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Economia

Ecco perchè non è sbagliato pensare di riconvertire settore auto in difesa

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Il governo italiano sta esplorando un’idea che ha suscitato molte discussioni: spingere l’industria automobilistica a riconvertirsi verso il settore della difesa. L’industria dell’auto sta affrontando infatti da tempo una grave crisi, causata dalla transizione verso i veicoli elettrici e dalla difficoltà di grandi gruppi come, per esempio, Stellantis. Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, ha spiegato che la proposta mirerebbe a “salvaguardare e valorizzare le competenze dei lavoratori” del settore, indirizzandosi verso settori in espansione, come la difesa, l’aerospazio, la blue economy e la cybersicurezza. L’obiettivo, secondo il ministro, sarebbe quello di diversificare e riconvertire l’attività delle aziende automobilistiche, sfruttando le loro capacità tecniche e il capitale umano già formato. Com’era facile aspettarsi la proposta del ministro, ha scatenato critiche e distinguo da parte di sindacati e partiti di opposizione. La proposta di Urso divide i sindacati.

Netto il giudizio di Samuele Lodi, segretario nazionale Fiom-Cgil: “Governare la transizione non vuol dire passare dal green al militare, sarebbe una scelta di cui non vogliamo neanche discutere ma che sarebbe assurda dal punto di vista etico, industriale e occupazionale”. Meno netto Gianluca Ficco, segretario nazionale Uilm: “Pensare che con l’alto grado di specializzazione che oggi esiste nei vari settori industriali nel suo complesso, l’industria dell’automotive possa trasformarsi in industria della difesa non è realistico e questo a prescindere anche da ogni considerazione di carattere politico e morale”. La pensa diversamente la Fim-Cisl con il segretario generale Ferdinando Uliano, secondo cui ci sono “alcuni aspetti da cogliere rispetto a un settore che sta crescendo”.

Seppure la riconversione sarebbe, a suo giudizio, possibile “solo in piccola parte”. All’attacco anche i 5 Stelle, con la vicepresidente Chiara Appendino che parla di “follia” e di “pietra tombale per la nostra economia e il settore dell’automotive”.  Ma occorre analizzare in maniera meno strumentale ed ideologica una questione che si sta ponendo anche in altri paesi, Germania e Francia in testa. Anche perché il ministro ha mostrato di avere a cuore il settore automotive  e la difesa dei posti di lavoro. E la sua proposta prevede una riconversione parziale e non appare affatto campata in aria, come qualcuno vorrebbe far credere. La proposta, secondo fonti di Palazzo Chigi avrebbe l’avallo anche della stessa premier, La premier parte dalla constatazione che «l’auto non fa più status», che la vendita di veicoli «è destinata a diminuire progressivamente dappertutto», che le aziende nazionali impegnate nel settore e legate alle forniture delle industrie tedesche sono «in sofferenza», e che questo pone «nel medio periodo un serio problema sulla tenuta dell’occupazione». Perciò, se «il nostro obiettivo è tentare di mettere in sicurezza i lavoratori» e «la Germania sta riconvertendo in armamenti», preparandosi a spendere duecento miliardi, l’Italia deve adeguarsi per «non perdere la filiera». Perciò il governo deve immaginare come aiutare il passaggio al comparto bellico.

La crisi del settore auto in Europa e in Italia è ormai all’ordine del giorno. È una crisi che ha poco del contingente, e che sembra piuttosto strutturale. Certo, la furia iconoclasta green della Commissione Europea, con la clava del “tutto elettrico” al 2035, ci ha messo del suo, ma c’è anche molto altro, e di più profondo. C’è, innanzitutto, una crisi di prodotto; un prodotto, soprattutto in Europa, poco innovativo e sofisticato e, dunque, meno competitivo; rimasto vittima della trappola della tecnologia intermedia. I numeri sono impietosi: Stellantis, tra il 2021 e il 2024, ha speso circa il 3,8% dei suoi ricavi in ricerca e sviluppo. La ricetta di Carlos Tavares è stata semplice. Investire il giusto, tagliare costi e organici e remunerare lautamente gli azionisti. Così, però, non si fa industria, ma qualcos’altro: i manager e, appunto, gli azionisti, ingrassano, ma i prodotti invecchiano, i mercati si riducono e i lavoratori diminuiscono. Economia senza strategia, in una fase storica che ha disperato bisogno di visione e strategia.

Poi mettiamoci gli shock geopolitici e gli alti costi dell’energia e delle materie prime. In Germania, la perdita delle forniture di gas russo a buon mercato ha avuto impatti devastanti su un’industria mentalmente e strutturalmente pesante: la crisi della Wolkswagen è una crisi di sistema industriale prima di tutto; una crisi che ha un impatto forte anche in Italia, dove tutto un mondo imprenditoriale del nord è profondamente interconnesso con l’economia tedesca. Recuperare il gap perso negli anni è molto difficile, ragion per cui bisogna pensare a delle alternative. In Italia, secondo l’ultimo rapporto di AlixPartners, nell’ automotive sono a rischio tra 25.000 e 50.000 posti di lavoro. Pensiamo, dunque, a riconvertire una parte della filiera dell’auto all’Aerospazio e Difesa. Non è una provocazione, ma una valutazione basata sui fatti e sui numeri.

Il trend al rialzo è tale già da 3 anni, ma proseguirà negli anni a venire. La supply chain deve essere, dunque, potenziata, perché l’industria militare è stata ridimensionata dopo la fine della Guerra Fredda e, come dimostrato chiaramente dalle guerre in Ucraina e in Medioriente, con l’attuale struttura non è possibile soddisfare la domanda. Il settore Aerospazio e Difesa è, inoltre, un settore dove conviene investire. È competitivo e innovativo, con produzioni altamente sofisticate, che “reggono” la concorrenza e i mercati, e mediamente dedica a R&D il 10-12% dei ricavi. È un settore dove per ogni euro investito ne ritornano più di 3 come valore economico per tutto il sistema e dove le industrie europee mantengono tuttora un vantaggio rispetto alle concorrenti industrie asiatiche e turche. Va da sé che quella filiera che soffre, e soffrirà sempre più, per la crisi dell’auto, può essere riconvertita a produzioni – dalla componentistica meccanica, ai materiali – utilizzabili anche in campo aerospaziale. Un modo per potenziare la supply chain aerospaziale e per non perdere capacità rischiando la desertificazione industriale. 

 


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