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I giorni dell’infamia

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Il neo eletto Presidente della Repubblica, nel suo discorso di insediamento, ha parlato di una “nuova normalità” cui dovremo, presto o tardi, abituarci tutti. Lo ha fatto in un clima, per così dire, di fervido entusiasmo parlamentare. Un tempo lo si sarebbe definito “coro unanime” di consensi. Fantozzi avrebbe detto: novantadue minuti di applausi. I giornali di regime hanno scritto: cinquantacinque applausi in un’ora. Il che è strano, se pensiamo a cos’è davvero questa “nuova normalità”.

Un giorno – auspichiamo non lontano – i giorni della nuova normalità saranno ricordati come i giorni dell’infamia. E quando i posteri si interrogheranno su come sia stato possibile giungere al degrado civile, morale, politico, giuridico in cui ora siamo sprofondati, si chiederanno anche cosa è davvero successo, perché è successo, come è successo. Proviamo allora a lanciare un piccolo messaggio in bottiglia al futuro, portandoci avanti con il lavoro e interrogandoci sul “cosa”, sul “perché e sul “come” tutto ciò sia stato possibile.

Quanto al “cosa”, nei giorni dell’infamia i bambini e i ragazzini sono privati della possibilità di giocare e socializzare (vale a dire: di vivere e di crescere) con i loro amici per non aver assunto un farmaco nella migliore delle ipotesi inutile, nel peggiore dei casi nocivo. Nei giorni dell’infamia i medici finiscono sotto procedimento disciplinare non per aver tradito il giuramento di Ippocrate, ma per averlo onorato; cioè, per aver curato i pazienti evitando di seguire il “non” protocollo attendista “consigliato” dal Ministero della “Salute”. Nei giorni dell’infamia, una persona sana è privata del lavoro (e, quindi, del sostentamento e, dunque, della dignità) o è ghettizzata dal consesso sociale per aver rifiutato di accedere a una cura sperimentale e non obbligatoria, o obbligatoria benché sperimentale.

Quanto al “perché”, i giorni dell’infamia sono stati possibili a causa del tradimento di tre dimensioni essenziali della convivenza democratica, anzi della stessa esistenza umana: “verità”, “giustizia” e “libertà”. Ciascuna strettamente condizionata all’altra: infatti, non c’è democrazia senza libertà, non c’è libertà senza giustizia, non c’è giustizia senza verità.

Nei giorni dell’infamia la verità è stata non solo tradita, ma scrupolosamente e deliberatamente violata, innumerevoli volte: dalla letalità del virus alla sperimentalità dei vaccini, dagli effetti collaterali del farmaco alla sua efficacia nell’inibire il contagio, dall’esistenza delle cure all’anagrafe dei rischi. Ciò ha condotto a misure palesemente ingiuste e discriminatorie, come quelle succitate e molte altre. E le misure ingiuste hanno, a loro volta, fatto strame delle supreme libertà costituzionali. Del resto, se le più alte cariche del Paese avallano la menzogna (una, ma ce ne sono altre mille) secondo cui il vaccino è sicurissimo, è garanzia di immunità e serve a “proteggere gli altri”, rimedi infami quali l’apartheid dei figli e la segregazione dei padri assumono la sinistra parvenza di misure logiche e razionali.

Veniamo, infine, al “come”. Se un giorno si chiederanno “come” ciò sia potuto accadere, la risposta non andrà cercata (solo) nei fini reconditi (inconfessati perché inconfessabili) di certe agende riservate a talune elites. Andrà ricercata anche (se non soprattutto) nell’accettazione supina e obbediente delle masse. Di quanti, pur potendo informarsi non l’hanno fatto, pur potendo capire non l’hanno saputo, pur potendo reagire non l’hanno voluto. I giorni dell’infamia – concluderanno i posteri – saranno stati possibili non solo per la proterva iattanza dei potenti. Ma anche per l’atavica predisposizione all’infamia del popolo.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com


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