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Economia

I Dazi come antidoto alla globalizzazione senza regole (di Antonio Maria Rinaldi)

Perché il ritorno delle barriere doganali è l’unico modo per correggere le asimmetrie di un mercato globale che ha fallito nel garantire equità.

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In un mondo dove la liberalizzazione ha superato la capacità di governo politico, i dazi diventano strumenti per ristabilire equilibrio e reciprocità.


La globalizzazione, così come si è affermata dagli anni Novanta, è stata un processo incompiuto e sbilanciato. Ha prodotto crescita e interconnessione, ma al prezzo di un progressivo indebolimento delle sovranità economiche nazionali e di un’espansione delle disuguaglianze. L’idea di un mercato mondiale autoregolato, capace di distribuire i benefici del progresso in modo equo, si è rivelata un’illusione teorica. In assenza di regole condivise, la globalizzazione ha favorito i più forti, penalizzando le economie con alti standard sociali e ambientali e lasciando senza difese lavoratori e imprese esposti alla concorrenza priva di reciprocità.

Il ritorno dei dazi non va dunque letto come una regressione protezionista, bensì come un tentativo di ristabilire un ordine economico fondato sull’equilibrio. I dazi rappresentano, in questo senso, un correttivo tecnico e politico alla disarticolazione creata da una liberalizzazione asimmetrica dei mercati. Quando le regole multilaterali non riescono più a garantire condizioni di parità, lo Stato torna a esercitare il proprio ruolo di garante della stabilità economica e della coesione produttiva.

Ogni economia nazionale ha bisogno di una struttura produttiva coerente con il proprio modello sociale. Quando la liberalizzazione diventa totale e le differenze nei costi del lavoro, nelle tassazioni, nelle protezioni sociali e negli standard ambientali non vengono compensate da meccanismi di riequilibrio, si genera una concorrenza sleale sistemica. I flussi commerciali e finanziari si concentrano dove le regole sono più permissive, mentre le economie più regolamentate subiscono una perdita di capacità industriale. Il risultato è l’accumulo di squilibri strutturali: surplus cronici per alcuni, deficit permanenti per altri.

In questa prospettiva, il dazio è uno strumento macroeconomico di compensazione. Agisce come una “valvola di riequilibrio” in presenza di divergenze che il tasso di cambio, oggi rigidamente condizionato dalle dinamiche finanziarie, non riesce più ad assorbire. Lungi dall’essere una barriera al commercio, esso diventa un modo per ristabilire condizioni di concorrenza comparabili, neutralizzando vantaggi costruiti su basi non economiche ma regolamentari o politiche.

Gli effetti dei dazi non devono essere misurati solo in termini di prezzo o volume degli scambi, ma anche come strumento di politica economica integrata. Essi incidono sulla bilancia commerciale, sulla distribuzione del reddito e, in ultima istanza, sulla sostenibilità del modello di sviluppo. Un uso selettivo e temporaneo dei dazi può attenuare gli effetti recessivi della deindustrializzazione e favorire investimenti interni orientati all’innovazione, senza negare la necessità degli scambi globali.

Il problema reale non è il commercio internazionale, ma l’assenza di una governance globale capace di regolare le sue conseguenze. Le istituzioni nate nel secondo dopoguerra — dal GATT al WTO — non si sono rivelate adeguate a gestire la trasformazione tecnologica e geopolitica che ha accompagnato la globalizzazione. Gli Stati Uniti e, con ritardo, l’Unione Europea stanno ora ridefinendo il principio di apertura commerciale sulla base di criteri di sicurezza, reciprocità e sostenibilità. È il segno di una transizione verso una globalizzazione regolata, in cui il mercato torna a essere uno strumento, non un fine.

Chi parla di “ritorno al protezionismo” ignora che nessuna economia complessa può sopravvivere senza un equilibrio tra apertura e tutela. L’assenza di regole comuni ha spostato la competizione dal piano economico a quello politico, dove vince chi impone la propria moneta, i propri standard e le proprie catene del valore. In tale contesto, i dazi non sono una chiusura, ma un linguaggio con cui gli Stati tornano a dialogare per riscrivere le regole del commercio internazionale.

La sfida del prossimo decennio sarà proprio questa: ricomporre la relazione fra economia e politica. Finché la prima continuerà a prevalere sulla seconda, la globalizzazione resterà una forza centrifuga, generatrice di squilibri e tensioni sociali. Solo il recupero della capacità di governo, che include anche l’uso intelligente dei dazi, potrà riportare il sistema mondiale su un sentiero di stabilità e sviluppo condiviso.

Fino ad allora, i dazi resteranno l’antidoto necessario a una globalizzazione che, priva di regole, ha smarrito il senso stesso del progresso economico.

*Ex membro Commissione ECON del Parlamento europeo

Antonio Maria Rinaldi


Domande e risposte

Perché i dazi non devono essere visti necessariamente come negativi? I dazi non sono intrinsecamente negativi se utilizzati come correttivo. In un mercato globale dove alcuni attori non rispettano standard ambientali o sociali, il dazio funge da meccanismo di compensazione. Serve a proteggere le imprese che operano correttamente da una concorrenza sleale basata su costi artificialmente bassi, ristabilendo così un equilibrio che il mercato deregolamentato non riesce più a garantire da solo.

Che ruolo hanno le istituzioni internazionali come il WTO in questa crisi? Le istituzioni nate nel dopoguerra, come il WTO, si sono rivelate inadeguate a gestire le complesse trasformazioni tecnologiche e geopolitiche attuali. Non sono riuscite a imporre regole comuni efficaci, permettendo che la competizione si spostasse dal piano dell’efficienza economica a quello dello sfruttamento normativo. La loro incapacità di garantire la reciprocità ha costretto gli Stati a intervenire autonomamente per difendere le proprie economie.

Qual è la differenza tra protezionismo e “globalizzazione regolata”? Il protezionismo classico mira a chiudere i mercati per favorire l’autarchia, spesso a danno dell’efficienza. La “globalizzazione regolata”, invece, non nega l’importanza degli scambi internazionali, ma pretende che avvengano su basi paritarie. L’obiettivo non è isolarsi, ma assicurare che l’apertura commerciale non distrugga il modello sociale e industriale interno, utilizzando strumenti di difesa commerciale finché non si raggiungono standard condivisi a livello globale.

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