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Dove i diritti dei lavoratori non sono tutelati, e chi ne approfitta

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Sono passati 10 anni dal crollo della fabbrica Rana Plaza nella capitale del Bangladesh, Dhaka, dove morirono più di 1.100 persone e oltre 2.600 rimasero ferite. Uno dei disastri sul lavoro maggiori della storia. Il tragico evento è stata una spinta molto forte al miglioramento della qualità e della sicurezza del lavoro anche  nei paesi in via di sviluppo. Ad esempio l’evento ha portato alla rapida attuazione dell’Accordo sulla sicurezza degli incendi e degli edifici in Bangladesh, che ha conferito maggiori poteri ai sindacati e ha fornito un quadro di riferimento per ritenere i marchi della moda responsabili del benessere dei dipendenti delle loro fabbriche.

Lanciato nel 2013, l’accordo è stato considerato un importante passo avanti per i diritti dei lavoratori, con oltre 220 marchi che si sono impegnati ad aderirvi. Nell’agosto 2021, i marchi e i sindacati hanno concordato un nuovo Accordo internazionale, che dovrebbe consentire di estendere il lavoro dell’accordo ad altri Paesi.

Sebbene sia certamente un passo nella giusta direzione, Anna Fleck di Statista riferisce che gli attivisti sottolineano che c’è ancora molto lavoro da fare. Ad esempio, secondo la Clean Clothes Campaign, molti nomi famosi non hanno firmato il nuovo trattato, tra cui Amazon, Levi’s, IKEA e Walmart. Appare evidente che per questi marchi la sicurezza dei lavoratori sia un elemento secondario. Ovviamente poi queste aziende fanno campagne pubblicitarie sulla loro bontà ambientale e sociale (il riferimento a un marchio di mobili svedese è puramente casuale).

Il grafico seguente mostra una panoramica dello stato dei diritti dei lavoratori nel mondo, utilizzando i dati compilati dalla Confederazione Internazionale dei Sindacati (ITUC). Secondo l’analisi della Confederazione Internazionale dei Sindacati, il Bangladesh è stato classificato nella categoria più bassa per quanto riguarda i diritti dei lavoratori (ad eccezione dei luoghi in cui è stato individuato un generale crollo dello stato di diritto). L’organizzazione ha inoltre dichiarato di aver visto il Paese in fondo a questa categoria, insieme a Bielorussia, Brasile, Colombia, Egitto, Eswatini, Filippine, Guatemala, Myanmar e Turchia. La ITUC ha stilato una classifica di 148 Paesi in base al diritto alla libertà di associazione, al diritto alla contrattazione collettiva e al diritto di sciopero, assegnando a ogni nazione un punteggio da 1 a 5+, dove 1=violazioni sporadiche dei diritti e 5+=nessuna garanzia dei diritti a causa della rottura dello Stato di diritto.

I paesi dalla UE sono quasi tutti nella categoria 1 e 2 tranne…. la Polonia del boom industriale e il Belgio della UE. Come mostra l’infografica, solo alcuni Paesi selezionati hanno ricevuto il marchio verde di approvazione, tutti in Europa. Il resto del mondo mostra un quadro meno promettente: l’87% dei Paesi ha violato il diritto di sciopero dei lavoratori nel 2022, rispetto al 63% del 2014. Secondo il rapporto, lo scorso anno i sindacalisti sono stati uccisi in 13 Paesi, con la Colombia come nazione più letale.

Lo scorso anno, il Medio Oriente e il Nord Africa hanno ricevuto il punteggio peggiore tra le regioni dell’Indice dei diritti globali, con una media di 4,53. Seguono l’Asia-Pacifico con 4,22, l’Africa con 3,76, le Americhe con 3,52 e l’Europa con 2,49. La regione Asia-Pacifico ha visto la sua valutazione media peggiorare leggermente nel 2021, passando da 4,17 a 4,22 l’anno successivo.

Sebbene il grafico prenda in considerazione non solo i lavoratori dell’abbigliamento, ma tutti i lavoratori in generale, gli analisti della ITUC spiegano che in Bangladesh l’industria dell’abbigliamento è uno dei settori più grandi, con oltre 4,5 milioni di dipendenti. Il Paese ha ricevuto un punteggio di 5, a significare che non vi è alcuna garanzia di diritti per i lavoratori. Eppure quanti sindacalisti italiani comprano capi dalle catene della moda che producono in Bangla Desh? Magari con l’aiuto dell’armocromista..


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