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Analisi e studi

Neoliberismo? Tutta colpa dei Post-keynesiani!

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Se fino a qualche anno fa la parola neoliberismo suonava ostica e prerogativa degli addetti ai lavori, ultimamente – grazie soprattutto all’opera di Luciano Gallino – è entrata nel linguaggio comune, non solo degli economisti.

In alcuni articoli precedenti ne ho illustrato, a grandi linee, il contenuto ideologico e come, da originaria dottrina economica, abbia assunto i connotati di scienza immanente, fino a divenire una teoria del tutto. Ma com’è riuscita a soppiantare definitivamente il suo rivale per antonomasia, ossia il modello economico keynesiano? La colpa è dei post-keynesiani, quei successori di Keynes che non hanno avuto la prontezza di farlo risorgere.

Intorno alla metà degli anni Settanta del secolo scorso si concluse quella che gli economisti definiscono la quarta onda lunga di crescita dell’economia capitalista: esauriti gli effetti positivi generati dall’innovazione tecnologica, iniziò una fase di stagnazione. L’improvviso dilagare della disoccupazione e il forte rallentamento della crescita misero in cattiva luce le politiche della domanda (fine tuning) della scuola keynesiana che, durante la fase di crescita dell’onda lunga, aveva riscosso molto successo nell’ambito delle teorie economiche. L’avvento della stagnazione segnò un duro colpo all’affidabilità delle sue teorie, fino a decretarne il fallimento.

Si venne a creare un vuoto nell’ambito della teoria economica che, anziché incoraggiare un perfezionamento del modello o una sua innovazione, venne colmato con il ritorno di una vecchia teoria, in realtà mai tramontata: la teoria neoclassica, le cui origini risalgono alla seconda metà dell’Ottocento.

Adottando l’approccio riduzionistico che gli è proprio, essa attribuì alla crisi petrolifera e alla rigidità del lavoro l’origine della stagnazione, ignorando l’aspetto strutturale del fenomeno. Dalla condanna capitale della teoria keynesiana emerse, per antitesi, una fiducia smodata nella teoria dell’equilibrio generale e per il modello neoclassico di crescita infinita del sistema economico, a patto che lo Stato non esercitasse alcuna interferenza. In linea col modello economico neoclassico furono incentivate le politiche neoliberiste di liberalizzazioni, privatizzazioni e deregolamentazioni.

Ora, distinguere quanto il neoliberismo sia neoclassico o viceversa è una questione accademica che può portare a intralci linguistici ed esula dal nostro campo di riflessione. Quello che invece ci preme sottolineare è perché la scuola keynesiana, e ancora di più post-keynesiana, non riuscì a proporre un’adeguata e tempestiva risposta al suo fallimento, ma si fece sbaragliare completamente da una vecchia teoria economica, indifferente agli aspetti sociali, con evidenti limiti di astrazione dalla realtà e di riduzionismo metodologico. Secondo l’economista Luigi Pasinetti, il punto debole della teoria di Keynes, che gli impedì di soppiantare quella neoclassica, fu la sua frammentazione in una serie di modelli e la mancanza di una visione d’insieme. Grosso peso ebbe certamente la lotta ideologica condotta dagli americani su scala universale durante il dopo guerra all’ideologia di sinistra, a cui la teoria keynesiano è stata certamente ricondotta.

Infine, last but not least, pesarono le contese interne tra keynesiani stessi -per quel peccato originario di protagonismo di cui spesso sono vittime i grandi economisti- che impedirono di creare una risposta valida e condivisa.

In vista di un modello necessario e alternativo a quello neoliberista, che rispolveri alcuni dei principi keynesiani – in particolare l’aderenza dell’economia alla realtà e agli aspetti sociali – ma rinnovato in base alle mutate contingenze, l’augurio è di non ripetere gli errori dei discendenti di Keynes.

Slide che semplifica il concetto di neoliberismo (casa editrice De Agostini)

 

di Ilaria Bifarini


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