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Economia

Dove conviene emigrare? La Germania batte tutti sulla crescita salariale, mentre l’Italia rincorre (con il fiatone)

La Germania offre agli immigrati un aumento del reddito del 48% in cinque anni, mentre l’Italia cresce ma resta indietro sui salari assoluti. Sorpresa negativa per l’Olanda. L’analisi dei nuovi dati OCSE.

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Quando si parla di immigrazione, il dibattito pubblico si arena spesso su questioni di accoglienza o di ordine pubblico, dimenticando il motore fondamentale che spinge milioni di persone a muoversi: l’economia reale e la prospettiva di miglioramento del proprio reddito. L’ultimo rapporto dell’OCSE, l’International Migration Outlook 2025, ci offre una fotografia impietosa ma estremamente interessante su dove, effettivamente, il lavoro paga nel medio periodo.

I dati analizzano la crescita dei guadagni reali annuali degli immigrati tra il primo e il quinto anno di permanenza nel paese ospitante. E qui le sorprese non mancano. Ne abbiamo ricavato un’infografica che vi permette di valutare con un colpo d’occhio dove le prospettive sono migliori.

Il miracolo tedesco e il sogno americano

Se state cercando il luogo dove l’ascensore sociale funziona meglio per i nuovi arrivati, dovete guardare a Berlino. La Germania guida la classifica con una crescita impressionante dei salari degli immigrati: un +48% nell’arco di cinque anni. Un dato che riflette la fame di manodopera dell’industria tedesca, ma anche una certa capacità di assorbimento del mercato del lavoro, dato che circa il 20% della popolazione è nata all’estero.

Subito dietro troviamo la Svezia (+44%) e, ovviamente, gli Stati Uniti (+43%). Nel caso americano, il salto è quantitativamente il più rilevante in termini assoluti: si passa da circa 27.000 dollari del primo anno a oltre 39.000 dollari nel quinto. Il “Sogno Americano”, numeri alla mano, sembra godere ancora di discreta salute, almeno per chi riesce a integrarsi nel sistema produttivo.

La situazione italiana: crescita percentuale, povertà assoluta

E l’Italia? Il nostro Paese si piazza a metà classifica, con una crescita del reddito del 29% in cinque anni. Il dato percentuale potrebbe sembrare lusinghiero, superiore a quello di Francia, Canada o Spagna, ma nasconde la solita, triste verità dei salari italiani.

Guardando i valori assoluti in dollari (a parità di potere d’acquisto), si nota l’abisso: un immigrato in Italia parte da circa 14.892 dollari e arriva a 19.236 dollari dopo un lustro. In Germania, nello stesso periodo, si arriva a oltre 25.000 dollari; in America a quasi 40.000. La dinamica salariale c’è, ma la base di partenza e quella di arrivo sono figlie di un sistema economico che, keynesianamente parlando, soffre di una domanda interna asfittica e di una produttività stagnante che deprime le retribuzioni di tutti, nativi e non.

Ecco la classifica completa basata sui dati OCSE:

PaeseReddito Anno 1 ($)Reddito Anno 5 ($)Variazione %
🇩🇪 Germania17.00425.22448%
🇸🇪 Svezia15.93622.90844%
🇺🇸 Stati Uniti27.37539.16343%
🇫🇮 Finlandia25.87236.80442%
🇮🇹 Italia14.89219.23629%
🇨🇦 Canada29.55737.61827%
🇪🇸 Spagna14.30418.20427%
🇫🇷 Francia18.93622.56019%
🇳🇿 N. Zelanda48.12045.432-6%
🇳🇱 Olanda26.59224.864-6%

Le sorprese negative: Olanda e Nuova Zelanda

Non è tutto oro quel che luccica nell’Occidente sviluppato. In controtendenza troviamo due economie spesso citate come modelli: Paesi Bassi e Nuova Zelanda. Qui, paradossalmente, i salari reali degli immigrati scendono del 6% dopo cinque anni. Le cause possono essere molteplici, dalla tipologia di visti temporanei che non permettono una vera progressione di carriera, a un mercato del lavoro che forse segrega i nuovi arrivati in nicchie a bassa produttività, oppure, al contrario, che le competenze specifiche che portano all’immigrazione si appiattiscono nel tempo.

Il gap con i nativi: una convergenza lenta

L’OCSE segnala anche che, all’ingresso, gli immigrati guadagnano mediamente il 34% in meno rispetto ai lavoratori nativi. Questo divario si riduce col tempo, scendendo al 21% dopo cinque anni, grazie all’acquisizione di esperienza, alla padronanza della lingua e allo spostamento verso aziende che pagano meglio. Tuttavia, il gap dimezza ma non scompare nemmeno dopo dieci anni.

In sintesi, l’immigrazione funziona come ascensore sociale soprattutto dove l’industria tira e i salari sono dinamici. L’Italia offre una crescita percentuale dignitosa, ma su livelli di reddito che restano preoccupantemente bassi rispetto ai partner occidentali.


Domande e risposte

Perché la Germania mostra una crescita salariale così elevata per gli immigrati rispetto ad altri paesi europei?

La performance tedesca è legata alla forte domanda del settore industriale e manifatturiero, che necessita costantemente di manodopera. Inoltre, il sistema di formazione professionale e l’integrazione nel mercato del lavoro sembrano funzionare meglio che altrove. Partendo da salari d’ingresso non elevatissimi, l’inserimento in un tessuto produttivo solido e sindacalizzato permette scatti di carriera e aumenti retributivi rapidi, portando i lavoratori stranieri a recuperare terreno velocemente rispetto al salario d’ingresso.

Come si spiega il dato negativo di Paesi Bassi e Nuova Zelanda, dove i salari diminuiscono dopo cinque anni?

Il fenomeno è controintuitivo per economie avanzate. Probabilmente deriva dalla natura dei flussi migratori e dalle regolamentazioni sui visti: se molti immigrati entrano con permessi legati a lavori stagionali, temporanei o a bassa qualifica senza possibilità di progressione, il loro reddito reale può stagnare o erodersi a causa dell’inflazione. Inoltre, potrebbe indicare una difficoltà strutturale di questi mercati nell’integrare i lavoratori stranieri in ruoli a maggiore valore aggiunto col passare del tempo.

Il dato dell’Italia è positivo o negativo nel contesto generale?

È un dato in chiaroscuro. La crescita del 29% dimostra che l’immigrato che lavora in Italia riesce a migliorare la sua condizione, integrandosi e probabilmente aumentando le ore lavorate. Tuttavia, il confronto sui valori assoluti è impietoso: un lavoratore straniero in Italia dopo cinque anni guadagna meno di quanto guadagna un suo pari in Germania o Finlandia al primo giorno di lavoro. Questo riflette il problema strutturale dei salari italiani, fermi da trent’anni, più che una dinamica specifica dell’immigrazione.

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