustizia Internazionale in materia di violazione del divieto ingiustificato dell’uso della forza è stato pronunciato (ma erano altri tempi!) contro gli Stati Uniti e reca il nome di “Attività militari e paramilitari contro il Nicaragua” (sentenza 27.6.1986, CIJ, Recueil, 1986, p.88 ss, p.187 ss.);– d) quello che va precisato è che un “attacco armato”, da parte di uno Stato contro un altro, può aversi anche se il primo non usi forze regolari ma “mercenari” o bande di altro tipo “con effetti equivalenti”, come chiarisce l’art3, lett. g) della dichiarazione dell’Assemblea generale della Nazioni Unite del 14-2-1974;
– e) questa stessa dichiarazione fa un’altra importante precisazione: non costituisce invece aggressione armata, e quindi vero “atto di guerra”, la sola assistenza data (da uno Stato determinato) a forze ribelli che agiscono sul territorio di un altro Stato, sotto forma di fornitura di armi, di assistenza logistica e simili; siffatta assistenza infatti concreterebbe soltanto un’ipotesi di violazione del divieto di ingerirsi negli affari altrui e, sempre riportando quanto affermato dalla suddetta dichiarazione dell’Assemblea del 14-2-1974, “al contempo un’ipotesi di violazione minoris generis del divieto della minaccia o dell’uso della forza come tali non giustificanti una risposta armata“.
(Tralasceremo in questa sede come il divieto o principio di “non ingerenza”, rispettoso delle sovranità autonome dei vari Stati anche più “deboli”, si sia andato trasformando, proprio a seguito della spinta verso la “globalizzazione“, in un diritto di “ingerenza umanitaria”, con pericolosi e contraddittori esiti; se non altro inanellando, proprio sotto il profilo “umanitario”, una serie di risultati fallimentari esattamente opposti alle intenzioni dichiarate di chi ha voluto imporre questa prassi).
6. Ci pare inutile dilungarsi ulteriormente sui vari principi di diritto internazionale rilevanti sulla materia (estremamente complessa, data la delicatezza dell’equilibrio tra l’affermare il diritto internazionale e la sottoposizione inevitabile di quest’ultimo alla “effettività” determinata dai rapporti di forza, che lo possono mutare: purchè appunto tale forza…sia sufficientemente affermata nel tempo, piegando ogni resistenza).
Dal diritto internazionale possiamo trarre, però, una serie di punti di riferimento che ci portano ad escludere che la strage di Parigi, – come pure le altre manifestazioni del terrorismo islamico dell’ultima ondata ISI o qaedista (o entrambe alleate in qualche forma da accertare)-, costituiscano atti di guerra e corrispondano a uno stato di guerra.
La controversia internazionale che può dare luogo all’attacco armato, e quindi alla guerra, rilevante per il diritto internazionale, infatti, può aversi solo TRA STATI. Questi possono aderire a trattati di difesa comune militare (l’esempio più noto è la Nato), sicchè l’attacco armato ad uno Stato “alleato” può trasformarsi in una controversia, anche in forma armata, che coinvolge tutta la “coalizione“.
Ma rimane il fatto che occorre pur sempre individuare uno Stato aggressore.
E non solo: ma l’aggredito rimane pur sempre da qualificare come Stato, quello nel cui territorio si svolge l’attività di aggressione, quand’anche attraverso forze costituite da “ribelli“, o irregolari o mercenari assoldati dietro ogni forma di compenso, evenienza, abbiamo ivisto, di violazione del “divieto di ingerenza” e di “minore violazione” del divieto uso o minaccia della forza.
Il punto è che la cittadinanza dei ribelli (per essere tali, normalmente, sono proprio della stessa cittadinanza del paese nel cui territorio agiscono usando la violenza) o delle unità “irregolari” non è rilevante: fossero stati, come pare che in effetti siano, francesi o algerini o siriani o altro ancora, gli stessi non avrebbero comunque compiuto un attacco armato riconducibile allo stato di guerra.
Semplicemente perchè si ricade, con tutta evidenza, nell’ipotesi di non riconducibilità ad uno Stato determinato nemmeno della violazione del divieto di ingerenza,(diversamente, sulla base di una serie di accertamenti di fatto reclamati dagli Stati Uniti, sotto il principio della legittima rappresaglia, è stato ritenuto per il caso dell’Afghanistan).
Attribuire all’intero Islam, in sè considerato, la fornitura di assistenza, armi, logistica ai gruppi di ribelli (se cittadini dello Stato in cui agiscono) o di truppe irregolari e mercenarie coinvolti nell’ondata di attentati attuale, è semplicemente impossibile: sia come giudizio di fatto (che implicherebbe l’accertamento di un’altra serie infinita di fatti, tra cui anche quello di una “intelligenza” unitaria ed organizzata di tutti i credenti in tale religione), sia sotto un corretto piano giuridico.
Non esiste, infatti, un soggetto internazionale, meno che mai uno Stato, identificabile come “Islam”.
Non esiste neppure un territorio dell’Islam giuridicamente identificabile, come non esiste un solo Stato islamico, e neppure, infine, è del tutto chiaro e consolidato un univoco concetto di Stato islamico, (distintivo rispetto a tutti quelli con popolazione appartenente in maggioranza a tale religione).
In ogni modo: se anche uno Stato – riconosciuto come tale dalla comunità internazionale, badate bene- a maggioranza musulmana si dichiarasse “islamico”, poi, non esisterebbe, attualmente, la prova del suo aperto e diretto coinvolgimento nei fatti di Parigi.
E comunque, se pure qualcosa risultasse, non sarebbe allo stato univocamente accertabile in termini di identificazione di un preciso Stato che si “ingerisce”, compiendo la “violazione minore” del divieto di uso della forza (l’Algeria? La Siria nel caos? L’Iran che è sciita e pare del tutto estraneo a questi attentati? L’Iraq altrettanto nel caos totale? L’Arabia saudita in relazione alle diffuse voci di emuli di Bin Laden nel farsi finanziatori dei movimenti terroristici?).
La questione è cruciale: la guerra è una controversia tra Stati condotta mediante l’uso della forza armata da parte degli Stati coinvolti.
La violazione del divieto di ingerenza, col supporto a forze ribelli ed eversive che agiscano sul territorio altrui, richiede comunque la identificazione dello Stato che si “ingerisca”.
(Nazioni nelle quali sono avvenuti attacchi terroristici di matrice islamica dopo l’11 settembre 2001)
7. E poi non è affatto detto che tale “ingerenza” non sia stata in realtà per prima compiuta dagli Stati che subiscono la successiva ondata di terrorismo: anzitutto, c’è una diretta derivazione dal passato coloniale della presenza, nei territori di importanti Stati occidentali, di persone appartenenti a famiglie originarie dei paesi colonizzati e poi, in molti casi, divenuti cittadini del paese colonizzatore (essendo in esso emigrati). E di sicuro, la colonizzazione era qualcosa di ben più consistente di una “ingerenza“.
Poi, comunque, gli Stati “occidentali” politicamente ed economicamente più importanti, quelli che ad es; esprimono la “governance” delle principali istituzioni economiche internazionali, non possono certo dirsi (quantomeno in un passato più o meno recente) estranei al “supporto”, in armi e finanziamenti, a gruppi di ribelli nei paesi “ex” o “neo” coloniali.Negarlo sarebbe una palese ipocrisia, per Stati come la stessa Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti.
Addirittura, le tragedie terroristiche attuali, in una visione “brutale” del diritto internazionale, – pur sempre possibile, e ciò via via che si affermino come effettivi nuovi rapporti di forza, che superino i sempre più indeboliti “principi della Carta” ONU- potrebbero essere viste (quantomeno da parte dei cittadini dei paesi ex-coloniali) come iniziative di “controingerenza“.
In una certa visione storico-politica che, ufficialmente o ufficiosamente, taluni paesi islamici tendono a rivendicare, iniziative oggi qualificabili come violazione del divieto di ingerenza, per quanto allo stato illegittime, potrebbero persino teoricamente essere “di fatto” (bruto), legittimate dai principi di ritorsione e di autotutela, da parte di paesi che cerchino di forzare i limiti attuali della “legittima difesa” ex art.51 della Carta ONU.
Solo che, vista la natura e la composizione etnica e sociologica delle cellule terroristiche attualmente in azione, tali atti di controingerenza risultano assunti non tanto direttamente dagli Stati ex coloniali, quanto piuttosto nascenti, in una sorta di condizione “diffusa”, dalla forza unificatrice della cultura anti-occidentale radicata nell’Islam.
Tale cultura, indubbiamente a sfondo religioso (elemento evidente ed innegabile), comunque discende da un’antica (e peraltro multiforme) unità politica derivante dalla espansione araba dei secoli VIII-X8. Dunque, proprio sul piano del diritto internazionale, certe azioni potrebbero essere viste come una rappresaglia, una autotutela in ritorsione per le ingerenze (e la stessa colonizzazione, politica e poi economico-culturale) in precedenza subìte.
Nel quadro dei principi del diritto internazionale allo stato vigente, se promosse da uno Stato ben identificabile risulterebbero azioni di autotutela-ritorsione illegittime perchè caratterizzate dall’uso della forza (violenza terroristica), cioè dalla violazione di un divieto assoluto, e, come tali, spropozionate ed illegittime.
Non si può dimenticare questo aspetto e considerare (in modo unilaterale, da parte di un’opinione pubblica occidentale che pare priva di memoria) solo l’atto terminale di una sorta di, in realtà”antica”, faida tra civiltà (o, più esattamente, tra grandi aree di influenza politico-culturale ed economica).
In altri termini, la comprensione del fenomeno non si ottiene isolando l’episodio “subìto” per ultimo dalla catena di eventi storici e di violenze che “l’altra cultura” ritenga di aver a sua volta subìto, a torto o a ragione (questo è un punto delicato: ma certo la ragione non se la può autoattribuire una sola parte del conflitto).Non si può perchè non è nè utile alla comprensione del presente, scindendolo dal passato e alterando la prevedibiltà del futuro, nè operazione corretta sul piano del diritto internazionale (ammesso che le sue previsioni generali, essenzialmente consuetudinarie, possano essere mai usate isolando un fatto dai suoi antecedenti, in base ai…rapporti di forza).
9. Sta di fatto, dunque, che l’analisi storica, usata attraverso la lente del diritto internazionale, ci restituisce un quadro meno semplificato di quello che racconta di una “guerra”.
Se si vuole la globalizzazione non si può utilizzarla ipocritamente per affermare una legittimità formale (solo) di chi se ne avvantaggia. O meglio delle elites transnazionali, ma radicate in Occidente, che se ne avvantaggiano: magari scaricandone i costi, come al solito, sulle comunità sociali di propria origine, di cui non si ha nessuna “cura” e considerazione.
Tale legittimità, separata da ogni considerazione dei fatti complessivi che denunciano gli effetti della nuova religione del free-trade e del passato coloniale, è affermata dalla governance paesi dominanti che a tale globalizzazione sono interessati per il proprio vantaggio economico e politico.
Sono forse i singoli cittadini “comuni” dei paesi occidentali a volere lo stato di non-democrazia e di asservimento a oligarchie locali, ben sostenute dai poteri economici “transnazionali”, che caratterizza l’ingiustizia e il risentimento dei disperati che vivono nei paesi islamici?
La globalizzazione opera attraverso la cornice politica, normativa e finanziaria di istituzioni (il cui eventuale legame con l’ONU è poco più che in biglietto da visita retaggio in un passato…mai nato) che, secondo l’unanime considerazione degli studiosi di diritto e di politica internazionale, sono la diretta espressione delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale.
Siamo di fronte, oggi più che mai, a quello che Lordon chiama il diritto internazionale privatizzato (cioè, poi, come evidenzia Chang, non certo a vantaggio delle comunità sociali, ma rispondente agli interessi degli eletti, i “Bad Samaritans“, professanti il free-trade da invariabili posizioni di forza).
Anzi tale sistema “istituzionalizzato” risponde, più esattamente, alle potenze vincitrici “occidentali” (problema che ha prima reso scarsamente efficace lo stesso ruolo dellONU e che poi lo ha quasi del tutto reso inutile).
Tali potenze hanno esercitato e tutt’ora cercano di esercitare, secondo la loro convenienza politico-economica, il controllo (governance) su WTO, OCSE, WB, e, più che mai, sul FMI.
Quest’ultimo è ormai irreversibilmente trasformato in un organismo che nulla più ha a che fare, semmai in passato l’abbia avuto, con i principi della Carta della Nazioni Unite, cioè con gli scopi fondamentali di queste ultime. Tant’è che nessuno penserebbe di rivolgersi con qualche speranza di essere ascoltato, all’Assembea o altro organo arbitrale delle NU, – divenute ormai troppo “deboli” se non inutili-, per dedurre l’illegittimità provocata dalla inosservanza dell’accordo (di mera forma, ai sensi degli artt.57 e 63 della Carta ONU) concluso dal FMI con le NU, violazione concretizzatasi nella imposizione di una “lettera di Intenti”.
Queste “lettere di intenti” sono normalmente impositive, allo Stato indebitato con l’estero, di pesanti “condizionalità” in cambio dell’accesso, mediato attraverso i c.d. “diritti speciali di prelievo”, alla valuta di riserva occorrente nelle transazioni internazionali (quella valuta che i paesi del c.d. “terzo mondo” prima, e poi, grazie alla asimmetria strutturale dell’euro, i paesi “periferici” dell’UEM, non vantano più come “riserva”, essendo impediti, grazie al funzionamento dei mercati “liberalizzati”di capitali e di merci, a procurarsela mediante dei fisiologici attivi della bilancia dei pagamenti, resi impossibili dal funzionamento del free-trade).Ma non risulta che tali “condizionalità” imposte dal FMI siano mai state oggetto di censura, mediante raccomandazioni (art.63 della Cartta), di organi dell’ONU, ovvero di lamentela da parte degli Stati per aver violato ciò che l’accordo che “dovrebbe” legare il FMI all’ONU sarebbe teso a garantire: cioè che il FMI (in quanto istituto specializzato delle NU) debba operare nel quadro dei fini indicati come prioritari dall’art.55 della Carta.
E cioè:
“…per creare le condizioni di stabilità e di benessere che sono necessarie per avere rapporti pacifici ed amichevoli fra le nazioni, basate sul rispetto del principio dell’uguaglianza dei diritti o dell’autodecisione dei popoli, le Nazioni Unite promuoveranno:
a) un più elevato tenore di vita, il pieno impiego della mano d’opera, e condizioni di progresso e di sviluppo economico e sociale;
b) la soluzione dei problemi internazionali economici, sociali, sanitari e simili, e la collaborazione internazionale culturale ed educativa;
c) il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione.“La violazione dell’accordo di collegamento con le NU, stipulato per garantire l’osservanza dei principi economici della Carta, è un’ipotesi meramente astratta e ormai circondata dalla più forte delle condizioni “di fatto” che caratterizzano il diritto internazionale: la consuetudine contraria, che è poi sostanziale abrogazione per “desuetudine“.
Gli esiti delle “cure” propinate ai vari paesi dalle condizionalità imposte dal FMI non possono certamente ricondursi, neppure nelle più sfrenate fantasie, a tali finalità ed obiettivi.
E le Nazioni Unite, prescegliendo, attraverso il proprio Consiglio economico e sociale, di tralasciare la verifica sostanziale del rispetto dell’art.55 da parte dei suoi istituti o “agenzie” specializzati, hanno lasciato mano libera al FMI per instaurare una precisa concezione del ruolo della moneta e dei modi di correzione degli squilibri nei pagamenti internazionali che ha finito per negare, anzichè tutelare, diritti umani e piena occupazione, elevazione culturale e autodecisione dei popoli. Si è, anzi, così semmai instaurato quel mondo di risentimento e povertà diffusa inflitto, senza alcuna speranza, a sterminate maggioranze di popolazione alle quali ogni umano progresso appare per sempre precluso.
Ad attestarlo sono gli “indici di Gini” in diffusa crescita e la concentrazione della ricchezza sempre più accentuata che caratterizza l’insieme degli Stati assoggettati alla governance finanziaria degli alfieri del free-trade, della financial deregulation, delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni totali del mercato del lavoro.
10. Ed è in questo mondo di squilibri sociali in continua ed abissale divaricazione, di concentrazioni economiche e finanziarie private agenti in modo transnazionale, che si vedono gli effetti della imposizione globale della convenienza di tali entità private: attraverso il controllo mediatico e accademico ed esprimendo una casta, chiusa, insensibile nonchè insensata, di “esperti economici”. Questi ultimi vengono incaricati presso le istituzioni economiche internazionali, che sono ormai dotate di poteri incontrollabili, da parte di una comunità internazionale intesa in senso veramente democratico (cioè non per peso economico ponderato).
Ed è, allora, in questo contesto che possiamo collocare il problema dell’Islam.
Se non ci fossero i milioni di diseredati che vengono prodotti dai sistemi politici, destabilizzati e compressi nella loro sovranità dall’arrembante imposizione del paradigma mainstream del Washington Consensus, in ultima analisi, se non ci fossero state le “ingerenze” del potere economico transnazionale – ma “concentrato” nelle mani di pochi individui superprivilegiati-, l’Islam non sarebbe stato alterato dall’irrompere, a partire dai primi anni ’90, di un suo ruolo (aggiuntivo) di religione del risentimento e della rabbia (inestinguibili).
E’ difficile negare questa realtà: il medio-oriente e il nord Africa ne sono la dimostrazione.
L’intero mondo arabo sunnita, ora anche l’Africa sub-sahariana mischiano la miscela esplosiva, costituita da appetiti sulle materie prime a vantaggio di paesi neo-colonizzatori e classi politiche tanto più corrotte quanto più conformi alla ipocrita logica delle “riforme” imposte dai neo-colonizzatori, con un peggioramento senza precedenti delle condizioni sociali di masse sterminate di esseri umani.
Si tratta di esseri umani, strappati alle tradizioni delle proprie culture, che finiscono per riversare, in sub-conflitti etnico-religiosi e verso intransigenti rivendicazioni di stili di vita interpretati come conformi alla religione, la mancanza di prospettive di una vita dignitosa.
11. E lo stesso vale anche per gli immigrati in Occidente, scacciati dalla loro terra per gli effetti di impoverimento permanente determinato dalle ex e post colonizzazioni, imposte dagli spietati “mercati“.
Siano essi di prima o di seconda generazione, questi immigrati non soffrono tanto della mancata integrazione determinata da omissione o fallimento di presunte politiche sociali e culturali (ovviamente cosmetiche), quanto della IMPOSSIBILITA’ strutturale di un’integrazione che deriva da impostazioni di politica economica rigide e insensate, incentrante sull’idea della deflazione, della competitività e della connessa riduzione dello Stato sociale.
11.1. Tutti insieme, immigrati e strati crescenti della stessa popolazione autoctona dei paesi occidentali, soffrono di impoverimento e della arrogante imposizione della “durezza” del vivere da parte di una governance che vive nel più sfacciato privilegio della rendita economica (anche in Italia). Gli immigrati, specie della seconda generazione, finiscono per sbattere contro il muro della FINE DELLA MOBILITA’ SOCIALE IMPOSTA DAL PARADIGMA NEOLIBERISTA: quando si accorgono di essere destinati a un irredimibile destino di lavoratori-merce, che si aggiunge alla continua tensione razziale e culturale con gli strati più poveri della popolazione del paese “ospitante”, sono nella condizione “ideale” per abbracciare l’Islam integralista.
L’adesione restituisce loro dignità, identità e una risposta alle frustrazioni della tensione con gli “impoveriti” del paese ospitante.
Questa tensione è tanto più acuìta quanto più questi ultimi, gli “autoctoni”, sono essi stessi assorbiti nella voragine del lavoro-merce.
Come esito di tale processo ormai ultraventennale, gli immigrati sono posti, pur essendo (teoricamente) in condizioni materiali diverse da quelle dei disperati concittadini (o ex tali) delle terre di orgine, nella stessa attitudine di rabbia e disperazione dei diseredati dei paesi più impoveriti del mondo.
Lo scatenarsi, anche nella forma del fanatismo religioso terroristico, di sub-conflitti “sezionali“, tra credenze teologiche, stili di vita, pregiudizi razziali e etnici, sono solo il sottoprodotto di società globalizzate votate a destrutturare gli Stati democratici pluriclasse dell’Occidente (ex illuminista?): questi sono, o erano, gli Stati aventi come obiettivo sia la mobilità e la giustizia sociali “interne”, in Occidente (dove si era affermato questo tipo di democrazia), sia quello di autolimitarsi dall’intraprendere azioni che stabilizzassero tali ingiustizie nel c.d. Terzo Mondo.
(Altro che governo mondiale dell’economia liberalizzata!)
11.2. Perchè si dice, come stigmatizzava ironicamente Keynes, che il welfare, “non ce lo possiamo (più) permettere“, ormai ovunque in un mondo governato dalla “parodia dell’incubo del contabile“.
Ma questo solo dopo aver creato, con atti umani intenzionali – di cui qualcuno dovrà, prima o poi, assumersi la responsabilità-, attraverso trattati e imposizioni di istituzioni internazionali, le condizioni perchè, appunto, non ce lo si possa permettere.La globalizzazione dominata a tutti i livelli dalla governance economica finanziarizzata sta garantendo nulla più che la compressione della pentola sociale estesa senza più confini, proprio per la predicata interdipendenza delle economie; una creazione umana, non una condizione naturale.
Disarticolare gli Stati nazionali sostenendo che essi fossero la causa delle guerre, proprio mentre si stava affermando irreversibilmente la sovranità democratica, porta a perdere i vantaggi di questa sovranità: la capacità intrinseca della democrazia costituzionale, basata sui diritti umani fondamentali, di avere come priorità non solo il benessere dei propri cittadini ma anche il rispetto della possibilità degli altri Stati sovrani democratici e costituzionali di promuoverlo autonomamente.
11.3. Anche per gli atti terroristici dell’estremismo islamico,- è del tutto evidente-, la soluzione passa per il recupero della sovranità democratica in tutta la sua pienezza.
Questi atti, abbiamo visto, non sono “guerra” in senso proprio. Sono un problema di diritto pubblico interno, un problema di prevenzione e di “pubblica sicurezza” che presenta il carattere nuovo, rispetto ai terrorismi anarchici e rivoluzionari “interni” dei due secoli scorsi, di riflettere la nuova ondata “free-trade” della globalizzazione: cioè i suoi effetti che portano, come effetto, alla irresistibile migrazione di cui parla anche Umberto Eco.
Ma non si tratta di una “guerra” e neppure di un vero problema di sanzioni e ritorsioni da imporre a qualche Stato canaglia: magari accelerando, sull’onda emotiva creata da un prevedibile fenomeno di terrorismo internazionalizzato – quanto il conflitto sociale creato dalla globalizzazione-, il riarmo e la spesa pubblica in armamenti.
E un problema di pubblica sicurezza che, inevitabilmente si svolge sul territorio di un singolo Stato e “uccide” i suoi cittadini, non richiede l’ennesimo “più Europa” e la solidarietà di facciata (che implica un evidente “ognun per sè” e una successiva algida declinatoria di competenze, veramente eloquenti), solidarietà comunque “a costo zero”, perchè tale è prevista dai trattati (art.222 TFUE).
E neppure richiede che si ripensi la mai attivata (seriamente) e ormai grottesca aspirazione a un “sistema integrato di gestione delle frontiere esterne” (art.77, par.1, lett. c) TFUE).
Occorre invece rafforzare il senso dello Stato, nei suoi compiti fondamentalissimi, NON RIDUCIBILI e NON PRIVATIZZABILI: lo Stato democratico inteso come ente di tutela del benessere della intera comunità sociale che vive legalmente nel suo territorio, a prescindere dalla cittadinanza di origine.
Si tratta insomma di ripristinare la moderna sovranità costituzionale e di togliere il giocattolo del potere – perchè come un gioco irresponsabile viene assunto un potere elitario votato al profitto più retrivo ed egotico- a chi pensa che la democrazia sostanziale sia un ostacolo, un costo e nulla più. Cioè a chi opera, ormai senza più alcuno scrupolo, dimenticando che l’Umanità è NEL SUO INTERO composta da esseri umani che hanno un diritto alla vita ed alla dignità pari a quello di chi domina le istituzioni nazionali ed internazionali. Come in fondo prescrive(rebbe) l’art.55 della Carta dell’ONU.
Sperando che non sia una norma ormai in desuetudine.
Luciano Barra Caracciolo, che non ha bisogno di alcuna presentazione, ha deciso di scrivere direttamente su Scenarieconomici.it (mantenendo ovviamente il suo splendido blog Orizzonte48), dopo una serie di pezzi da 90 quali il Prof. Antonio Maria Rinaldi, il Prof. Paolo Savona, il Prof Nino Galloni, l’Avv. Francesca Donato, l’Avv. Marco Mori. Gli diamo il nostro benvenuto.
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