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Credere, obbedire, combattere

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Avete mai un senso di déjà-vu rispetto all’informazione sulla guerra russo-ucraina? Una specie di retrogusto dolciastro e posticcio quando sentite certi slogan? Tipo che noi dobbiamo difendere l’Europa da un tiranno sanguinario? Oppure che bisogna stare dalla parte “giusta” della storia? Oppure che i cittadini debbono sacrificare il loro benessere immediato e la loro contingente tranquillità per difendere dei principii superiori e dei popoli “fratelli”? Oppure che noi facciamo parte della “famiglia” delle liberal-democrazie mentre “loro” sono uno stato canaglia? Se la risposta è sì (e non vi è dubbio che la risposta è sì) c’è una ragione ben precisa.

Tutte le succitate affermazioni sono tipiche espressioni retoriche “nazionaliste”. Dove per “nazionalista” intendiamo una declinazione bellicosa e manichea (e perciò negativa e biasimevole) del termine “nazione”. Ora, qual è l’espediente propagandistico principale sotteso al processo di unificazione europea? Il risoluto ripudio di tutti i “nazionalismi” e, con esso, di tutte le sottese nazioni. In virtù di un “sillogismo” puerile – e perciò tremendamente efficace – in base al quale: 1) le nazioni sovrane  sono la causa del nazionalismo; 2) il nazionalismo è la causa delle guerre; 3)  ergo, basta eliminare le nazioni per azzerare il rischio di conflitti e ritrovarsi nell’Eden della pace universale.

I popoli europei hanno creduto sia a una menzogna (cioè: la nazione tende necessariamente a partorire il “nazionalismo” aggressivo) che all’altra (cioè: estirpando le patrie avremmo eradicato anche il pernicioso patriottismo). Oggi, ci svegliamo da un letargo quasi secolare e ci accorgiamo che in realtà non è cambiato granché. Diventando “europei”, siamo semplicemente transitati da tante nazioni piccole a una nazione più grande. Con l’enorme differenza che le prime lo erano davvero, la seconda è puramente artificiale e inventata.

Per il resto, questa grande “Nazione europea” non è molto diversa da quelle precedenti. Ha di nuovo un nemico esterno che minaccia la libertà ai propri confini e il bene mondiale. Riassumendo, abbiamo rinunciato ai diritti e poteri esclusivi di autogoverno della nostra comunità e del nostro territorio (per devolverli a una sedicente “comunità” molto più nutrita e a un territorio molto più esteso) con la promessa di incenerire alla buon’ora le pulsioni nazionaliste, “patriottiche”, identitarie. E ci ritroviamo ora nel bel mezzo della stessa tempesta emotiva e irrazionale di frasi ad effetto, di pistolotti retorici, di richiami alle armi dei nazionalismi prima maniera.

Certo, qualche dettaglio è diverso: non dobbiamo più regalare oro alla patria, ma condizionatori; le terre irredente non sono più Trento e Trieste, ma Donetsk e Lugansk, i mostri da temere e odiare non sono più la perfida Albione o le potenze demo-pluto-giudaico massoniche, ma i fetentissimi russi. Tuttavia, il retrogusto in bocca non cambia: si tratta sempre di enfasi “nazionalista”. Cioè della sempiterna arma di manipolazione di tutti i regimi, da che mondo è mondo: sostituire la verità dei fatti, la complessità degli interessi e l’intreccio delle responsabilità con un racconto “fantastico”, monolitico e indiscutibile. Dove noi siamo i buoni che difendono i “valori”, gli altri sono i cattivi che aggrediscono i buoni. Forse per questo solo un motto partorito cent’anni fa può sintetizzare ciò che oggi, più che mai, i nostri “comandanti” (e i loro “cantori”) vogliono da noi: non pensare, non riflettere, non dubitare. Solo credere, obbedire, combattere.

Francesco Carraro

www.francescocarraro.com


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