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Crisi

IL CREDO DEL LIBERISTA

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Tutti sperano che i governi riescano a risolvere la crisi, in realtà basterebbe che non la provocassero

 

Per assicurare i servizi essenziali, lo Stato è costretto ad imporre tributi. Purtroppo da questa necessità nascono gravissimi problemi.

1. Dal momento che è lo Stato stesso colui che stabilisce quali siano i “servizi essenziali”, nel corso del tempo il loro numero è stato dilatato in modo smisurato. E dal momento che lo Stato è (inevitabilmente) un pessimo amministratore, nelle sue mani quei servizi divengono insieme scadenti e costosissimi, sicché l’erario è tanto affamato di denaro da somigliare a un rapinatore.

2. Lo Stato ha le mani in pasta in tutta l’economia e da questa bulimia è derivata l’idea che esso possa dirigerla. Cosa purtroppo vera.  Basta già la leva fiscale. Se ad un prodotto nazionale fa concorrenza un prodotto straniero, è facile difendere il prodotto nazionale mettendo un dazio su quello straniero. Ciò ne alzerà artificialmente il costo e gli toglierà il vantaggio competitivo. Analogamente basta tassare in modo diverso due prodotti nazionali alternativi (zucchero e dolcificanti, ad esempio) per favorirne uno e sfavorirne un altro. Alla fine, intervenendo su ogni attività, si crea un modello socio-economico imposto dall’alto. Con la conseguenza ulteriore che alla fine dinanzi ad una crisi tutti si aspettano che la soluzione la fornisca lo Stato. Esso sembra infatti la guida e il padrone dell’economia.

3. Purtroppo lo Stato ha alcuni difetti ineliminabili. Deve finanziare in pura perdita organismi assolutamente necessari alla comunità (ad esempio la scuola) e da questa idea che qualcosa “vada fatta”, a prescindere dalla sua economicità, nasce una mentalità che si estende ad altri campi. Così le spese aumentano in modo esponenziale, lo Stato si rassegna allo sperpero e in conclusione si rifà inevitabilmente aumentando la pressione fiscale. Del resto in questo è incoraggiato dai cittadini i quali, per nessuna ragione al mondo, rinunciano al pregiudizio che ciò che fornisce lo Stato “è gratis”. E poi si stupiscono del soffocante peso delle tasse.

4. Tuttavia, la nota più interessante, dal punto di vista economico, è che ogni intervento dello Stato avviene non “per addizione di ricchezza” ma “per sottrazione di ricchezza”. Sarebbe “per addizione” l’intervento di uno Stato che, per mantenere l’industria nazionale, riuscisse a contrastare un prodotto straniero fabbricandolo esso stesso ad un costo ancora minore. Fantascienza.

Al contrario l’intervento “per sottrazione” è, ad esempio, il dazio, come già accennato. I tosaerba italiani costano cento, la Slovenia ne offre di altrettanto buoni a ottanta e le fabbriche nazionali rischiano di chiudere. Se lo Stato mette un dazio di venticinque rende addirittura più convenienti i tosaerba italiani e ciò “salva” le nostre imprese. Ma si dimentica che la gabella non rende più competitivi i prodotti italiani, si limita ad obbligare i consumatori italiani a pagare cento (o magari centocinque, posto che l’industria è “protetta” ed opera quasi in regime di monopolio) ciò che potevano pagare ottanta. Ciò corrisponde a distruggere ricchezza: se infatti i consumatori pagassero i tosaerba ottanta, gli rimarrebbero venti o venticinque da spendere in altri prodotti, aumentando la produzione e dunque la ricchezza nazionale.

Lo stesso vale per la politica fiscale. Se lo stato istituisce un’Imposta sul Valore Aggiunto che non è la stessa per tutti i prodotti (magari con eccellenti motivazioni morali), favorisce alcuni prodotti e alcune attività a scapito di altre, in quanto non operanti  a costi uguali. E si potrebbe continuare. Lo Stato, con i suoi interventi produce diseconomie. E perfino ingiustizie. Si consideri la Cassa Integrazione Guadagni, soprattutto quella straordinaria. Sembra un aiuto generoso e un segno di solidarietà, ma si dimentica che quel denaro viene dalle tasche di altri cittadini, non da un’astrazione chiamata Stato. E se quelle centinaia di lavoratori fossero dipendenti di salumieri, meccanici, piccole imprese edili, non riceverebbero un euro e potrebbero morire di fame nell’indifferenza generale. Dei sindacati in primo luogo. E ciò perché di quel licenziamento non si occuperebbero i giornali: sicché si può pensare che la Cig non serve a proteggere gli operai dalla povertà, ma il Governo da una cattiva stampa.

Il massimo che lo Stato può fare per favorire la prosperità nazionale è non occuparsene. Piuttosto che salvare a spese del contribuente le grandi imprese a rischio di fallimento, dovrebbe non strangolare con le tasse i piccoli imprenditori che chiedono soltanto di operare in pace pagando imposte ragionevoli. Ecco ciò che rilancerebbe l’intera economia.

Ma la mentalità italiana, anche dinanzi ai disastri dello statalismo, anche contro ogni evidenza, rimane statalista. E dunque ci terremo la crisi.

Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it

18 febbraio 2014


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