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IL PONTE DI MONTECRISTO

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Se doveste scegliere un libro da portare in un’isola deserta oppure in un rifugio post-atomico o in qualsiasi altra situazione estrema (non necessariamente apocalittica, ma con parecchio tempo a disposizione) quale scegliereste? Esclusa la Bibbia, s’intende. La Bibbia è una risposta troppo facile e scontata per essere credibile. Parlo di libri d’autore o, tanto per semplificarvi la faccenda, di grandi romanzi in grado di fungere da ponte verso una ‘riedizione’ (elevata) di voi stessi. Intanto che pensate alla vostra, vi dico la mia: Il Conte di Montecristo. E la motivo pure. Nella celebre storia di Alexandre Dumas padre c’è tutto quanto serve per divertirsi (rapiti da una trama strepitosa) e più di quanto serve, addirittura, per ‘crescere’ cioè per diventare uomini migliori. Limitiamoci alla prima parte del racconto per non rovinare il prosieguo e il finale. C’è un protagonista, Edmond Dantes, baciato dalla sorte a cui tutto va alla grande (dall’amore agli affari) fino all’istante in cui tutto comincia ad andare malissimo. Vittima dell’invidia e dell’odio altrui, di una monumentale calunnia e di un perverso gioco ad incastro di circostanze sfortunate, Edmond si trova rinchiuso nelle putride secrete di una fortezza a scontare una pena abnorme per una colpa mai commessa. Il nostro ricorda un po’ Giobbe (la Bibbia, comunque sia, prima o poi c’entra sempre) per la repentinità della sua tremenda sventura, un po’ il povero Josef K del ‘Processo’ di Kafka (indagato e condannato senza un perché) e un po’ l’idiota di Dostoevskij (il giovane buono, trasparente, ingenuo per il quale il mondo non può essere davvero il nido di serpi che, invece, è). Ad ogni buon conto, poco prima di cedere alla tentazione di ammazzarsi, vinto dalla più cupa disperazione, Dantes entra in contatto con il vicino di cella (lo spiritato abate Faria) e la sua vita cambia per sempre. Attenzione: cambia a prescindere dalla fuga che ancora non c’è stata, e magari non ci sarà; cambia perché il vecchio Faria mette a disposizione di Edmond tutta la sua sconfinata erudizione, intelligenza, saggezza. Lo ‘forma’ alla vita, fa di Dantes un Uomo ‘iniziandolo’ all’esistenza in un senso quasi gnostico: lo trae dalle tenebre della spelonca di pietra in cui egli si trova in ceppi (con il corpo) e di quella immateriale – di ignoranza originaria, insipienza puerile, inesperienza incolpevole – in cui è finito imprigionato (con la mente) e ne fa sbocciare i talenti e le qualità. Quindi abbiamo un libro dove l’apoteosi della sventura (una galera a vita, per di più ingiusta) coincide con l’acme della fortuna (la liberazione dalla nebbia dell’inconsapevolezza). Non è solo un insegnamento a saper scorgere, e cogliere, l’opportunità celata dietro ogni disgrazia, ma è anche un invito a comprendere quanto un uomo debba investire sul proprio sé (e quanto un genitore debba investire su un figlio e quanto un maestro su un allievo e quanto un mentore su un discepolo) per vedere al fine compiersi il miracolo della ri-nascita che, non a caso, è l’obbiettivo di ogni tradizione ermetica. In questo senso, il Conte di Montecristo è un libro ‘immobile’ che fa immedesimare il lettore in un uomo ‘immobilizzato’, ma solo per farlo poi ‘muovere’ (evolvere) alla velocità della luce nella giusta direzione del pieno compimento di sé.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com


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