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Il nuovo Patto di Stabilità non cambia la logica: l’Europa resta prigioniera dei suoi vincoli (di Antonio Maria Rinaldi)
Dietro la retorica della modernizzazione, il vecchio impianto contabile di Maastricht sopravvive in nuove formule. ntonio Maria Rinaldi spiega perché i nuovi algoritmi di Bruxelles non porteranno crescita, ma solo una diversa forma di austerità, lasciando l’Europa prigioniera di vincoli contabili che ignorano l’economia reale.

Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita, entrato in vigore nel 2024 dopo la sospensione pandemica, viene presentato come una modernizzazione dell’architettura economica europea. In realtà, è l’ennesimo tentativo di rianimare un impianto normativo che, per sua natura, resta esterno al diritto fondativo dell’Unione. È bene ricordarlo: il Patto di Stabilità non fa parte dei Trattati europei. È un accordo intergovernativo nato per disciplinare la condotta fiscale degli Stati in assenza di una politica economica comune. Ciò significa che i parametri di Maastricht — 3% di disavanzo e 60% di rapporto debito/PIL — non possono essere modificati se non rivedendo i Trattati. Ogni riforma del Patto, dunque, resta un esercizio amministrativo che non tocca l’impianto dei vincoli.
Il Patto di Stabilità, infatti, pur fondandosi sugli articoli 121 e 126 del TFUE, non è mai stato formalmente integrato nei Trattati. È stato attuato attraverso regolamenti del Consiglio e del Parlamento europeo (1466/97 e 1467/97), successivamente modificati, ma resta un insieme di norme derivate, non un elemento costitutivo del diritto primario dell’Unione.
Questa distinzione, spesso taciuta nel dibattito politico, è decisiva. Il nuovo Patto non innova il quadro giuridico europeo: si limita a reinterpretare vecchie regole con nuovi algoritmi. L’obiettivo dichiarato è rendere più “realistiche e personalizzate” le traiettorie di rientro del debito. Ma il presupposto resta lo stesso: considerare la stabilità nominale come condizione sufficiente per la crescita reale. È una visione che ignora la lezione della storia economica: la sostenibilità del debito non dipende da un numero, ma dal tasso di crescita dell’economia rispetto al costo medio del debito. Quando la regola contabile diventa il fine, la politica economica smette di essere strumento di sviluppo e si riduce ad amministrazione del vincolo.
La novità dei “piani nazionali di medio termine” promette maggiore autonomia: ogni Paese definisce un percorso quadriennale di aggiustamento, estendibile fino a sette anni in cambio di riforme strutturali. In realtà, la discrezionalità resta a Bruxelles, che approva e valuta la “credibilità” dei piani. È una sovranità concessa, non riconosciuta. Allo stesso modo, la nuova variabile di controllo — la “spesa netta primaria” — sembra tecnica, ma dipende da stime sul PIL potenziale elaborate dalla Commissione. Così, la discrezionalità politica si sposta dai Parlamenti agli uffici tecnici.
Finché non si modificheranno i Trattati, a partire dal Protocollo n. 12 allegato al Trattato di Lisbona, nessun Patto potrà generare crescita. E finché resteranno intatti gli articoli 123-125 del TFUE, che limitano la funzione monetaria pubblica, ogni riforma sarà solo maquillage contabile. Ridurre il debito richiede politiche espansive ad alto moltiplicatore, non tagli lineari o maggiori imposte.
L’effetto macroeconomico di questa impostazione è noto: politiche procicliche, restrittive in recessione e caute in espansione. L’esperienza post-crisi lo ha dimostrato: correggere i conti nei momenti sbagliati non riduce il debito, lo amplifica, deprimendo crescita e base imponibile. È l’applicazione pratica di un errore teorico: confondere la stabilità contabile con la sostenibilità economica.
La contraddizione più profonda resta istituzionale. Si impone disciplina fiscale senza dotare l’Unione di un bilancio federale e di strumenti comuni di stabilizzazione. Si parla di “ownership nazionale”, ma si negano gli strumenti della sovranità economica: la gestione del ciclo, la modulazione della spesa, le priorità industriali e sociali. In assenza di una vera politica economica comune, il Patto resta un surrogato tecnocratico della fiducia tra Stati.
In sintesi, il nuovo Patto non è una riforma, ma una reiterazione. Cambia la grammatica della disciplina, non la sua sintassi. L’Europa continua a misurare la virtù dei bilanci, ma non la qualità dello sviluppo. Finché i parametri di Maastricht resteranno intoccabili, e finché la politica fiscale europea continuerà a fondarsi su regole intergovernative anziché su strumenti federali, l’Unione resterà un’unione monetaria imperfetta.
La stabilità senza sovranità non è un equilibrio: è una tregua contabile destinata a rompersi alla prima crisi.
*ex membro della Commissione ECON del Parlamento europeo
Domande e risposte
Il nuovo Patto modifica i limiti del 3% e del 60% previsti da Maastricht? No, assolutamente. Quei parametri sono fissati nei Trattati europei e non nel Patto di Stabilità, che è una normativa di rango inferiore. Il nuovo accordo modifica solo il modo e i tempi con cui gli Stati devono rientrare in quei parametri, ma i “numeri magici” restano intoccabili senza una revisione dei Trattati stessi, rendendo ogni flessibilità concessa dalla Commissione revocabile o soggetta a tecnicismi.
Cos’è la “spesa netta primaria” e perché è importante? È la nuova variabile di controllo introdotta dalla riforma. Sostituisce i vecchi indicatori complessi (come il deficit strutturale) con un parametro apparentemente più semplice: la spesa pubblica al netto degli interessi sul debito e delle spese cicliche (come la disoccupazione). Il problema, come nota Rinaldi, è che il tetto a questa spesa viene calcolato sulla base di stime tecniche (PIL potenziale) elaborate dalla Commissione, spostando il potere decisionale dalla politica alla tecnocrazia.
Perché l’autore definisce il Patto “prociclico”? Una politica è “prociclica” quando segue l’andamento dell’economia invece di contrastarlo: tagliare le spese durante una recessione aggrava la crisi. Rinaldi sostiene che, focalizzandosi sulla riduzione contabile del debito anziché sulla crescita, il Patto costringe gli Stati a fare austerità proprio quando servirebbero investimenti per far ripartire il PIL. Questo meccanismo riduce il denominatore (la crescita), facendo paradossalmente aumentare il peso del debito.








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