Attualità
Dal “fate presto” al “troppo tardi”. Il Patto di Londra e il MES: un secolo di politica del fatto compiuto (Duccio Chiapello)
La negoziazione di un trattato in modo autonomo, e in certa parte segreto, gestita da una piccola parte dell’esecutivo; l’elusione dei doveri di tempestiva informazione nei confronti del parlamento; il sostanziale disallineamento della condotta negoziale rispetto ai contenuti di un atto di indirizzo approvato dalla Camera; la presentazione al parlamento di un accordo già chiuso in tutti gli aspetti rilevanti, con la conseguente imposizione a quest’ultimo di un sostanziale aut-aut: questi elementi, emersi nella vicenda relativa alla modifica del MES, ricordano – mutatis mutandis – la stagione della storia d’Italia in cui maturò il Patto di Londra (1915), atto con cui il nostro Paese s’impegnò, nell’arco di un mese, a entrare nel primo conflitto mondiale a fianco della Triplice Intesa.
Riprendendo considerazioni altrove già svolte in linea generale (https://scenarieconomici.it/la-riforma-del-mes-carlo-alberto-e-vivo-e-lotta-insieme-a-loro-di-duccio-chiapello), ricordiamo dunque una serie di eventi significativi della storia italiana, che dimostrano oggi molto meno dei loro oltre cent’anni d’età, tanto che di loro si potrebbe dire, secondo il lessico dei vecchi almanacchi: “accaddero ieri”.
Il Patto di Londra fu negoziato principalmente dall’allora presidente del Consiglio Antonio Salandra e dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino, con il consenso del re Vittorio Emanuele III, a cui spettava, per prescrizioni statutarie, la stipula dei trattati. Già allora, seppur soltanto per prassi costituzionale, l’azione del governo sul fronte della politica estera doveva attenersi agli atti di indirizzo del Parlamento; e tali atti ci furono. Nell’agosto del 1914 fu infatti approvato, con 413 voti favorevoli e 49 contrari, un ordine del giorno presentato dall’ammiraglio Bettolo, che recitava: “La Camera, riconoscendo che la neutralità dell’Italia fu proclamata con pieno diritto e ponderato giudizio, confida che il Governo, conscio delle sue gravi responsabilità, saprà spiegare, nei modi e con i mezzi più adatti, un’azione conforme ai supremi interessi nazionali”. Questo atto ricorda molto da vicino quello con cui, nel giugno 2019, la Camera ha impegnato il governo ad opporsi alla revisione del Meccanismo europeo di stabilità: entrambi i documenti, infatti, rappresentano l’espressione di un indirizzo molto chiaro – nel caso del 1914, l’orientamento neutralista; nel caso del 2019, il mandato a non procedere a modifiche peggiorative del MES. Tuttavia, una parte di entrambe le formulazioni, assoggettata a una chiara distorsione interpretativa, è stata utilizzata dall’esecutivo come appiglio formale per legittimare una elusione sostanziale del mandato ricevuto. Per quanto riguarda i fatti del 1914-1915, Salandra e Sonnino approfittarono della loro piena facoltà di “gestire la neutralità”, secondo i modi e i mezzi da loro ritenuti più opportuni, per preparare surrettiziamente il voltafaccia italiano e l’ingresso in guerra; nel 2019, il presidente del Consiglio si è invece aggrappato alla “logica di pacchetto”, inserita nella risoluzione parlamentare proprio su sua iniziativa, per legittimare una condotta negoziale per molti versi difforme dalla sostanza dell’atto di indirizzo.
Da notare, in entrambi i casi, come il difetto di tempestiva informazione sullo stato delle trattative abbia riguardato non solo il parlamento, ma anche il governo in quanto organo collegiale, essendo i due negoziati stati sostanzialmente condotti in toto da due soli membri dell’esecutivo.
Le affinità fra i due casi, infine, riguardano l’imposizione alle Camere di due trattati ormai completamente formati in tutte le loro parti rilevanti: nel caso del patto di Londra, il parlamento poté votare soltanto sui crediti di guerra e sul conferimento al governo dei pieni poteri; nel caso della riforma del MES, sono state direttamente le autorità europee – a cominciare dal presidente dell’Eurogruppo Centeno – a far sapere che l’accordo politico era stato chiuso già a giugno, che non vi erano margini per cambiare il testo e che si trattava al massimo di affinare “dettagli tecnici”.
Il caso della riforma del MES configura tuttavia due profili aggiuntivi di gravità.
Il primo riguarda le prerogative del parlamento in materia di informazione e partecipazione alla formazione di trattati internazionali, che oggi sono definite da una legge dello Stato e non da mere prassi prive di consolidamento normativo.
Il secondo è stato sollevato da un intervento parlamentare dell’11 dicembre scorso: l’allora senatore del Movimento 5 stelle Stefano Lucidi, intervenendo in dissenso dal suo gruppo, ha rivelato che la risoluzione con cui le Camere in quella stessa giornata impartivano i loro indirizzi al governo era stata scritta dal governo stesso: il parlamento, pertanto, era stato utilizzato come mero avatar dell’esecutivo, per inscenare una dialettica democratica che non c’era e non poteva esserci, essendo la riforma del MES un fatto ormai compiuto, salvo rovesciamenti di tavolo che questo governo non vuole né tantomeno può permettersi.
Come andrà a finire la vicenda MES, non possiamo saperlo con certezza, essendo sempre possibili atti di resipiscenza. Come sia finita la vicenda del patto di Londra è invece noto. La guerra ne fu solo l’effetto più macroscopico; ve ne fu infatti un altro, politicamente ancor più rilevante.
Quando infatti Mussolini, nel presentarsi alle Camere nel novembre del 1922, dovette giustificare la propria ascesa al potere per vie non esattamente congruenti con la dialettica democratica, poté riferirsi ai fatti del 1915 come a un illustre precedente in cui l’Italia si era data un governo “al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del parlamento”.
Qualcuno, a un secolo di distanza, ha ancora voglia di giocare col fuoco.
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