Economia
Il Vertice del G20 a Rio: Una Storia di Promesse Vaghe e Portafogli Chiusi. Niente per il COP29
Il G20 in Brazile non decide come finanziare i 1000 miliardi annui chiesti dal COP29. Due riunioni che ormai sono inutili, inconcludenti
Nel cuore di Rio de Janeiro, dove il mondo guardava con speranza a possibili soluzioni per la crisi climatica, si è consumato l’ennesimo capitolo di esitazione globale. Il vertice G20 ha rivelato una verità scomoda: nessuna delle grandi potenze mondiali sembra davvero pronta ad aprire il portafoglio per contribuire al trilione di dollari promesso ai paesi in via di sviluppo durante la COP29 di Baku.
La scena è quasi teatrale: da un lato António Guterres, Segretario Generale dell’ONU, che implora “leadership” nei negoziati sul clima; dall’altro, i leader del G20 che danzano elegantemente intorno alla questione dei finanziamenti, parlando vagamente di “tutte le fonti” possibili, senza mai specificare chi dovrebbe effettivamente pagare questi trilioni di dollari promessi. Per essere precisi 1000 miliardi all’anno dai paesi ricchi a quelli poveri per la transizione ecologica. Chi non ha 1000 miliardi in tasca per i resti.
La storia si fa ancora più interessante quando si guarda ai dettagli. Invece di affrontare direttamente l’eliminazione dei combustibili fossili, i leader si sono limitati a parlare di eliminare gradualmente i “sussidi inefficienti” – un notevole passo indietro rispetto agli impegni presi alla COP28. Come ha acutamente osservato Mick Sheldrick di Global Citizen, stanno semplicemente “restituendo la palla a Baku”, rendendo ancora più difficile raggiungere un accordo concreto. Non solo nessuno vuole dare soldi, ma nessuno vuole prendere impegni.
Ma non tutto è stato grigio a Rio. Il presidente brasiliano Lula ha portato a casa almeno una vittoria, lanciando un’alleanza globale contro la fame che promette di aiutare 150 milioni di bambini entro il 2030. Un raggio di sole in un cielo altrimenti nuvoloso.
Lo sfondo di questo vertice è stato colorato da altre preoccupazioni globali: l’ombra della guerra in Ucraina, il possibile ritorno della politica “America First” di Trump, e gli avvertimenti del presidente cinese Xi Jinping su un mondo in “tumulto”. La dichiarazione finale riflette queste tensioni: condanna l’uso della forza per acquisire territori, ma evita accuratamente di nominare la Russia, mentre chiede un cessate il fuoco sia a Gaza che in Libano. Il solito mix di colpi al cerchi e alla botte.
Un momento di particolare interesse è stato lo scontro ideologico portato dal presidente argentino Javier Milei, che ha pubblicamente contestato parti della dichiarazione riguardanti la regolamentazione di internet e l’intervento statale contro la fame – pur finendo per firmare il documento. Un modo per dimostrare la propria unicità a fronte di un mondo sempre uguale.
E così, mentre il vertice di due giorni volgeva al termine, una cosa è diventata chiara: il G20, che riunisce le 19 maggiori economie mondiali più l’UE e l’Unione Africana, ha ancora una volta dimostrato quanto sia difficile tradurre le grandi parole in azioni concrete, soprattutto quando si tratta di mettere mano al portafoglio per salvare il pianeta. Il trilione di dollari necessario per aiutare i paesi in via di sviluppo rimane un miraggio nel deserto delle buone intenzioni, mentre il tempo per agire continua inesorabilmente a scorrere.
Francamente ormai bisogna iniziare a chiedersi il sesno di questi meeting, G20 e COP, quando non c’è accordo comune e, soprattutto, nessuno crede più alla guida monopolare. Sono molto più decisivi vertiti come quello di Shanghia o BRICS, dove effettivamente si concludono accordi e si fanno affari, senza la pretesa di essere multipolari. Il mondo cambia e le passerelle ONU sono sempre meno utili.
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