Attualità
IL COMMERCIO CALA PER UN CICLO DI LUNGO PERIODO. TEMPO DI SOLE POLITICHE FISCALI
Dopo la fine della GCF, programmi di stimolo fiscale di tipo keynesiano (spese per infrastrutture e più generoso supporto di programmi sociali) sono stati adottati solo da pochi stati e per un breve tempo e allo Il mito dell’austerità espansiva non è stato totalmente debellato. Allo stesso modo, vi è chi ancora pensa che il surplus di partite correnti sia ancora un indicatore incontrovertibile di forza economica di un Paese1.
La peggior guerra commerciale dalla fine della seconda guerra mondiale
Dall’insediamento dell’amministrazione Trump, gli USA hanno rafforzato la vigilanza (e la stretta) sulle pratiche commerciali cinesi. Già nel 2017, un’inchiesta americana aveva valutato in 600 miliardi di dollari il costo dei beni contraffatti, dei programmi piratati e del furto di segreti commerciali da parte del gigante asiatico nei confronti degli USA e aveva allertato le autorità competenti sulla possibilità di investimenti cinesi in imprese americane volti ad accedere a nuove tecnologie. Nel 2018 poi sono state messe tariffe su prodotti cinesi per un valore di svariati miliardi di dollari: la rappresaglia cinese non si è fatta attendere e quindi entrambi i Paesi hanno deciso di fermare le eventuali decisioni su nuove tariffe e di iniziare un dialogo, ma la speranza è presto svanita e sono state altre tariffe secondo l’usuale strategia “tit for tat”2. Nelle tre ondate tariffarie del 2018, gli USA hanno colpito export cinese per circa 250 miliardi di dollari (su un totale di 539 miliardi di dollari d’importazioni americane dalla Cina nel 2018), mentre dazi fino al 25% ora riguardano un’ampia gamma di prodotti, dalle borsette alle attrezzature ferroviarie. Le tariffe cinesi hanno riguardato beni americani per 110 miliardi di dollari su un totale di 120 miliardi di esportazioni3.
Come sopra accennato, la tregua raggiunta a dicembre 2018, è durata poco e già a maggio 2019 gli USA hanno alzato le tariffe su beni cinesi per 200 miliardi di dollari, portando i dazi dal 10 al 25%. La rappresaglia cinese ha invece riguardato beni americani esportati in Cina per 60 miliardi di dollari. La guerra commerciale non si è fermata: gli USA stavano pensando di colpire altri beni cinesi per un valore di 300 miliardi di dollari, anche se tale misura è stata smentita dal Presidente americano Donald Trump nel corso del G20 avvenuto in Giappone a giugno 2019.
Sicuramente l’incremento delle tariffe sui prodotti cinesi dovrebbe rendere più cari i prodotti importati rispetto a quelli prodotti all’interno incoraggiando quindi i consumatori interni a preferire i prodotti nazionali: tuttavia, secondo molti analisti, i timori dell’escalation stanno scuotendo gli investitori e colpendo anche i mercati borsistici. Già nel 2018, il FMI aveva avvertito che la guerra commerciale fra i due giganti economici rischiava di rendere il mondo “più povero e più pericoloso”, abbassando anche le stime di crescita mondiale sia per il 2018 che per il 2019 (entrambe riviste al ribasso dal 3,9 al 3,7%).
Sulla stessa linea l’OMC che – per bocca del suo Direttore Generale Roberto Carvalho de Azevêdo – affermava a novembre 2018 come la guerra commerciale USA-Cina è la peggior crisi del sistema commerciale multilaterale dal GATT del 1947.
Ad onor del vero, la guerra commerciale fra Cina e USA non è il fattore scatenante della riduzione della dinamica del commercio internazionale. All’inizio del decennio precedente, esso cresceva ad un ritmo dell’8% annuo, vale a dire due volte il PIL mondiale. Nel 2019, secondo l’OMC, esso crescerà del 2,6%. Il commercio internazionale può essere misurato secondo diverse metriche: anzitutto il rapporto fra esportazioni lorde e PIL. Questa misura è rilevante quando si vogliono verificare le attività delle catene dell’offerta transnazionali (“cross-border global value chains”). Catene complesse generano esportazioni “multiple” e quanto più estese esse sono, tanto più alto è l’export lordo rispetto al PIL. Le serie storiche mostrano che fra il 2000 e il 2008 vi è stata un’attività frenetica che ha coinvolto le catene globali dell’offerta. L’export sul PIL crebbe cumulativamente di 16 punti percentuali, grazie alla loro intensa attività che coinvolse Cina e Occidente.
Ma il rallentamento del commercio internazionale avviene ben prima della guerra commerciale USA-Cina
Tuttavia, quando arrivò la crisi finanziaria del 2008, l’export lordo cadde, com’era lecito attendersi. Quello che appare meno comprensibile è come mai esso non è mai ritornato ai livelli del 2007 e soprattutto perché dal 2011 esso si è ridotto rispetto al PIL. Perché ciò è avvenuto? Qui di seguito vengono elencati vari fattori che la Banca dei Regolamenti Internazionali considera plausibili:
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Una spiegazione potrebbe essere data dal fatto che i servizi stanno divenendo più importanti rispetto alla manifattura;
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un’altra potrebbe essere data dall’innovazione tecnologica. Infatti l’automazione ha ridotto i costi della manifattura occidentale, riducendo quindi le necessità di portare all’estero la produzione, soprattutto in luoghi dove i salari sono bassi;
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un altro fattore può essere quello relativo alla finanza. Le imprese hanno bisogno di molto capitale per gestire le loro catene d’offerta: 2/3 di questo capitale proviene di solito dall’autofinanziamento (ovvero dalle loro risorse finanziarie), mentre 1/3 dalla finanza bancaria e non bancaria. Durante il grande sviluppo del credito prima del 2008 era facile per le imprese trovare capitale per le loro attività e finanza per il commercio. Ma dopo la crisi, le banche hanno ridotto tali finanziamenti. Questo perché, la regolamentazione post-crisi ha reso più costoso per le banche occidentali fornire tali finanziamenti, ma anche perché le risorse finanziarie bancarie sono state colpite dal debilitante impatto di tassi d’interesse estremamente bassi e dall’appiattimento della curva dei rendimenti. Le oscillazioni cambiarie possono influire. Circa l’80% della finanza riguardante il commercio internazionale è fornita in dollari e le fatture commerciali sono quindi di solito espresse in dollari. Questo significa che la forza del dollaro influenza la possibilità e la forza delle imprese dei paesi emergenti di finanziare le catene dell’offerta.
Diviene quindi importante studiare i canali finanziari di pari passo alle tendenze dell’economia reale se si vuole capire l’economia internazionale così come appare chiaro dopo anni, che la bolla del credito che scoppiò a fine 2007 non incrementò solo i prezzi degli immobili ma fu determinante a creare anche la bolla del commercio internazionale e delle catene globali dell’offerta.
L’impatto del rallentamento del commercio internazionale sulla crescita e la necessità di una politica fiscale nazionale
Ovviamente il rallentamento del commercio internazionale ha un impatto negativo sulla crescita del PIL a livello mondiale ceteris paribus. L’effetto sulla fiducia delle grandi imprese internazionalizzate è sicuramente negativo e questo può avere effetti sulla spesa in conto capitale che potrebbe essere ritardata. Meno investimenti significano anche meno occupazione e meno consumi (Morgan Stanley). Questo da un punto di vista di statica comparata.
Dal punto di vista dinamico invece la situazione risulta ancora non ben definita: ammesso che la domanda internazionale sia “trainata dai profitti” (profit-led), occorre considerare se la domanda interna (vale a dire consumi e investimenti) sia anch’essa trainata dai profitti. Secondo l’idea di Morgan Stanley l’effetto di retroazione dell’impatto della minor crescita del commercio internazionale sarebbe quello di determinare sicuramente una minor crescita della domanda totale. Ma a ben vedere, consumi e investimenti possono non dipendere totalmente da questo effetto di retroazione. I primi possono dipendere dal livello (corrente e atteso) dei salari, mentre i secondi dalle vendite e dai profitti attesi (o dalla quota dei profitti sul totale del reddito nazionale).
Chiaramente, per fare in modo che le altre determinanti dei consumi e degli investimenti (componenti della domanda interna) siano più forti della retroazione negativa della riduzione del commercio internazionale, occorrono fattori esogeni, decisi dai responsabili di politica economica. Occorre in altri termini garantire che:
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le componenti della domanda interna tornino ad essere trainate dai salari (wage-led);
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il traino salariale su queste componenti sia tale da ribaltare la retroazione negativa dell’effetto di riduzione del commercio internazionale.
Risulta quindi necessario non solo un rafforzamento della quota salari sul totale del reddito nazionale non solo nei Paesi occidentali (cosa che peraltro sta avvenendo nel corso degli ultimi due anni, almeno per il nostro Paese, dopo decenni di riduzione), ma anche che gli effetti di retroazione negativa del commercio internazionale siano quanto più limitati possibili. Questo può avvenire solo cercando di limitare la globalizzazione, con ciò non volendo essere nostalgici di passati autarchici ma sicuramente di un passato dove i redditi da lavoro risultavano più rilevanti per i processi di sviluppo dei Paesi. In un periodo come questo, caratterizzato da forte invecchiamento della popolazione con incremento dei risparmi al di sopra del livello desiderato degli investimenti, l’unica spinta possibile appare (dopo i tentativi non sempre efficaci effettuati mediante la politica monetaria) quella data dalla politica fiscale a livello nazionale e in particolare per alcuni membri dell’Eurozona, anche se gli stretti parametri di Maastricht dovessero essere sforati (come già è stato e come sarà in futuro) per qualche tempo.
BIBLIOGRAFIA
Banca dei Regolamenti Internazionali, maggio 2019
Financial Times, 17 luglio 2019
Financial Times, 21 luglio 2019
Lavoie M., Stockhammer, E. “Wage-led growth. Concept, theories and policies”, UIL Ginevra 2012
Summers L. H. “Secular Stagnation and Monetary Policy”, Federal Reserve Bank of St. Louis, secondo trimestre 2016 98(2), pp. 93-110.
1 La mancanza di conoscenze economiche appare una costante per molti dei responsabili di politica economica a livello UE. Per quanto riguarda l’austerità espansiva basti solo pensare che l’ex primo ministro delle Finanze olandese Jeroen Dijsselbloem – secondo molti uno dei più forti sostenitori dell’austerità durante la crisi dell’Eurozona – è a fine luglio 2019, uno dei candidati principali per la poltrona di capo del Fondo Monetario Internazionale che Christine Lagarde lascerà per divenire presidente della BCE dopo la fine del mandato di Mario Draghi a novembre 2019. Probabilmente però il probabile neo-primo ministro inglese Boris Johnson proporrà un altro candidato gradito anche all’amministrazione americana. Per quel che riguarda il surplus di partite correnti (intimamente legato alla crescita trainata dall’export), la neo-presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ha affermato, in un’audizione avvenuta subito dopo la sua elezione che i surplus di partite correnti devono essere visti “con metrica positiva” (Financial Times, 21-07-2019).
2 In italiano traducibile “pan per focaccia”.
3 Dati al maggio 2019. Fonte US Census Bureau.
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