Crisi
Hartz, un (in)successo part-time!
La crisi finanziaria cominciata nel 2007, una volta che i suoi effetti si sono estesi all’economia reale, ha portato ad una contrazione della stessa risultante in una perdita di produzione e di occupazione. La risposta, principalmente supportata dalla maggioranza dei media e dagli economisti nostrani a questa perdita di produzione e di occupazione, dovrebbe essere un taglio dei salari corroborato dall’adozione di riforme del mercato del lavoro sul modello di quelle approntate dalla Germania e che vanno sotto il nome del ex CEO di VW che le ha propugnate: Peter Hartz. È già stato sottolineato in un altro articolo su questo stesso blog che la riduzione dei salari non può essere – per chi scrive – una soluzione, perché nonostante i costi unitari del lavoro per unità prodotta siano in aumento, la quota salario è in diminuzione dagli anni ’90, pertanto l’aumento dei costi è dovuto all’aumento dei prezzi e non il contrario; di poi se la quota salario è già in diminuzione non può essere il problema, e se non è il problema il suo taglio non può essere la soluzione. Inoltre, una misura di taglio dei salari oltre ad essere pro-ciclica alla crisi, in quanto potrebbe comportare una ulteriore diminuzione dei redditi disponibili, affronta il problema dal punto di vista dell’offerta; si vogliono tagliare i salari per rilanciare le esportazioni e la produzione, ma non si considera che il principale problema è la mancanza di reddito per la domanda interna. Quindi si pretende di risolvere un problema dalla parte della domanda con provvedimenti dalla parte dell’offerta. Detto questo, e superata la questione relativa alla quota salari, l’altro problema sarebbe una riforma del mercato del lavoro che aumenti la mobilità e la flessibilità del lavoro. Come esempio di riforme del mercato del lavoro vengono indicate, perfino dal Presidente francese F. Hollande, le riforme adottate dalla Germania a partire dal 2003.
Effettivamente dal 2006, circa, il tasso di disoccupazione della Germania comincia a scendere ed arriva a livelli simili, ed anche appena inferiori, a quelli di inizio anni ’90, per attestarsi più o meno al 5% alla fine del 2013. Di primo acchito, pertanto, si può dire che dopo un breve periodo affinché l’implementazione delle riforme Hartz prendesse corpo, queste hanno portato ad una diminuzione della disoccupazione che però, storicamente, per la Germania è stata anche a livelli inferiori per es. dal 1956 agli inizi degli anni ’80; mentre negli anni ’80 fino all’inizio degli anni ’90 la situazione era decisamente migliore rispetto ai restanti anni ’90 con i picchi di disoccupazione del ’98 e del 2005. Le riforme Hartz sembrano, pertanto, essere la risposta al problema della disoccupazione. Ma facciamo un passo indietro e vediamo da dove sono partite, quali erano le necessità e più che quanta occupazione, quale tipo di occupazione hanno creato. Utilizzeremo come fonte principale uno studio abbastanza datato che proviene degli autori Anthea Bill, William Mitchell and Riccardo Welters del Centre for Full Employment and Equity (CofFEE) – del quale prenderemo solo la parte che ci interessa, anche se ben più ampio, e la cui traduzione integrale può essere trovata su Economia Per I Cittadini – ed alcuni dati più recenti e articoli che possono essere facilmente recuperati in rete.
Alla base delle riforme Hartz, cominciate nel 2003, ci sarebbe la volontà di invertire le scarse prestazioni dell’economia tedesca (linea nera scala di sinistra) negli anni ’90 e all’inizio del terzo millennio, in termini di crescita del PIL rispetto a nazioni come il Regno Unito (linea blu scala di destra):
Come si può vedere mentre il PIL del Regno Unito cresce lungo tutti gli anni ’90 quello della Germania sale nella prima metà ma scende durante la seconda parte degli stessi anni. Se invece confrontiamo, nel grafico sotto, il PIL tedesco con quello olandese (linea blu, scala di destra) degli stessi anni vediamo che gli andamenti dei due PIL sembrano pro-ciclici l’uno all’altro, ma la caduta del PIL tedesco (linea nera, scala di sinistra) nella seconda parte degli anni ’90 è molto più marcata.
Inoltre, ricordiamo che la Germania (linea nera, scala di sinistra) negli anni ’90 aveva anche un saldo delle partite correnti molto peggiore di quello dell’Italia (linea blu, scala di destra) per esempio:
Questa situazione dell’economia tedesca è la molla che ha spinto verso le riforme Hartz, cominciate con quello che potrebbe essere additato come un tipico caso di #castacriccacorruzione all’italiana, cioè, con la corruzione dei sindacati tedeschi per la quale il propugnatore delle riforme, Peter Hartz, è stato condannato a due anni con pena sospesa ed una multa. Vediamo, inoltre, considerato che le riforme citate hanno effettivamente ed indubitabilmente ridotto la disoccupazione, di cercare di valutare quale genere di occupazione hanno creato da un punto di vista che non sia meramente quantitativo.
Innanzitutto ricordiamo che le riforme Hartz erano state concepite con l’intento di aumentare l’occupazione diminuendo gli obblighi previdenziali, contenendo il lavoro illegale, creando una generazione di occupati a basso stipendio attraverso l’aumento degli incentivi per i disoccupati al fine di ottenere un lavoro di breve periodo che potesse servire come trampolino di lancio per un lavoro regolare. Prima delle riforme i lavori mini erano considerati quelle attività che occupavano al massimo 15 ore settimanali ed avevano uno stipendio massimo di 325€, con una completa esenzione delle tasse se il lavoratore non aveva un altro reddito e dalla contribuzione sociale se il reddito rimaneva sotto le 325€ mensili. La riforma dei lavori mini (mini-jobs da ora) introdotta nel 2003 ha innalzato il tetto dei guadagni da 325€ a 400€, ha cancellato la previsione restrittiva rispetto al tetto massimo delle ore (15 ore per settimana), ed esentato dalla contribuzione sociale e dalle tasse sul reddito i guadagni fino a 400€. Inoltre sono stati regolamentati i lavori midi (midi-jobs da ora) per controbilanciare il disincentivo fiscale a guadagnare più di 400€ (ed oltre il quale viene meno, appunto, lo “sgravio”) fornendo una detrazione fiscale addizionale per le persone che guadagnano più di 400€, che diminuisce linearmente fino alla soglia degli 800€, oltre la quale si entra nella contribuzione piena. Ora, seguendo le orme dello studio del CofFEE richiamato in apertura di articolo, possiamo dividere i lavori in quelli che hanno una contribuzione piena (fully-contributing, FC – che solitamente sono a tempo pieno, full-time) e quelli che hanno una contribuzione minima (mini-contributing, MC – che solitamente hanno un orario ridotto, part-time) per valutare quale, più che quanta – ma anche la valutazione del quanta, viste le ragioni che vedremo poi, sembra sovrastimata – occupazione sia stata creata in Germania negli anni immediatamente successivi alle riforme Hartz. Nel grafico sotto vediamo l’andamento dei lavori FC (linea punteggiata), di quelli MC (linea tratteggiata) e la creazione di lavoro totale netta (linea continua) dal settembre 2003 al settembre 2006 in Germania:
Come è facile notare le riforme Hartz, un anno dopo la loro introduzione, hanno invertito il trend in discesa della creazione totale netta di lavoro (linea continua) aumentando sia i lavori FC (linea punteggiata) che quelli MC (linea tratteggiata). È però altrettanto facile notare che dopo questo iniziale effetto, che sembra molto simile ad un effetto di overshooting, i lavori regolari (FC) cominciano a scendere, anche abbastanza velocemente, fino ad un livello (al 2006) simile rispetto a quello del settembre 2003; mentre i lavori MC continuano a crescere dopo una breve diminuzione tra il settembre 2004 ed il 2005 e dopo il settembre 2005 ed il marzo 2006. Così anche l’effetto sulla creazione di lavoro totale netta – a livello quantitativo – è inferiore rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare; probabilmente per un semplice fatto, che l’effetto di un lavoro MC nello spostare verso l’alto l’andamento della creazione totale netta di lavoro, essendo principalmente un lavoro con orario ridotto, ha circa la metà dell’incidenza di un lavoro FC che è solitamente a tempo pieno.
Ovviamente lo stesso studio del CofFEE, sempre degli autori sopra riportati, esclude che le riforme Hartz abbiano contribuito a diminuire i lavori a tempo pieno sostituendoli con lavori part-time – salvo che nel segmento secondario del mercato del lavoro – ed esclude anche che, al tempo (lo studio è del 2007), le riforme stesse avessero provocato una scalata verso il basso nel mercato del lavoro tedesco, oppure avessero provocato turbolenze, soprattutto nel mercato del lavoro metropolitano dove la mobilità e la flessibilità erano maggiormente ricercate (anche se l’interazione variabile, nel modello adottato dallo studio è, in questo caso, molto vicina ad essere significativa). Tuttavia non è possibile trascurare il fatto che i lavori che sono stati creati sono principalmente lavori a minore contribuzione e retribuzione, ed inoltre che la diminuzione del tasso di disoccupazione potrebbe essere dovuta anche al fatto che ora risulta occupato anche chi ha un reddito molto al di sotto della soglia che può essere considerata della sussistenza (salvo che qualcuno possa sostenere che 400€ in Germania siano un reddito oltre questa soglia). Inoltre la tabella sotto riportata sembra confermare che al 2005 le aree con una quota maggiore di lavori MC avessero, tendenzialmente, un tasso di disoccupazione inferiore.
Nella tabella vengono riportate le regioni metropolitane, il loro tasso di disoccupazione e la quota di lavori MC rispetto all’occupazione totale. Come possiamo notare la regione metropolitana di Berlino ha una disoccupazione superiore (16.6%) alla media delle regioni metropolitane (10.2%) ed una quota di mini-jobs rispetto all’occupazione totale (15.2%) inferiore, sempre comparata alla media delle altre regioni metropolitane (21.3%). A Brema quasi un lavoratore su quattro ha un lavoro MC (24.8%) e la disoccupazione è inferiore rispetto a Berlino; così anche a Francoforte e Amburgo, dove l’incidenza dei lavori MC è superiore rispetto a Berlino e la disoccupazione inferiore. Altre regioni metropolitane (Monaco, Stoccarda, Norimberga, ecc. ecc.) hanno una incidenza minore dei lavori MC ed un tasso di disoccupazione minore di Brema, ma comunque l’incidenza dei lavori MC in quelle aree, pur non essendo pregnante come a Brema, è sicuramente rilevante nel far diminuire il tasso di disoccupazione. Inoltre un grafico – il cui titolo è anche troppo enfatico, “dark side of the boom” – riportato in un articolo dell’Wall Street Journal, sembra si confermare una tendenza della disoccupazione tedesca a scendere dal 2003, ma conferma anche l’aumento dei lavoratori che hanno un mini-job con bassa retribuzione dallo stesso anno.
Infatti, di una disoccupazione che passa da circa 5 milioni di persone si arriva ai 2.9 milioni del maggio 2013, mentre gli occupati che hanno un mini-job passano dall’essere un numero abbastanza inferiore alle sei milioni di unità per arrivare, a settembre del 2012, ad essere 7.4 milioni di unità.
Quindi, si, le riforme Hartz hanno contribuito a far diminuire la disoccupazione, è indubitabile; e non si può nemmeno sostenere, al momento, che i lavori regolari (FC) siano stati sacrificati a ai mini-jobs o ai midi-job (MC). Quello che si può invece sostenere è che se non c’è stata una transizione da lavori FC a lavori MC è anche vero il contrario, cioè che non c’è stata nemmeno una transizione di senso opposto da lavori MC a lavori FC; per cui l’effetto “trampolino di lancio” verso una occupazione regolare e a tempo pieno da parte di mini e midi jobs non si è verificato. Invece, piuttosto che funzionare come trampolino di lancio le riforme Hartz hanno creato una serie di lavori con retribuzione marginale che sembra una base permanente di manodopera flessibile, mobile, a basso costo e senza alcuna tutela (nemmeno quella di un tetto massimo di ore). Questo sembra essere confermato dall’articolo del WSJ sopra citato dove il vice direttore delle politiche per il lavoro dell’istituto indipendente IZA sostiene a chiare lettere che: “le riforme Hartz hanno mancato il bersaglio”, confermando così anche quanto sostenuto in un altro articolo a termine del quale le riforme Hartz (Hartz IV in questo caso) non hanno avuto i risultati attesi; e che i benefici che avrebbero dovuto portare sono stati molto relativi se non “virtualmente inessenziali” per le categorie di lavoratori a cui erano diretti. Oltre a questi effetti, lo studio del CofEE sembra sottolineare che le riforme Hartz non siano servite nemmeno per dipanare le ineguaglianze tra gli ex Stati della Germania dell’Ovest e quelli della Germania dell’Est, contribuendo, anzi, ad un aumento delle diseguaglianze. Pertanto il giudizio sulle riforme Hartz non può che essere negativo in termini qualitativi; mentre il termini quantitativi il successo delle riforme Hartz non è delle dimensioni di quello sbandierato a 360° da tutti coloro che le vorrebbero come riforme del mercato del lavoro; bensì può essere considerato un successo part-time che ha portato retribuzioni minime per lavori che non prevedono nemmeno un tetto massimo di ore. Inoltre, sono dirette ad aumentare la mobilità e la flessibilità ad un costo che è solo ed esclusivamente sopportato dal lavoratore, quindi le riforme non possono essere che un successo a metà – quello della parte datoriale soprattutto di grandi dimensioni – perseguito ponendo i costi totalmente a carico dei lavoratori, in un periodo storico in cui i profitti sono al massimo dal dopoguerra ed i salari al minimo; e cercando di marginalizzare, in modo permanente ed in maniera ulteriore, chi vive già ai margini.
Luca Pezzotta di Economia Per I Cittadini.
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