Attualità
Esuberi & rottamazioni… Che fare? (di Francesco Cappello)
di Francesco Cappello
Esuberi più recenti, come riportati dalla stampa, senza pretesa di completezza
SAFILO annuncio di 700 esuberi in Italia e chiusura stabilimento di Martignacco (Udine)
Nonostante la previsione di vendite in leggera crescita nei prossimi cinque anni, l’azienda ha avviato un programma di ristrutturazione industriale. L’amministratore delegato Angelo Trocchia ha affermato che punterà su “una crescita più significativa del nostro business e-commerce direct-to-consumer“.
CONAD il gruppo Conad dichiara 3.100 esuberi, di cui più di mille nella sola Lombardia, su 6.600 dipendenti dei negozi Auchan e Simply (punti vendita già confluiti in Conad), appena acquisiti. I lavoratori che operano già sotto il marchio Conad hanno visto un peggioramento delle loro condizioni lavorative, rispetto al passato, in termini di orario, turni e salario.
CONTINENTAL 500 esuberi annunciati , da qui a 10 anni, negli stabilimenti Continental di Pisa e Fauglia. Sono il primo risultato dei cambiamenti produttivi, del passaggio dalle auto a benzina o diesel alle auto elettriche. L’auto elettrica ha bisogno di nuovi macchinari e linee produttive che comporteranno la riduzione del 60% della forza lavoro.
Anche le fabbriche del GRUPPO MAHLE pagano il prezzo della grande fuga dal diesel.
Risultano in via di chiusura in Piemonte, 620 esuberi alla BOSCH di Bari, produzione in calo del 30 per cento nello stabilimento FCA di Pratola Serra, nell’avellinese.
FEDEX-TNT giganti delle spedizioni e consegne a domicilio. In ballo 361 licenziamenti e 115 trasferimenti. Il progetto prevede, anzitutto, la chiusura di 24 sedi su 34 e l’allontanamento di 361 lavoratori (315 in Fedex, quasi tutti corrieri, e 46 in Tnt). Previsti anche cento spostamenti di sede. Si teme esternalizzazione massiccia di personale.
QN, IL RESTO DEL CARLINO, IL GIORNO E Q.NET
112 esuberi su 283 redattori, potrebbe essere affiancato dall’accorpamento di edizioni e dalla chiusura di redazioni.
Il 6 febbraio scorso per i lavoratori della PERNIGOTTI era scattata la cassa integrazione straordinaria per un anno. Era in pratica la chiusura della storica azienda dei gianduiotti dopo 160 anni di attività. Sono 25 gli esuberi dichiarati dall’azienda su 70 dipendenti, oltre a 50 lavoratori interinali non considerati dal piano.
MAGNETI MARELLI cassa integrazione per 910 a Bologna e Crevalcore.
TELECOM ITALIA la nuova era inizia con la cassa integrazione straordinaria per 29mila dipendenti e 4.500 esuberi.
CARIGE il piano dei commissari: aumento di capitale da 630 milioni e 1.050 esuberi.
Il gruppo tedesco SIEMENS ha annunciato il taglio di 6.900 posti di lavoro in tutto il mondo. Una decisione anticipata nei giorni scorsi quando l’azienda aveva dichiarato che erano in vista “tagli dolorosi“. La notizia è stata ufficializzata a Monaco, in Germania. Oltre ai tagli, Siemens ha previsto la chiusura di due stabilimenti, quelli di Goerlitz e Lipsia, dove lavorano 920 dipendenti.
NOKIA SIEMENS NETWORKS ha aperto le procedure per il licenziamento di 445 tra lavoratrici e lavoratori italiani.
SKY ITALIA dopo il mancato accordo di agosto sulle procedure di licenziamento per 124 dipendenti presso il Ministero del lavoro, ha inviato 63 lettere di licenziamento.
UNICREDIT un nuovo piano prevede 8 mila esuberi.
POSTE ITALIANE annunciano 12 mila nuovi esuberi.
CANDY malgrado abbia annunciato la volontà di potenziare la produzione nello stabilimento di Brugherio dichiara 130 esuberi.
Gli aiuti per salvare ALITALIA sono condizionati al fatto che il sindacato accetti almeno 2mila esuberi e il taglio del 30% dello stipendio per piloti e assistenti di volo. Il piano industriale della compagnia è un vero e proprio diktat delle banche creditrici e socie, Intesa e Unicredit.
L’offerta di Lufthansa era interessata a creare NewAlitalia con annesso taglio di 6mila posti.
LA PERUGINA che fa capo alla multinazionale Nestlè, intende ridurre di 364 unità gli 800 dipendenti impegnati sulle linee produttive di San Sisto, Perugia.
ILVA da 4700 a 6300 gli esuberi dichiarati.
1500 posti di lavoro in meno nella RYANAIR.
Le federazioni regionali di CONFCOOPERATIVE LAVORO E SERVIZI E LEGACOOP PRODUZIONE E SERVIZI a seguito dell’approvazione del decreto legge Scuola (DL 126/2019) denunciano il licenziamento di 5.000 lavoratori in esubero a livello nazionale nei servizi di pulizia. Le imprese in appalto vengono costrette per legge a licenziare procedendo all’internalizzazione del servizio di pulizia nelle scuole. Riducono fino al 50% lo stipendio per 11.000 lavoratori.
MERCATONE UNO dichiara fallimento. 1800 dipendenti perdono il lavoro.
La cessione di WHIRLPOOL di Napoli in favore della Prs-Passive Refrigeration Solutions, con sede a Lugano, per ora sospesa, prevede la riconversione della fabbrica che si dedicherebbe all’assemblaggio di container refrigeranti e annesso licenziamento di circa 400 lavoratori.
PIOMBINO — JSW 250 esuberi. Se gli investimenti per la nuova acciaieria non verranno fatti gli esuberi aumenteranno e si aggireranno intorno a 750.
MPS, oltre 5mila esuberi e 600 filiali da chiudere che il salvataggio con fondi pubblici non ha saputo/voluto salvaguardare.
AF LOGISTIC 170 licenziati.
POPOLARE ETRURIA, BANCA MARCHE E CARICHIETI chiusura 140 sportelli. 1.569 i dipendenti in esubero secondo Ubi che da qui al 2020-2021 stimano circa 30mila uscite dal settore.
DEMA l’azienda aerospaziale ha annunciato 213 esuberi.
ALMAVIVA annunciati 1.600 esuberi nella sede di Palermo.
Lo stato delle cose
Precipitiamo progressivamente in uno stato di miseria crescente che costringe i nostri giovani ad andarsene, sempre più numerosi. I dati Istat confermano che solo nel 2018 sono partiti 117mila italiani di cui 30mila laureati. Negli ultimi dieci anni più di 800mila hanno lasciato il bel paese in cerca di fortuna all’estero.
Flessibilizzati, meglio dire precarizzati permanenti, quelli che rimangono si adattano ad accettare un lavoro a scadenza, con paghe lesive della dignità umana, per qualche mese, quando va bene. Rappresentano il completo insuccesso delle politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro. Lavoro e lavoratori mercificati. Vittime, peraltro, di quel messaggio, più o meno latente, che subdolamente accusa: se sei disoccupato è colpa tua.
È stata sdoganata, ormai da tempo, e istituzionalizzata, la pratica del lavoro gratuito nelle forme della “alternanza scuola lavoro“, del baratto amministrativo, comprese varie forme di “volontariato“ e di apprendistato ecc. Il lavoro gratuito così come l’impiego a scadenza, sottopagato, ha presa, grazie alla promessa/speranza, più o meno esplicita, che fa alle loro vittime, di essere assunte a tempo indeterminato o almeno riconfermate per un ulteriore periodo lavorativo. Come è facile capire, ciò risulta anche funzionale alla desindacalizzazione dei lavoratori.
Il lavoratore sottopagato è ricattabile perché vive costantemente nell’emergenza lavorativa; non è perciò in grado di far valere i propri diritti.
Si registra, inoltre, una esplosione del part-time involontario (60%), che è una delle molteplici forme di sottoccupazione.
Quasi un quarto dei nostri giovani in età lavorativa vengono definiti NEET «Not in Education, Employment or Training», avendo rinunciato a cercare lavoro e non essendo impegnati nello studio, né nella formazione.
Il dato, ormai strutturale, della disoccupazione rimane attestato intorno al 10% ma tale valore non conteggia i cassaintegrati e i part-time forzati.
Tutte le leggi (pacchetto Treu 97, Legge Biagi, Jobs Act, ecc.) che negano il diritto al lavoro sicuro e stabile sono e dovrebbero essere dichiarate incostituzionali. Il processo ha la sua genesi sin dall’inizio degli anni ’80 in cui i sindacati, purtroppo, accettano, su richiesta della confindustria, che i lavoratori siano disponibili alla pur necessaria flessibilità ma senza contropartite (la maggiore flessibilità, infatti, sarebbe dovuta essere compensata da adeguati aumenti retributivi). Si pensava che una maggiore flessibilità avrebbe generato più posti di lavoro. In realtà, la flessibilità si trasforma in precarietà diffusa e in danno, sia per la classe lavoratrice che per l’economia, a causa del conseguente calo della domanda interna.
Quelle leggi rappresentano la negazione postuma dei diritti dei lavoratori inscritti nello Statuto dei Lavoratori del 1970, frutto di intense lotte sindacali, agli antipodi della recente “voucherizzazione“, anticostituzionale perché negante il diritto alle ferie, alla indennità di malattia, ai contributi previdenziali, a essere pagati dignitosamente.
I rapporti di lavoro che si stanno affermando oggi sono sempre più spesso di tipo schiavistico. L’ultimo film di Ken Loach – Sorry we missed you – racconta di un falso rapporto di lavoro autonomo nel settore delle consegne a domicilio, in cui a lavoratori, privati di tutti i diritti, è fatta oltretutto richiesta di assumersi le responsabilità legate al rischio di impresa. Tutto a garanzia di un profitto alto e garantito per i veri padroni finanziari dell’azienda.
Protestare però è diventato un reato. Le aberranti norme del cosiddetto Decreto Sicurezza hanno colpito i lavoratori della Tintoria Superlativa di Prato, i cui operai, senza stipendio da 7 mesi, in condizioni lavorative inaccettabili, si sono visti affibbiare 21 multe dai 1000 ai 4000 euro ciascuna, per un totale di 84.000 euro “colpevoli“ del reato di “blocco stradale” grazie al quale le Questure possono incriminare i lavoratori che fanno i picchetti davanti alle aziende.
Il lavoro frammentato, invalida oltretutto il diritto alla pensione poiché i mancati versamenti, essendo proporzionati ai bassi e occasionali salari non possono far aspirare a nulla più che alla pensione sociale. Nel frattempo gli effetti del sistema contributivo stanno alzando l’età pensionabile a 71 anni, ostacolando ulteriormente il ricambio generazionale. Dopo anni di blocco del turnover nel pubblico impiego, attivo dal 2004 (governo Berlusconi), il decreto Crescita sembra, tuttavia, mirare ad assunzioni non più calibrate sulle uscite, ma sui bilanci. Quindi solo laddove ci saranno risorse adeguate si potrà tornare a programmare nuovi ingressi in numero superiore, o almeno pari, ai pensionamenti. Considerando i bilanci disastrati delle PA non è difficile preconizzare che, nei fatti, il turnover rimarrà una chimera, malgrado, rispetto ad altri paesi, l’età media del pubblico impiego sia ormai vicina ai 60 anni e, in rapporto alla popolazione, i lavoratori pubblici siano solo la metà del personale impiegato da altri paesi europei. In pratica, un nostro impiegato svolge mediamente il doppio del lavoro, in rapporto alla popolazione, rispetto a quello di altri paesi.
Sullo sfondo, una povertà assoluta in crescita colpisce più di 5 milioni di persone; altre dieci milioni sono in stato di povertà relativa. Malgrado agli italiani sia inflitta una imposizione fiscale tra le più alte al mondo, a questa non corrispondono servizi pubblici adeguati alle necessità. Tagli implacabili e continuativi a carico di sanità, istruzione, ricerca, previdenza sociale, investimenti pubblici, degradano la qualità del servizio. A chi gestisce i servizi pubblici si chiede di far quadrare i conti grazie ad una gestione di tipo aziendale. Secondo questa logica le unità sanitarie locali sono state trasformate in aziende sanitarie locali e avanza inesorabile il sistema della salute a pagamento fondato su ticket, assicurazioni private, interventi intra moenia (tra le mura) per ovviare alle lunghe liste d’attesa [interventi, cioè, erogati dai medici ospedalieri che utilizzano le strutture ambulatoriali e diagnostiche dell’ospedale stesso a fronte del pagamento da parte del paziente di una tariffa] che minano alla base il reddito indiretto (principalmente l’assistenza sanitaria gratuita) e il reddito differito ovvero previdenziale e pensionistico, alle origini dello stato sociale europeo pre-Ue, alla base della pratica del welfare universale.
Sull’altro versante le privatizzazioni e le svendite del patrimonio comune.
Il sistema delle micro imprese (95% delle imprese italiane!) è in estremo affanno. La grande e media industria praticamente non ci sono più. L’impresa pubblica è ridotta ad un quinto di quella che è stata. Ha cambiato natura e scopo trattandosi oggi di società per azioni.
L’IRI nel 1980 occupava da sola circa 550 mila lavoratori. La differenza principale con l’impresa privata sta nel fatto che il suo scopo non era il profitto ma la funzione sociale, potremmo dire il Bene Comune.
I dati ufficiali sulla natalità e mortalità delle imprese italiane nel terzo trimestre del 2019, diffusi da Unioncamere – InfoCamere, riferiscono «…un saldo attivo di 13.848 unità in più, rispetto alla fine di giugno, il bilancio fra le imprese nate (66.823) e quelle che hanno cessato l’attività (52.975) nel terzo trimestre dell’anno. Il segno ‘più’ continua dunque a caratterizzare l’andamento demografico della grande famiglia delle imprese italiane (6.101.222 unità alla fine di settembre), pur in presenza di segnali di difficoltà sia sui mercati internazionali sia su quelli domestici, in particolare per le piccole e piccolissime imprese. Il 91% dell’intero saldo è infatti dovuto alle imprese costituite in forma di società di capitali (cresciute nel trimestre al ritmo dell’0,7%). Nel complesso, il tasso di crescita del trimestre (+0,23%, tra i più contenuti dell’ultimo decennio con riferimento al periodo giugno-settembre) è frutto di una natalità (1,1%) e una mortalità (0,87%) sostanzialmente in linea con l’anno passato.»
La disoccupazione è legata alla finanziarizzazione dell’economia che bypassa l’economia reale e pretende di far soldi con i soldi. Un mercato del denaro fatto di rendite parassitarie e commercializzazione, in forma di derivati e cartolarizzazioni, di debiti e scommesse, moneta fittizia, che pur non rappresentando ricchezza reale viene ad avere un potere d’acquisto che esercita nei confronti della ricchezza reale di cui si nutre cannibalizzandola. La finanza speculativa registra, infatti, corsi borsistici continuamente crescenti che distribuiscono ricchezza fittizia agli investitori i quali con i loro investimenti ricorsivi gonfiano l’enorme bolla speculativa, sostenuta dal nuovo ruolo delle banche centrali, che dalla crisi del 2007 immettono denaro a sostegno dell’economia finanziaria, alimentandola e stabilizzandola finché possibile mentre mantengono, bassi come non mai, i tassi di interesse del denaro che mettono in circolazione, denaro a cui è impedito di giungere in maniera diretta ad alimentare gli investimenti pubblici e l’economia reale. Della vera ricchezza dismessa, di stati ed economia reale, in crisi permanenti provocate ad hoc, si ciba il vampiro finanziario.
L’economia reale fatta di micro e piccole imprese resiste ma è continuativamente sotto attacco. Se non riusciremo a bloccare i processi in corso il tessuto fatto di piccole imprese, il piccolo e locale, a cui è affidata la tenuta del Paese sarà costretto a cedere il paese alle potenti multinazionali pilotate dalle oligarchie finanziarie che controllano i grandi fondi di investimento speculativo.
Con l’ingresso nell’Unione si è smesso di perseguire la piena occupazione, sostenuta dalla spesa pubblica di cui era strumento la banca centrale nazionale (tassi di interessi reali negativi al netto dell’inflazione). Quell’obiettivo è stato sostituito da quello della stabilità dei prezzi attraverso il vincolo esterno che ci ha imposto politiche fiscali assai restrittive.
Oggi l’euro, una valuta troppo forte per l’economia italiana, ci ha costretto ad una competitività sui mercati esteri ottenuta solo a prezzo di svalutazione interna e deflazione salariale. Con una moneta iper valutata rispetto alla forza dell’economia, gli acquisti all’estero sono incoraggiati (a discapito della domanda di prodotti italiani), mentre il listino prezzi delle nostre esportazioni ostacola la collocazione competitiva di larga parte della nostra produzione mentre facilita le importazioni a discapito del mercato interno già messo a dura prova dal calo drastico delle retribuzioni che provocano il calo di consumi ed investimenti che a loro volta retroagiscono sul sistema economico deprimendolo ulteriormente… molte aziende licenziano o chiudono… contemporaneamente le tutele del lavoro sono rimosse dai governi. Si tratta di una miscela pericolosa di diminuzioni successive della domanda interna, ulteriori richieste di abbassamento del costo del lavoro, in una spirale perversa di impoverimento crescente con conseguenze negative sulle casse della previdenza sociale (cassa integrazione, indennità di disoccupazione, infortuni legati al peggioramento delle condizioni di sicurezza…).
Austerità e mancata azione della banca centrale europea (1) insieme ai vincoli sul deficit hanno colpito il debito pubblico e quello privato provocando piuttosto l’innesco di un processo deflattivo sul quale a rigore dovrebbe intervenire la BCE (che per mandato ha la stabilità dei prezzi).
L’azione dello Stato e della politica, secondo i dettami del titolo 3 della Costituzione economica, è ormai impedita. Allo Stato sono venuti a mancare i suoi tradizionali strumenti di politica economica. Non controlla né disciplina il credito, non è in grado di tutelare e valorizzare il risparmio, né gli è permesso di optare per investimenti pubblici di largo respiro; non controlla i tassi di interesse che sono stati affidati al mercato, né la spesa ad essa correlata del servizio al debito (interessi passivi sul debito). Gli è stata sottratta anche la politica valutaria con cui era possibile regolare la bilancia commerciale e quella dei pagamenti.
Il vincolo esterno, ordoliberista, finalizzato a garantire la stabilità dei prezzi, ha frustrato l’azione dello Stato. Esso è stato attivato a discapito del vincolo interno virtuoso rappresentato dalla nostra Carta Costituzionale. L’obiettivo è stato raggiunto (oggi siamo però in stato di deflazione) a scapito di occupazione e salari facendo della disoccupazione un dato strutturale; ha impedito, in ultima analisi, la persecuzione degli obiettivi di pieno impiego inscritti nella Costituzione. Con l’ingresso nella Ue, infatti, abbiamo cominciato ad utilizzare i trattati europei al posto della Costituzione. In piena opposizione alla democrazia economica della Costituzione italiana, in cui il diritto fondamentale è quello al lavoro (art.1), la finalità dell’Ue è quella di realizzare una economia di mercato attraverso una «forte competizione» tra paesi europei finalizzata alla stabilità dei prezzi (l’obiettivo inscritto nello statuto della BCE è che l’inflazione rimanga costante e al di sotto del 2%) (2) ed una restaurazione del mercato del lavoro e della economia anteriori alla crisi del ’29, che pensa l’intervento dello Stato nel ripristino dell’occupazione come una ingerenza che, avendo effetti inflazionistici, è da impedire. Qualsiasi intervento dello Stato è visto, cioè, come distorsivo di un equilibrio naturale generante un’inflazione che distorce tutto, impedendo una efficiente allocazione delle risorse. La disoccupazione sarebbe, quindi, compatibile con il livello di inflazione desiderata. Le politiche della Ue portano a bassa inflazione ed alta disoccupazione.
(1) Le funzioni delle banche centrali quali la Federal Reserve, la Banca d’Inghilterra, la banca del Giappone, la banca centrale cinese, ecc., secondo una letteratura ormai consolidata, sono essenzialmente tre: essere banca del Tesoro, banca delle banche e banca dell’estero. La BCE svolge l’unico compito di banca delle banche. Gli è proibito il finanziamento del Tesoro così come qualsiasi intervento sul cambio (banca dell’estero).
(2) Ogni politica espansiva è in qualche misura inflattiva. In passato si reagiva ai processi inflattivi indicizzando salari, stipendi, pensioni e piccoli risparmi e mettendo in atto, contemporaneamente, politiche anti monopolio e oligopolio a favore della libera concorrenza dei prezzi. Nei rapporti con l’estero era sufficiente svalutare il cambio in misura pari al differenziale di inflazione residuo. Se, ad esempio ipotizziamo una inflazione negli Usa del 2%, rispetto ad un 5% di inflazione in Italia, dovuto ad eventuali manovre espansive, bastava svalutare la moneta nazionale del 3% per ristabilire il listino prezzi del made in Italy e del made in USA, precedente alla variazione inflattiva, riportando la competitività ai valori precedenti (Nando Ioppolo, 2012).
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