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La crescita dei tassi di interesse è un problema per l’Italia, ma non solo Le cause dell’aumento dei tassi di interessi vengono da lontano, ma noi le paghiamo in modo maggiore

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Articolo pubblicato da Milano Finanza il 31/8/2018. Questa versione è quella integrale. 

Oggi si è tenuta un’asta per il collocamento di BOT, CCT e BTP, con gli occhi puntanti soprattutto sulla terza tipologia di titoli, anche perchè i decennali sono il benchmark su cui si “pesa” il costo del debito pubblico di un paese. La somma offerta non era enorme, ma il risultato per il Tesoro è stato, comunque, abbastanza deludente: infatti il rendimento si è collocato al vertice superiore della forbice indicative fornita dall’emittente, con un rendimento lordo del 3,25%, con un rapporto di copertura comunque ancora soddisfacente, pari ad 1,37, indice di una domanda comunque attenta, ed un importo assegnato pari a 2,25 miliardi di euro. Se consideriamo che il tasso di inflazione registrato a luglio è stato pari all1,5%, abbiamo un rendimento reale del 1,75%. Per dare un parametro internazionale oggi il 10Y Treasury US rendeva circa il 2,85%, praticamente un rendimento zero o negativo, se comparato con un tasso di inflazione a luglio del 2,9%. Allo stesso modo il titolo decennale inglese veniva a rendere un 1,47%, che con un’inflazione al 2,5% porta il rendimento relativo in campo abbondantemente negativo. Perfino il titolo spagnolo viene a rendere oggi il 1,47% al limite del territorio negativo, dato che l’inflazione rilevata a luglio da Madrid era pari al 2,2%.

Che cosa succede ai titoli di stato italiani, come mai si assiste a a questa impennata dei tassi? Si tratta solo del risultato delle anticipazioni sul rating dell’agenzia Fitch, improvvidamente fornite da Repubblica proprio il giorno in cui avveniva l’asta dei titoli di Stato? L’Agenzia sottolinea come i contrasti fra forze politiche possono rendere complesso e stressante il procedimento di definizione del bilancio italiano, ma questa è una caratteristica tradizionale dei processi di creazione del bilancio pubblico in Italia, e oserei dire, in buona parte del mondo. Tra l’altro le anticipazioni al documento vengono ad affermare che l’uscita dell’Italia dall’euro, vero spauracchio non tanto per il nostro paese, quanto per tutta l’area della moneta unica, è estremamente improbabile, se non addirittura impossibile.

In realtà la situazione italiana si viene ad innestare in una crisi mondiale molto più ampia, in cui i paesi emergenti stanno facendo da termometro ad una temperatura economica in innalzamento. Nel 2012 l’attuale governatore della FED, Jerome Powell, ad un meeting del FOMC, affermò che un innalzamento dei tassi di interessi della banca centrale americana, con quindi conseguente stretta monetaria, avrebbe potuto portare ad una crisi fiscale, ma questo non lo ha fermato, ora che è lui il governatore in carica, dal perseguire questa politica. In realtà questa stretta non si è ancora fatta sentire negli USA; ma ha già avuto conseguenze molto forti in tutte le economie dei paesi emergenti, con perdite fortissime nelle quotazioni delle relative monete. Argentina, Brasile, Turchia, Messico, Indonesia, hanno visto tutte una forte riduzione dei propri corsi monetari, pur avendo situazioni politiche diverse, economie spesso molto divergenti, ed avendo agito nei confronti della crisi in modo differente. Per fare un esempio pratico mentre Erdogan ha seccamente rifiutato ogni aiuto dal FMI, Macrì lo ha fortemente richiesto, ma in entrambe i casi, non c’è stata nessuna differenziazione. Il problema di base è che questi paesi non presentano elevati debiti pubblici e neppure elevatissimi debiti privati: se consideriamo ad esempio la Francia ha delle posizioni debitorie ben più gravi. Tutte queste nazioni hanno delle esposizioni in valuta estera, essenzialmente o in dollari o in euro. Anche se i debito complessivi non sono elevati, comunque sono da ritenersi eccessivi quando la FED ha iniziato ad innalzare i tassi. Si sono approvvigionati in dollari nei momenti in cui i tassi erano bassi ed ora, al primo stormir di vento, vanno in crisi.

Quindi assistiamo ad un innalzamento dei tassi di interesse a livello mondiale che nei paesi in via di sviluppo si converte in una caduta dei corsi monetari. L’Italia non ha nessuna autonomia dal punto di vista monetario, e non ha una banca centrale che la difenda quando il mare inizia a farsi mosso se non nell’ambito del programma QE tuttavia in via di esaurimento. Il problema non è solo prettamente politico, poiché paesi con situazioni confuse, ad esempio come la Tailandia, hanno dei rendimenti reali che sono inferiori a quelli espressi dai nostri decennali. Non è neppure una questione solo di debito: Singapore, un paese piccolo, con moneta sovrana, ma con un rapporto debito PIL superiore al 100%, ha un rendimento reale dei titoli di stato inferiore al nostro. Il Giappone ha un rendimento reale negativo, ed un debito superiore al 230 del PIL, ma la BoJ fa il suo lavoro nel controllo dei tassi di interesse.  Il vero problema dell’Italia è che non ha una banca centrale, non tanto da intendersi come prestatore di ultima istanza, quanto come ente in grado di imbrigliare le forze del mercato quando i mari si fanno agitati. Quello che leggono ora i mercati è che il “Whatever it takes” di Draghi e della Banca Centrale possa non essere rispettato, cioè che non si riuscirà più a fare tutto quello che è necessario per la stabilità monetaria, come fece nel 2012 e nel 2014. Quello che stiamo pagando in Italia quindi è il premio del rischio dell’euro che, non potendosi riversare ovviamente sul cambio e non potendo essere contenuto dalle azioni sul mercato aperto dia parte di una banca centrale, ricadono sui rendimenti dei titoli di stato e neppure la presenza del più accondiscendente Presidente del Consiglio modificherebbe qualcosa perché non si può cambiare la struttura di un sistema economico nel breve periodo, ed il lungo periodo è ormai troppo lontano.  L’idea ormai chiara è quella di un’Unione Monetaria in cui si cerca di punire o di eliminare l’ultimo vagone, solo che, nel caso dell’Italia, l’ultimo vagone è anche una motrice senza la quale l’intero convoglio rischia di fermarsi. 

Fabio Lugano


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