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Attualità

Chiediamo tutti scusa alla città di Milano. Io, per farlo, offro Bonvesin della Riva.

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Devo chiedere scusa a Milano. Io non sono milanese, come non era abitante nella città Guido da Landriano, console nell’anno della battaglia di Legnano, eppure devo molto a questa città, anche se non vi risiedo più da tempo. Devo chiedere scusa perchè ho permesso che non so quale re barbaro, in nome di non so quale oscuro rito demoniaco, abbia trasformato il piccolo gioiello neoclassico dei Bastioni di Porta Venezia in questa porcata. Non abbiamo detto nulla nei confronti di una città che si trasformava nell’esempio delle più cieche e vuote sperimentazioni sociali. Questi erano i bastioni che ricordavo:

Questo piccolo gioiello, questo angolo di tanti ricordi, non solo miei, è stato trasformato con l’autorizzazione un re barbaro, peggiore di Attila o di Uraia, in una sorta di capanna di stracci, di stupidi e vuoti sacchi di tela. Da monumento alla bellezza a monumento alla monnezza,

 

Quindi chiedo scusa a Milano , perchè non ho fatto abbastanza per fermare questa bruttura, anche se spero che, se gli abitanti della città hanno ancora un’anima, facciano qualcosa per eliminarla. Per espiare il mio debito, il mio peccato, offro alla città, ed a voi, la lettura de “Le Meraviglie di Milano” (De magnalibus urbis Mediolani) nel quale Bonvesin della Riva, nel 1288, narrava le meraviglie e la storia di quella città allora magnifica ed unica, ed ora ridotta a celebrare una baracca.  Spero che la lettura di una città come era quando i milanesi erano tali, faccia sorgere un moto in quelli che vedono l’obbrobrio odierno.

Buona lettura.

 

 

LE MERAVIGLIE DI MILANO

A chi vuol conoscere le meraviglie di Milano sarà guida sicura questo facile libro.

(Qui Mediolani magnalia nosse querit,

Hoc libri plani lumine certus erit.)

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A tutti i credenti nella religione cattolica nelle cui mani perverrà questo libro, frate Bonvesino dalla Riva augura salute e pace nel Signore; a tutti i traviati augura di raggiungere, colla grazia dell’Onnipotente, la via diritta.

Essendomi accorto che non solo gli stranieri, ma persino i miei concittadini, come addormentati nel deserto dell’ignoranza, ignorano la grandezza di Milano, stimai doversi venir loro in aiuto, affinchè, svegliati, veggano e comprendano quale, e di quanta ammirazione degna, sia la nostra città.

E così, nell’anno della Natività di Nostro signor Gesù Cristo 1288, ventesimo sesto di Governo del Venerabile Padre Ottone Visconti, Arcivescovo della Chiesa milanese, essendo Podestà il Magnifico e potente cavaliere Giaccone da Perugia, e il signor Matteo Visconti1 Capitano del popolo, ho composto questo libro; l’ho composto dopo avere con grande diligenza e non poca fatica investigata la verità, spontaneamente, senza esservi da alcuno indotto, senza la minima speranza di lucro, ma, direi quasi, per ispirazione divina; affinchè, lette e comprese le lodi di Milano, inspirate alla più pura verità, tutti quanti senz’ombra d’invidia, la amano rendano grazie a Dio; gl’invidiosi o si convertano, o nella propria invidia si contristino e consumino; poi gli stranieri tutti, apprendendo la nobiltà e la dignità de’ milanesi, imparino a rispettarli e ad onorarli in qualsiasi luogo, ad amarli e proteggerli; infine i miei concittadini, considerando di qual patria sian figli, non degenerino mai dalla sua nobiltà, non la disonorino con riprovevoli azioni.

Qui taluno dirà: «bada, chè, talora le buone intenzioni possono produrre cattivi effetti: qualche tiranno straniero, nelle cui mani sia per avventura pervenuto questo libro, conosciuta la grandezza di Milano, potrebbe inebriarsi al punto da concepire il disegno di rendersene padrone».

No, io rispondo: l’amore della libertà e la protezione dei corpi santi (giacenti sotto la nostra terra) fanno sì che nessuna dominazione straniera possa qui durare se non col consenso de’ cittadini: se n’è avuta la prova a’ tempi nostri. Niun tiranno presuma di apprestarsi qui una sede di dominio; sarebbe come se volesse prender l’anguilla per la coda; quando bene credesse d’averla salda in mano, se la vedrebbe sfuggire d’un tratto.

Una fama universale esalta, fra tutti i paesi del mondo, la Lombardia, e per la sua posizione, e per la frequenza dei luoghi abitati e la densità degli abitanti, e per la bellezza e la fecondità delle sue pianure; e fra le città di Lombardia esalta Milano, come rosa o giglio tra’ fiori, cedro nel Libano, leone tra i quadrupedi, aquila tra gli uccelli; la esalta in tutte le lingue. Nè ciò deve far meraviglia, giacchè essa è invero superiore a tutte le altre città. Si considerino la posizione, la qualità e la quantità degli edifici e degli abitanti del suo esteso contado e della sua diocesi, e l’abbondanza di tutto quanto è necessario alla vita degli uomini; si considerino la sua forza, la sua tenace fedeltà, la sua benedetta libertà, e la copia delle dignità sue, ed essa, a confronto delle altre città, sarà come il sole tra i pianeti celesti. Che poi sia la più adatta come sede del Papato, con buona pace dei Romani, dimostrerò a suo luogo.

Io mi accingo a dir cose stupefacenti sia per gli stranieri che per i cittadini; sì, anche per questi, non faccia meraviglia, giacchè tale è la grandezza di questa città che agli stessi suoi figli non sarà facil cosa comprenderla per intero.

Per farmi più facilmente intendere, distinguerò subito i capitoli di questo libretto, che sono otto: il primo riguarderà la situazione della città e del contado di Milano, il secondo gli edifici, il terzo gli abitanti, il quarto la fertilità del suolo e l’abbondanza d’ogni ben di Dio, il quinto la potenza, il sesto la tenace fedeltà, il settimo la libertà, l’ottavo la dignità.

DIVISIONE DEL CAPITOLO PRIMO

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I. Del nome di Milano. – II. Del clima. – III. Dell’abbondanza e dell’importanza delle acque.

Elogio di Milano per la sua posizione

La fiorente nostra città, situata in una bella, fertilissima pianura, che gode d’un clima mite e produce tutto quanto è alla vita necessario, tra due mirabili fiumi equidistanti, il Ticino e l’Adda, non senza ragione adottò il nome di Mediolanum, che vorrebbe dire: “posta in mezzo a due fiumi (amnes)”. Certuni, strano invero, sostengono che tal nome derivi dall’esservisi trovata una troia lanuta a mezzo il dorso2; in antico fu pur chiamata Alba perchè meno macchiata di vizi, era la candida fra le altre città.

I. Come fosse fondata dai Galli è narrato dalla Storia lombarda3; per il che a tutta la regione fu dato il nome di Gallia Cisalpina.

II. – Le stavan forse intorno paludi o putride acque corrompenti l’aere con nebbie e fetori? No davvero, ma limpide sorgenti e fiumi fecondatori. Posta nel mezzo di una pianura soleggiata, ha l’aria mite e sana: non eccessivo il freddo d’inverno nè il caldo d’estate; non è vicina alle spiagge del mare dove d’estate il calore è insopportabile dall’ora nona del giorno fin verso la mezzanotte, quindi fin verso le tre spira una fredda, e nociva brezza marina.

III. – Entro la città non sono cisterne nè lunghi condotti d’acqua; ma acque vive naturali, eccellenti a bere, salubri e così abbondanti in tutte le stagioni che in ogni casa, appena decente, si trova una fonte d’acqua viva chiamata pozzo. In seguito ad una indagine diligente, se pure non perfetta, ho potuto accertare che più di 6000 fonti vive forniscono acqua ai cittadini4; tra le quali moltissime ve ne sono le cui acque hanno al gusto un grato sapore, e son sì sottili che, poste in recipienti di legno o in ampolle di vetro, in poco tempo tutte le imbevono. A chi ne beva a sazietà esse non dànno alcun fastidio, ma per la loro leggerezza e sottigliezza subito penetrano attraverso i pori e vengono digerite.

Anche nel contado sono fonti d’acque limpidissime e in alcuni luoghi così fredde che, se nell’estate vi si pongono bottiglie di vino a rinfrescare, il freddo le fa crepare se non si ritirano a tempo. Nessuna città del mondo è così ricca d’acque: non esito a proclamare che questo solo e sì copioso tesoro val più che tutto il vino e l’acqua insieme di certe altre città. E, sicuro di non errare, aggiungo che molte città pagherebbero più di dugentomila marchi d’argento per avere, se fosse possibile, tre sole delle nostre fonti.

Nel nostro territorio è, come ciascun vede, abbondanza di biade, di vino, di legumi, di frutta, d’alberi, di fieno e d’ogni bene. In conclusione, e per il clima, e per le acque, e per la bellezza e la fertilità della pianura, non potrebbe Milano esser meglio situata: lo provano all’evidenza e il gran numero di vecchi decrepiti che vi si incontrano, e, per grazia di Dio, il continuo aumento delle nascite, della popolazione e della prosperità.

DIVISIONE DEL CAPITOLO SECONDO

GLI EDIFICI DI MILANO.

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I. Numero delle case. II. Numero dei coperti pubblici. III. La Corte del Comune. IV. Forma della città. V. Il fossato e i sobborghi. VI. Porte principali e secondarie. – VII. Numero delle chiese e degli altari. – VIII. Numero delle chiese dedicate a S. Maria, dentro e fuori. IX. Numero dei campanili e delle campane in città. – X. Numero e qualità dei borghi.- XI. Numero delle chiese nel contado di Milano, ecc.

Elogio di Milano pei suoi edifici

I. – Le vie urbane sono abbastanza larghe, vi son bei palazzi e molte case private di decoroso aspetto. Le case con ingresso dalla strada ammontano, come si è potuto accertare, a circa 12.500, e tra queste ve ne son molte dove abitano parecchie famiglie con numerosa servitù, il che dà un’idea delle densità della popolazione.

II. I coperti, come volgarmente si chiamano, nelle piazze pubbliche raggiungono il numero di 605.

III. – La Corte del Comune, degna di sì grande città, ha una superficie di dieci pertiche. Per farmi meglio intendere, dirò che da oriente a occidente misura 130 cúbiti, e da settentrione a mezzodì 136. Vi sorge nel mezzo un magnifico palazzo, e vi s’innalza una torre con quattro campane del Comune. Nel lato orientale è un altro palazzo, sede del Podestà e dei giudici, e alla estremità settentrionale del medesimo è la cappella del Podestà, dedicata al beato Ambrogio, nostro Patrono. La piazza è chiusa da altri palazzi a settentrione e a occidente. Nel lato di mezzogiorno è un atrio dove si proclamano al pubblico le sentenze dei condannati6.

IV. – La città ha forma circolare: la sua rotondità è simbolo della perfezione7.

V. – Il fossato, bellissimo, molto largo, che la circonda non è un padule nè un putrido stagno, ma è alimentato da fonti vive, popolato di pesci e granchi. È munito da un forte muro il cui circuito, in seguito ad accurate misurazioni, è risultato essere di 10.141 cúbiti. La sua larghezza, durante tutto il percorso intorno alla città, di cúbiti 388.

Al di là del muro del fossato si addensano tante abitazioni suburbane che esse sole basterebbero a formare una città9. Ricordiamoci che il cúbito, di cui ho parlato, misura due piedi per lungo e due dita per largo d’un uomo di grande statura. Si visitino pure tutte le città del mondo: difficilmente si troverà un’opera altrettanto mirabile.

VI. – Le porte principali della città, bene munite, son sei; dieci le secondarie, che si chiaman pusterle, tutte costruite su solidissime basi. Ciascuna delle principali ha due torri, non però finite, basate anch’esse su fondamenta fortissime.

VII. – Le chiese, appropriate alla magnificenza della metropoli, sono, solo in città, circa 200 con 480 altari. Chi vuol farsi un’idea del vero vada alla chiesa di S. Lorenzo che si dice sia stata costrutta da una regina, chiamata Galla Patrizia10, con 16 colonne all’esterno: tutte le altre non son meno ammirabili dentro e fuori, o non trovano, o trovano almeno ben di rado, le uguali nelle altre città. È poi singolare la venerazione in cui è tenuta nella nostra città la Vergine Maria.

VIII. – Ad essa sola sono intitolati; 36 chiese in città, e certo più di 240 nel contado.

IX. – S’innalzano in città fabbricati a mo’ di torri, circa 120 campanili con più di 200 campane. Mi astengo dal precisare il numero enorme degli uni e delle altre nel contado.

Se qualcuno infine volesse concedersi il piacere d’abbracciare con una occhiata la forma della città, la quantità e la bellezza dei palazzi e delle case private, salga sulla torre della corte del Comune; di lassù, dovunque volga lo sguardo, vedrà stupefatto cose stupefacenti.

X. – Nel contado s’incontrano luoghi ameni, deliziosi e cinquanta fiorenti borghi tra i quali è Monza, distante dieci miglia dalla metropoli, più degna del nome di città che di borgo.

Alla giurisdizione del nostro Comune son sottoposte centocinquanta ville con castelli, delle quali molte son abitate da più che cinquecento uomini atti alle armi. Nei borghi come nelle ville non risiedono solo contadini ed artigiani, ma anche famiglie di eletta nobiltà. Degli altri luoghi abitati, che si chiaman molini o cassine, non è possibile calcolare il numero tanto esso è grande.

XI. – Son poi nelle campagne altri borghi e ville e castelli dei quali alcuni son sottoposti all’Arcivescovo o ad altre Autorità ecclesiastiche di Milano, altri sono sottratti alla giurisdizione di qualsiasi Comune, altri infine, per diverse ragioni, non son compresi nel computo fatto sopra. Così le pievi: di Porlezza con 62 ville, Lania con circa altrettante, Valsassina con 54; nove ville soggette al borgo di Lecco, 23 a quel di Cannobio; la valle di S. Martino con 25 ville, la Valsolda con 11, il Vergante con 40, le due valli di Blenio e Leventina, entro la nostra diocesi, con circa 200 ville; inoltre Tellio, Galliate, Trecate, e anche Campione soggetto all’Abbadia di S. Ambrogio. Tutte queste terre, compresi i borghi e le ville, ammontano a circa 600, e in esse abitano stabilmente, credo di poterlo asserire, più di 30.000 uomini atti alle armi. Vi sono altre ville ancora; ma, basti quanto ho detto11.

XII. – All’infuori della città, si contano nella diocesi più di 2050 decorose chiese, con più di 2600 altari.

È davvero ammirando lo spettacolo che offrono nella nostra grande città e nel suo contado le innumerevoli e belle case, le chiese devote, i borghi, le ville, i municipi, i molini, le cassine, le case religiose, le canoniche, e i monasteri fra i quali s’impone all’ammirazione universale quello di Chiaravalle12; e inoltre gli orti, i frutteti, i prati, le vigne, i pascoli, i boschi, i fiumi, le sorgenti, gli eremi.

Nel nostro contado non son paludi che infestino l’aria giacchè, per un tratto di cento miglia, il suolo è inclinato da settentrione a mezzodì. Or dunque chi ben consideri tutte queste fortune non troverà, girasse il mondo intero, un simile paradiso.

DIVISIONE DEL CAPITOLO TERZO

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I. Qualità dei cittadini. – II. Numero degli uomini secolari nella città e nel contado. – III. Numero delle canoniche e delle Corti regolari. – IV. Numero delle cappelle. – V. Numero dei conventi. – VI. Numero degli ospedali. – VII. Numero delle case degli Umiliati. – VIII. Numero dei monaci di S. Agostino. – IX. Numero delle case dei poveri. – X. Numero dei frati abitanti con la famiglia. – XI. Numero di tutti gli esclusi dal regime secolare. – XII. Numero delle bocche in Milano e contado. – XIII. Numero delle parrocchie della città.- XIV. Numero di tutti gli abitanti della città. – XV. Numero dei fanti nella città. – XVI. Numero dei cavalieri nella città. – XVII. Numero dei leghisti e decretisti. – XVIII. Numero dei notai. – XIX. Numero dei servitori. – XX. Numero dei trombetti. – XXI. Numero dei medici detti fisici. – XXII. Numero dei chirurghi. – XXIII. Numero dei maestri di grammatica.- XXIV. Numero dei dottori in canto ambrosiano. XXV. Numero dei maestri di leggere e scrivere. – XXVI. Numero dei scrivani. XXVII. Numero dei fornai. – XXVIII. Numero dei tavernieri. – XXIX. Numero dei marinai. – XXX. Numero dei pescatori in laghi e fiumi. – XXXI. Numero degli albergatori. – XXXII Numero dei fabbri ferrai. – XXXIII. Numero dei fabbricanti di sonagli. – XXXIV. Dei Capitani e Valsassori ed altri nobili, e quanti vanno a caccia con astori e falconi. – XXXV. Numero delle lapidi sepolcrali

Elogio di Milano riguardo alla popolazione.

I. Anche rispetto alla popolazione, Milano è prima fra tutte le città del mondo. I nativi d’ambo i sessi sono d’una statura piuttosto alta, ilari e benigni nell’aspetto; sono sinceri e incapaci di trattar con malizia i forestieri, perciò anche fra genti straniere sono più apprezzati di altri. Vivono con decoro e con ordinata larghezza. Vestono con eleganza; dovunque si trovino, o in patria o fuori, sono abbastanza larghi nello spendere, dignitosi, piacevoli nel loro tenor di vita.

In tanta varietà di linguaggi, il loro è tra i più facili ad essere parlato e ad esser compreso. Così pure il loro aspetto basta a farli riconoscere in mezzo a qualsiasi gente… Sono più d’ogni altro popolo religiosi…13 Insomma, non sono essi fra tutti i popoli i più degni di stima?

A questo punto qualcuno domanderà: «perchè tanto esalti le doti dei milanesi? non è forse a tutti noto come fra loro allignino gli odii, i tradimenti, le discordie civili, le violenze? Tu hai torto». Ed io rispondo: questo argomento non ha valore, come non lo avrebbe quest’altro: fra i dodici apostoli furon dissensi, fu il tradimento di Giuda, ci fu anche chi negò tre volte Cristo; – son forse per questo gli apostoli meno venerandi?

Qualcun altro domanderà ancora: «perchè mai, se i milanesi possiedono le qualità che tu decanti, la loro bontà non vale a reprimere tante nequizie?» Ed io rispondo: perchè troppo spesso i figli delle tenebre sono nelle iniquità più intelligenti e scaltri che i figli della luce, nelle buone opere. Lascio ora questo al vostro giudizio e proseguo a trattare il mio tèma.

II. – Nella città e nel contado, o distretto che dir si voglia, ogni giorno la popolazione aumenta e i fabbricati si estendono. E come non dovrebbe la popolazione aumentare dove si vive tanto bene? Epperò, tra cittadini e forensi d’ogni condizione, si contano complessivamente più di duecentomila uomini atti a combattere in guerra. Sono da questo numero esclusi gli individui di diverse qualità esenti dalla milizia: monaci, canonici ed altri ecclesiastici e religiosi, o professi o viventi nelle proprie case co’ loro famigliari. E son tanti che basterebbero a formare una provincia anche di molto estesa: dirò, per darne la prova, cose straordinarie, ma non lontane dal vero.

III. – Infatti nella città son dieci canoniche, esclusa quella della Cattedrale; nel contado settanta, escluse le sette degli Umiliati, e ventuna curie regolari.

IV. – Inoltre, solo nella città, si trovan novantaquattro cappelle: quelle di fuori le conti chi può e ne troverà più di settecento. Tutte queste canoniche, curie regolari e cappelle mantengono beneficiari con redditi adeguati.

V. – Sono entro la città sei conventi di frati, otto di monache: nel contado si contano, complessivamente, almeno cinquantaquattro conventi d’entrambi i sessi, gran parte de’ quali è prospera sia pel numero de’ conventuali che per l’abbondanza dei redditi.

VI. – Esistono nella città e nel suburbio, il quale è sempre sottinteso quando si parla della città, dieci ospitali per malati, forniti di rendite discrete, tra i quali primeggia l’ospedale del Brolio, ricco di cospicui possedimenti, fondato nel 1145 da Goffredo da Bussero, dove, secondo precise informazioni date dai frati e decani ad esso addetti, trovansi talora, e specialmente in quaresima, quando se ne fa la rassegna14, più di cinquecento infermi a letto e più che altrettanti non obbligati al letto. Questo ospedale provvede anche all’allattamento di trecentocinquanta, e più, bambini affidati fin dalla loro nascita ad apposite balie. Tutti gli infermi poveri, eccettuati i lebbrosi ai quali è destinato un altro ospedale15, vi trovano letto, abbondante vitto e affettuose cure. I poveri che hanno bisogno di operazioni chirurgiche vi sono premurosamente curati da tre chirurghi speciali, stipendiati dal Comune. Nessuno, in fine, che sia afflitto dalla miseria, batte invano alla porta del Brolio.

Gli ospedali del contado son circa quindici.

VII. – Sono nella città e nel contado duecentoventi case di Umiliati del secondo ordine d’ambo i sessi, dove moltissimi attendono, ad un tempo, alle pratiche religiose e ai lavori manuali. La principale è la casa di Brera16. Sette sono, come abbiam detto, le canoniche di quest’Ordine.

VIII. – Non meno di sessanta conventi per entrambi i sessi vi possiede l’Ordine del beato Agostino, i quali dipendono direttamente dal Pontefice o da commissari da esso delegati.

IX. – Abbondano anche i conventi di regolari votati a povertà; il principale, per numero di conviventi, è quello dei Predicatori; vien poi quello dei Minori che ha alle sue dipendenze nove case nel contado: seguono gli Eremitani e i Carmelitani, ed altri diversi Ordini che ricettano più di quattrocento religiosi. Tutti vivono di elemosina17.

X. – Esistono anche alcuni monasteri di donne votate a povertà tra i quali quello di S. Apollinare, dell’Ordine francescano, si distingue per il numero, per la nobiltà, per l’onesta e santa vita delle religiose.

Che dirò degli altri Ordini monastici come dei cavalieri di S. Maria, del terzo Ordine degli Umiliati, di quei della Penitenza, che vivon co’ propri famigliari e, fra la città e il territorio, contano più di settecento affiliati? Tralascio anche di parlare del numero delle donne ascritte a questi Ordini e di tutti gli altri che vestono abito religioso. Dei quali alcuni hanno fatto dedizione di sè o dei propri beni a monasteri, oppure con abito di conversi vi prestano servizio; altri servono presso le chiese, altri vivono da eremiti o da reclusi, assistiti da conversi, o in qualunque altro modo sono esclusi dal ceto dei secolari. Di tutti costoro rinuncio a parlare specificatamente.

XI. – Questo però posso in generale e con sicurezza affermare che, entro la città e fuori, compresi i preti e chierici vestenti l’abito, più di diecimila religiosi, escluse le donne, vivono di pane ambrosiano. Ai loro meriti e alle loro preghiere si deve l’aver Dio salvata la nostra città da tanti pericoli.

XII. – Questo fiorir di comunità religiose è una prova evidente della bontà dei cittadini. Ed ora che dirò della enorme popolazione di Milano e del suo contado?

Qui bisognerebbe tacere e lasciare che chi è capace di contarla la conti. Ma io, perdonatemelo, qualche cosa vo’ dire, giacché, secondo un mio calcolo (che molti asseriscono essere esatto), più di settecentomila bocche d’ambo i sessi, contando anche i bambini, vivono sulla superficie dell’ambrosiana terra cui Dio largisce ogni giorno (e pare un miracolo) ambrosiani alimenti.

XIII. Non sarà giusto il mio calcolo quando solo nella popolosissima città son centoquindici parrocchie tra le quali ve n’ha sicurissimamente alcune che noverano più di cinquecento Famiglie, ed altre che ne comprendono circa mille?

XIV. – Del resto, ripeto, chi vuol contare quante bocche umane popolano sì grande città, lo faccia. E quando avrà esaurito il conto ritengo per certo ne avrà trovate più di dugentomila giacché diligenti investigazioni hanno provato che nella sola città si consumano, comprese le tempora, più di mille e dugento moggia di grano come attestano gli esattori dei tributi pagati dai mulini sul grano macinato.

XV. – Chi vuol conoscere il numero dei combattenti in tempo di guerra sappia che in Milano vivon più di quarantamila persone atte a maneggiar contro il nemico la lancia o la spada.

XVI. – Se volete sapere quanti cavalieri la nostra città può mettere in campo, vi dirò che da essa e dal contado si potrebbero levare, a un ordine del Comune, diecimila cavalli atti alla guerra.

Ed ora, affinché la verità di quanto ho fin qui affermato risulti evidente anche per altra via addurrò nuovi argomenti.

XVII. – Vivono nella sola città centoventi dottori in ambe le leggi il cui Collegio, e per numero e per sapienza, non si creda abbia pari nel mondo. Sempre essi son disposti a dar consigli ai litiganti, e volentieri accettano ricompense in denaro.

XVIII. – Più di millecinquecento sono i notari, e moltissimi sono ottimi estensori di contratti.

XIX. I messi del Comune, volgarmente detti servitori, sono sicuramente seicento.

XX. – Il Comune mantiene sei tubatori principali, uomini egregi ed onorevoli, che, ad onore della loro grande città, tengon cavalli e conducono vita decorosa al pari dei nobili. Per la loro abilità si distinguono da tutti i tubatori del mondo. Non si è mai, in tutto il mondo, sentita una fanfara così terribile e così appropriata al tumulto della guerra come la loro, la quale esprime ad un tempo la grandezza ed il valore della nostra città.

XXI. – I medici, volgarmente detti fisici, sono ventotto.

XXII.- I chirurghi, di varie specialità, più di centocinquanta, dei quali molti, già essendo eccellenti medici, hanno appresa, la chirurgia per antica tradizione di famiglia, e non si crede abbiano pari nelle altre città della Lombardia.

XXIII. – Otto sono i professori di grammatica e ciascuno ha sotto di sè una copiosa scolaresca; e insegnano con grande studio e diligenza; e superano (io stesso l’ho verificato) i maestri di altre città.

XXIV. – Ai quattordici espertissimi maestri di canto ambrosiano si deve se tanti chierici si trovano nella nostra città.

XXV. – Più di settanta i maestri elementari.

XXVI. – I copisti, quantunque in Milano non esista una Università degli studi, superano i quaranta, e, trascrivendo ogni giorno libri colle loro mani, si guadagnan la vita.

XXVII. – Trecento forni, come si sa dai registri del Comune, cuociono in città il pane per il pubblico. Molti altri, credo più di cento, sono riservati ai monaci ed ai religiosi d’ambo i sessi.

XXVIII. – Le botteghe dove si vende al minuto un numero infinito di mercanzie sono certo più di mille.

XXIX. – I macellai ammontano a più di quattrocentoquaranta e ne’ loro macelli si vendono copiosamente ottime carni d’ogni genere di quadrupedi, conforme ai nostri gusti.

XXX. – Più di diciotto pescatori pescano ogni giorno nei laghi del nostro contado ogni genere di pesci, trote, dentici, capitoni, tinche, temoli, anguille, lamprede, granchi, infine ogni qualità di pesce grosso e minuto; più di sessanta pescan ne’ fiumi; coloro poi che portarono alla città il pesce delle infinite acque correnti assicurano di essere più di quattrocento.

XXXI. – Oltre centocinquanta sono gli albergatori.

XXXII. – Circa ottanta i maniscalchi, e questo numero dà un’idea della frequenza di cavalli e cavalieri. Non starò a dirvi quanti siano i fabbricanti di selle, di freni, di sproni e di staffe.

XXXIII. – Sono in Milano più di trenta fonditori di quelle campanelle dal suono dolce che si appendono al collo dei cavalli, e non so che si fabbrichino altrove, e ognuno ha sotto di sè molti operai.

Credo che farei stupire i lettori se volessi descrivere il numero degli artefici d’ogni genere, dei tessitori di lana, di lino, di cotone e di tela, dei calzolai, dei lavoranti in pellami, dei sarti, dei fabbri d’ogni maniera; se volessi parlar dei mercanti che percorrono pe’ loro negozi ogni regione del mondo e prendono parte ragguardevole in tutte le fiere, e de’ rivenditori, e dei venditori all’incanto. Son queste cose tanto note fra noi che basta averle accennate, e bastano a far comprendere la densità della popolazione e la folla dei forestieri accorrenti alla nostra città18.

XXXIV. – Neppur vo’ parlare delle diverse classi che popolano il contado: quanti vi sian nobili, di insigne prosapia, quanti dottori nelle varie arti, quanti medici, mercanti, agricoltori e artefici d’ogni genere: lo immagini chi può. Dirò una cosa sola, pur tacendo le altre: che, tanto nella città quanto nel contado, son moltissimi uomini d’alta nobiltà de’ quali una gran parte chiamansi valvassori da valvae (porte), giacchè, quando gli Imperatori romani si trovavano a dimorare nel pretorio ambrosiano, era proprio della dignità loro il far da portieri nella Curia imperiale. Altri, di maggior nobiltà, si chiamano Capitani, da capo, dacchè eran capi delle pievi19. Oltre a, questi due Ordini, altri molti ne esistono di nobili stirpi. Chi vuol meglio rendersi ragione della verità sappia che fra i nobili della città e del contado ve n’ha più di cento che allevano per loro svago astori e falconi. Innumerevoli sono poi gli sparvieri riservati alla caccia20.

XXXV. – Prima di chiudere questo capitolo dirò che i nostri concittadini come in vita così in morte mantengono alto il decoro, e si fanno seppellire con pompa. Fanno di ciò testimonianza le più di duemila urne, o di marmo, o di selce, o d’altra pietra, che si trovan nella sola città, così nelle chiese come negli annessi cimiteri, urne con coperchi della medesima pietra, tutti d’un pezzo. Ve n’ha parecchie valutate oltre venti marche d’argento.

Abbiamo ormai descritto la grandezza di Milano rispetto alla posizione, agli edifici e agli abitanti. Passiamo ora a trattare del resto.

DIVISIONE DEL CAPITOLO QUARTO

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I. Quantità del grano e dei legumi e quante paia di buoi lavorino i nostri territori. II. Quantità degli alberi fruttiferi. III. Quanti carri di ciliegie entrino talora in città, e degli altri frutti. – IV. In quanti modi si confezionano le castagne. – V. Orti e verzieri. VI. Dei prati e del raccolto del fieno. VII. Delle vigne e del raccolto del vino. VIII. Utili prodotti che si raccolgono presso le vigne. IX. Delle selve e de’ boschi e della quantità di legna che ogni anno si consuma a Milano. – X. Alcune facezie. XI. Dell’abbondanza delle altre vettovaglie e prima dell’abbondanza delle carni e quanti buoi si macellano in città. XII. Quantità de’ gamberi che si mangiano solo in città. XIII. Quantità dei pesci. Nomi de’ nostri laghi e fiumi. – XIV. Quanti siano i molini e quante ruote contino. – XV. Degli altri fiumi e sorgenti. – XVI. Quantità mirabile delle nostre acque. Quantità di altri generi; e del sale e del pepe. – XVII. I mercati. – XVIII. Fecondità della razza. XIX. Abbondanza dei beni spirituali. XX. Dei santi Barnaba, Anatolone, Gaio e Ambrogio, arcivescovi di Milano. – XXI. Degli arcivescovi e loro successori. – XXII. Dei frati predicatori e minori. XXIII. Numero del corpi santi.

Elogio di Milano riguardo alla fertilità e all’abbondanza d’ogni genere.

L’eccellenza di Milano per la fecondità del territorio e l’abbondanza d’ogni cosa utile agli uomini appare ormai chiara; ma la voglio spiegare in modo ancor più chiaro.

I. – I nostri fertili territori producono ogni sorta di granaglie: grano, segale, miglio, panico, onde si intride il paniccio, ed ogni genere di eccellenti legumi da cuocere, fave, ceci, fagiuoli, lupini, lenticchie, e il tutto in tanta copia che non solo basta a supplire al difetto di vettovaglie di cui soffre Como21, ma ne avanza da mandare al di là delle alpi. Questa esportazione è stata da molti accertata, e nessuno potrà sospettare di essere ingannato quando pensi che più di trentamila paia di buoi sono impiegati nella coltivazione dei nostri territori. Si ricavan pure dai campi rape e navoni che offrono un cibo molto utile a ricchi e a poveri durante l’inverno, e si raccoglie un’infinita quantità di lino.

II – Dai frutteti, dagli orti, dai campi, dalle vigne si raccolgono, a seconda delle stagioni, saporitissimi frutti d’ogni natura.

III. – Le ciliegie, così dolci come agiotte, e domestiche e silvestri, sono in tal copia che a volte se ne portano in città più di sessanta carri al giorno, e dalla metà di maggio fin quasi a quella di luglio si vendono in città a qualunque ora. Altrettanto dicasi delle prugne bianche, gialle, scure, amoscine, che in quantità infinita son messe in vendita, mature, dai primi di luglio sino ad ottobre. Quasi nel medesimo tempo che le prugne, cominciano ad apparire abbondanti le pere e le mele estive, le more e i fichi che si chiaman fiori; seguon le nocciuole domestiche, quindi le corne che più si confanno alle donne22, le giuggiole e le pèsche abbondantissime, fichi d’ogni qualità ed uve; un po’ di mandorle, nocciuole silvestri; di noci è un’abbondanza incredibile e i cittadini, cui piacciono, ne fanno un uso continuo durante tutto l’anno: le impastano triturate con uova e cacio e pepe e ne fanno un ripieno per le carni durante l’inverno; ne traggono un olio molto adoperato fra noi. Quindi tornan le mele e le pere invernali, e le mele cotogne di cui per tutto l’inverno ed oltre si cibano i nostri cittadini. E vengon le mele granate buone per gli ammalati. Si raccolgono uve d’ogni qualità che son mature verso la metà di luglio e si vendono sino ai primi di dicembre.

IV. – E ci son le castagne comuni e quelle nobili, dette marroni, abbondantissime in tutto l’anno, sufficienti ai cittadini e ai forestieri.

Le nostre famiglie le mangiano cucinate in diverse maniere: le fanno arrostire verdi sul fuoco por mangiarle in fin di tavola in luogo di datteri, e, così fatte, hanno, secondo me, un sapore più gradito dei datteri stessi; le fan cuocere lesse e molti così le mangiano a cucchiaiate; oppure, così cotte, le fanno asciugare e le mangiano molto spesso in luogo del pane. Disseccate prima al sole e poi cotte a fuoco lento, si danno agli ammalati.

In novembre compare una grande quantità di nespole, che spiacciono ai biscazzieri rovinati23. In parecchi luoghi del nostro territorio si raccoglie pure una discreta quantità di olive; e si raccolgon bacche di lauro che col vino caldo son buone per curare il mal di ventre.

Vi sono anche altre qualità di frutta, ma basti quanto ho detto.

La nostra terra non produce datteri, nè pepe nè altri generi oltremarini; il che non mi dispiace giacchè questa roba non nasce se non in luoghi aridi e infuocati.

V. – Gli orti danno, a seconda delle stagioni, copiosi e svariati legumi, cioè, cavoli d’ogni qualità, bietole, lattughe, atrepici, sedani, spinaci, prezzemolo, finocchio, aneto, cerfoglio, anice, nepitella, zucche d’ogni genere, d’orto e silvestri, aglio, porri, pastinace comuni, alfaneria che è una specie di pastinaca della cui radice si fa un ottimo e sano composto24; borraggine, senape, croco, liquerizia, erba cetrina, peplide, papaveri, marrobbio, malvavischio, anagallide, o consolido più grande, enula, ruta, dragontea, latticrepolo (scorzonera) o enula spinosa che un po’ triturata, fatta cuocere e bevuta col vino, si dice sia ottima medicina pel mal di ventre; issopo, che guarisce le infiammazioni di petto, e molte altre erbe medicinali. Anche salvia, menta, basilico, santoreggia, maggiorana e altre erbe odorose. Nei giardini tra l’erbe e il trifoglio sbocciano viole, rose ed altri fiori che dilettano la vista e solleticano l’odorato: fra gli altri la viola mammola, nunzia della primavera, diverse qualità di rose, la malva marina, gli occhi di Cristo e altri fiori variopinti. Vi abbonda la fragola dal bianco fiore e dal rosso frutto così gradita al nostro palato.

VI. – I prati irrigati da infiniti fiumi e ruscelli fecondatori offrono fieno eccellente, e oltre ogni credere copioso, a buoi, giumenti, cavalli, pecore e ad ogni altro genere di bestiame. Per darne una prova porto un esempio che sembrerà incredibile: il solo convento di Chiaravalle raccoglie ogni anno dalle sue praterie più di tremila carri di fieno, gli stessi monaci me lo hanno assicurato. Un’altra cosa sembrerà incredibile, ma, poichè risponde al vero, secondo le affermazioni di quegli stessi monaci, la voglio dire: nel contado di Milano son tanti prati da fornire ogni anno più di dugentomila carri; e, poichè di questo fieno si pascono buoi, cavalli, muli ed asini, ma non certo uomini nè cani, chi potrà mai immaginare l’infinito numero di quei quadrupedi? Nè di solo fieno si cibano, bensì son condotti a pascolare fra erbe fronde, gambi d’orzo, rape ed altro. Le ville poi nutrono bestie da ingrasso e alimentano copiosamente le mense cittadine di latte, uova, miele ed altro ben di Dio. Forniscono anche molta lana ordinaria: quella fina si fa venire da fuori25.

VII. – Le vigne numerose producono vini svariati, sì dolci che aspri; vini salubri, saporiti, chiaretti, bianchi, gialli, rosei o color d’oro, e in tale abbondanza che una sola famiglia può ogni anno raccoglierne più di mille carri, altre più di cinquecento, altre più di cento.

Anche questo parrà incredibile che nel contado di Milano, negli anni buoni, si imbottano più di seicentomila carri di vino: così assicurano parecchi che, fatte diligenti indagini, sono convinti di non sbagliare. Vi sono molte città, ne son sicuro, nei cui territori tutte le viti insieme anzichè produrre le vinaccie onde si preme il nostro vino, non sarebbero in grado di dare neppur quello di cui si ubbriacano i nostri beoni.

VIII. – E si noti che dalle nostre vigne si ricavano in un sol tempo, e in abbondanza, quattro prodotti utili agli uomini: primo il vino, secondo gli svariati frutti degli alberi ai quali vengono addossate le viti; terzo la legna da ardere che si raccoglie ogni anno colla potatura delle viti e degli alberi; quarto, il grano ed altri cereali utili al nostro nutrimento che nascono sotto le viti e le piante.

IX. – Le selve, i boschi e le rive dei fiumi producono legna di rovere per costruzioni e per molti altri usi, e legna da ardere in tanta abbondanza che, solo in città, se ne bruciano ogni anno più di centocinquantamila carri.

X.26 – Vo’ dire una cosa che, agli intelligenti sembrerà un miracolo: l’olio, e anche quello che abusivamente dicesi composito, in qualche parte de’ nostri campi si creano sopra le fave. Inoltre sotto i trepiedi e i piatti nascono le tovaglie e le portate di più qualità sopra le stesse tovaglie. Abbondante nasce l’olio col cui aiuto d’inverno si filan le tovaglie nel fuso, si riducon quindi nell’arcolaio, poi nel gomitolo, quindi si tessono. Di tale verità io son persuaso, quantunque sembri vagare per anfibologiche latèbre. Ho scritto così perchè i ciechi non vedan nulla e i perspicaci, ben riflettendo, capiscano.

XI. – Affluiscono a Milano, come a un ricettacolo di tutti i beni temporali, pane, vino e saporite carni d’ogni qualità. Secondo un accurato calcolo da me fatto col concorso di alcuni macellai, in ciascuno dei giorni in cui è permesso ai cristiani mangiar di grasso si ammazzano, nella sola città, settanta buoi.

Quanti maiali, quante pecore, quanti arieti e agnelli e capretti e quadrupedi d’altro genere, o selvatici o domestici, ogni dì si sgozzino io lo dirò a chi mi saprà contare il numero delle foglie e dei fili d’erba. Abbondano ottime carni di bipedi silvestri o domestici, capponi, galline, oche, anatre, pavoni, colombe, fagiani, ornici27, tortore, anatre selvatiche28, allodole, pernici, coturni, merli, che soddisfano a mensa il nostro appetito.

XII. – Abbondano e miele e cera e latte e giuncate, e ricotte e burro e formaggio ed uova. Abbondano in modo incredibile i gamberi; i pescatori stessi, fatti esattissimi calcoli, dichiarano che, dalla quaresima a San Martino, se ne mangiano ogni giorno in Milano più di sette moggia, e perchè nessuno rimanga in dubbio circa la portata del moggio, sappia che esso da noi vale otto staia e corrisponde al peso d’un uomo di grossa corporatura29.

XIII. – Aggiungi i pesci d’ogni genere che ci forniscono i seguenti laghi e fiumi del contado30: il lago Maggiore coi molti fiumi che ne derivano, i laghi di Biandronno, di Bobbiate31, di Galliate, di Sartirano32, di Cadrezzate33, di Lugano, di Cannobbio, di Monte Orfano34, di Alserio35, di Pusiano, di Mairaga36, il lago di Annone e quello di Santa Brigida37, da ciascuno dei quali esce un fiume. Inoltre i laghi di Segrino, di Mandello, di Lecco. Da tutti questi, e da’ loro fiumi, vengon pesci, in quaresima, ad arricchire le nostre mense.

Ed ecco i nomi de’ fiumi: Adda, Lambro, Spàrzola38, Muzza, Andamen,39, Molgora, Coirono40, Bevera, fiume di Cantone41, di Sartirana, di S. Muzio42, di Lisigerolo43, fossato di Milano, Trono44, Nirone, Vettabia, Ristocano [il fontanile Ristocco], Olona, Olonella, Rifreddo, Rifrigidetto45, Mischia, Lambro merdario [meridionale], fiume di Consiglio maggiore46, fiume della valle di Megiano47, Ticino, Ticinello48, Arno49, Marongia50, Strona, Oncia51, fiume di Travedona, di Ganimella52, fiume della valle di Gemonio53, della valle di Cuvio, di Fromedona54, di Anza55, di Tresa, di Travaglia, della valle di Marchirolo, di Vall’Asca, di Liscate56, di Bienate57, di Cunasino58, Senaqua59, fiume di Anza, di Benca60, di Barasso61, Scairana62 e molti altri ricchi di pesci e gamberi.

La quantità dei pesci ho saputo da persone che sicuramente sono in grado di conoscere il vero: esse dicono che più di quattro some di pesci grossi freschi e più di quattro staia di piccoli si portano ogni giorno, feriale o festivo, in città e sappiate che per soma si intende il peso che può portare un cavallo od un mulo.

XIV. – I suddetti fiumi non danno solo pesci e [coll’irrigazione] abbondante fieno, ma coi loro novecento e più mulini che contano [oltre tremila ruote], alimentano non solo gli ambrosiani… ma anche più di centomila…63.

È noto che una sola ruota di mulino dicono possa macinare ogni giorno tanto grano da dar pane abbondante a quattrocento bocche. Faccia quindi il conto chi vuol sapere a quante bocche ambrosiane Nostro Signor Gesù Cristo largisce il pane quotidiano.

Sono senza dubbio in Italia molte città dove gli abitanti d’ambo i sessi non consumano tanto pane quanto se ne divora a Milano dai soli cani64. E qui bisogna ricordare che i suddetti mulini non basterebbero se molti non mangiassero castagne, panico e fagiuoli in luogo di pane. E non crediate che i molini e le ruote di cui ho parlato siano tutti: ve ne sono molti altri de’ quali non mi è possibile accertare il numero.

XV. – Oltre i già nominati esistono molti altri fiumi e ruscelli; ma non so dire quanti siano.

XVI. – La fecondità delle nostre acque e della nostra terra è tanta che se, per modo di dire, in qualche parte del nostro territorio si formasse un nuovo lago con acque nuove, lo si vedrebbe, cosa invero miracolosa, lo si vedrebbe in poco tempo popolarsi da sè di pesci. Si portano poi da lontano pesci in salamoia di diverse qualità. Si portano lane, lino, seta, cotone e panni preziosi d’ogni genere. I mercanti importano pure sale, pepe e altre spezie oltremarine e gran copia di tutte le merci atte a soddisfare o il bisogno o il piacere degli uomini. E la nostra fortunatissima città, quasi formasse per sè un mondo separato dall’orbe, distribuisce questa roba ad altre città vicine e lontane.

Quanto al sale, i dazieri incaricati di riscuoterne il tributo, fatte diligenti indagini, assicurano che se ne portano in Milano ogni anno circa cinquantacinquemilaottocentotrenta staia delle quali circa una metà rimane dentro le mura a condir le vivande dei cittadini. La quantità di pepe che si consuma da noi è incalcolabile, ma si dice, e comunemente si crede, che Milano ne consumi continuamente tanto quanto due città insieme al di qua del mare65.

XVII. – In Milano si tengono ogni anno quattro mercati generali: il dì dell’ordinazione del beato Ambrogio; il dì di S. Lorenzo; quello dell’Ascensione di Maria Vergine e quello di S. Bartolomeo: ad essi conviene una folla incalcolabile di venditori e di compratori. Si tengono poi altri mercati in diverse parti della città due volte la settimana, il venerdì e il sabato. Del resto, quello che più conta, ogni giorno, non in luoghi determinati, ma in tutte le piazze si vendono clamorosamente quasi tutte le cose necessarie alla vita. Molte fiere si tengono ogni anno, in giorni fissi, nei borghi e nelle ville del contado. In parecchi luoghi si tengono fiere settimanali con grande concorso di mercanti e di popolo. È perciò chiaro che nella nostra città chi è fornito di quattrini vive ottimamente, avendo sotto mano tutto quanto può desiderare.

XVIII. – Ma è anche chiaro che qui qualunque uomo sano, che non sia un buono a nulla, può vivere bene e col decoro adeguato alla sua condizione.

Si noti ancora che qui da noi, come abbondano tutti i beni temporali, così prospera la popolazione. Bisogna vedere nei giorni di festa la folla di nobili e di popolani che vanno a spasso, i chiassosi crocchi di fanciulli correnti senza posa di qua e di là, i gruppi di matrone e di fanciulle, ornate come figlie di re, che passeggiano o si trattengono a conversare davanti alle porte delle case. Chi può dire d’aver trovato al di qua o al di là del mare una gente altrettanto amabile?

XIX. – Ma non meno dei beni temporali la bontà dell’Onnipotente ci fu prodiga degli spirituali.

XX. – Che debbo dire? da un buon principio un buon seguito e un buon fine nel Signore. E valga il vero. L’apostolo Barnaba somministrò per primo la medicina spirituale a questa terra e primo gettò il seme de’ frutti spirituali. Barnaba, venuto, per divino volere, a Milano tredici anni dopo la passione del nostro Salvatore, occupò pel primo la cattedra vescovile, la tenne per sette anni e convertì i milanesi alla religione di Cristo. Quindi insediò al suo posto il beato Anatalone col grado di arcivescovo, conferendogli egli stesso la giurisdizione metropolitana; al quale successe il beato Gajo. Seguiron poi gli altri colle medesime dignità, fra i quali il beato Ambrogio, sommo dottore della Chiesa, che fu, per divina Provvidenza, il dodicesimo arcivescovo, nominato nell’anno 355 del Signore66. Questo grande Pastore, con mirabile energia, purgò la città dalla perfidia degli Ariani.

XXI. – Seguirono fino ad oggi novantadue arcivescovi, tutti uomini d’impareggiabile bontà e sapienza, secondo l’ordine esposto nella loro Cronaca67. La divina Provvidenza ha così, dalle origini fino ad ora, ottimamente provveduto ai bisogni di questa terra.

XXII. – La medesima Provvidenza ha altresì, fin da quel tempo, condotti in Milano gli Ordini dei predicatori e dei minori, che sono i due principali luminari della fede cattolica, domenicani, francescani e anche molti frati degli altri Ordini che ogni giorno, predicando, additano le vie della salute, purgano la città dalle eresie, rinsaldano la fede cattolica nel cuore del popolo, lo confortano coll’esempio e ne accrescono sempre la devozione. Che s’ha a dire di più?

XXIII. – Non parlo de’ corpi dei santi, i quali, come assicura il prete Goffredo da Bussero, venerabile cappellano della chiesa di Rodello68, sono, fra città e contado, sessanta. Non parlo degli infiniti martiri che, sotto Massimiano ed altri imperatori, subirono qui il martirio. Ai loro meriti e alle loro preghiere si deve se la città fu liberata dal dominio di tanti crudeli tiranni. Di ciò abbiamo avute manifeste prove anche ai nostri giorni.

DIVISIONE DEL CAPITOLO QUINTO

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I. Quando e da chi fu fondata la città. II. Della presa di Milano e di altre città fatta da Attila e quante volte fu presa e distrutta Pavia. III. Della presa di Milano fatta da re Lamberto; IV. e da re Alboino; V. e dall’imperatore Federigo I. VI. In quale anno Federigo distrusse Milano e della perdita dei tre Magi. VII. Lamento sulla distruzione di Milano. VIII. In quale anno rientrò il popolo in città e quando cominciò a rifiorire. – IX. Della rotta di Federigo I fra Borsano e Legnano e della morte di lui. – X. Gesta de’ milanesi contro i pavesi. – XI. Della rotta dell’imperatore Corrado che fu detto Conan. XII. Guerre contro l’imperatore Federigo II e i suoi fautori. XIII. Esercito mandato contro di lui presso Camporgnano. XIV. Sua deposizione. XV. Esercito mandatogli contro presso il Ticinello. – XVI. Assedio di Parma da lui fatto, in che modo e in che anno fa battuto e sua morte. XVII. Di Uberto della Croce e della sua figliuola. – XVIII. Viviano. XIX. Fortezza d’animo dei cittadini e saggezza del signor Guglielmo Pusterla. XX. Le armi dei milanesi. XXI. Numero dei fabbricanti di corazze. XXII. Varie pitture sugli scudi e sulle bandiere. XXIII. La vipera dei Visconti. XXIV. Il Carroccio del Comune di Milano e sue prerogative. XXV. Dei trombettieri.

Elogio di Milano per la sua fortezza.

I. – Facile sarà, discorrere della fortezza di Milano. Da quando fu fondata dai Galli, cioè dall’anno 502 avanti la Nascita di Cristo, corrispondente, come nei libri è scritto, all’anno 200 dalla fondazione di Roma, fu moltissime volte combattuta o colla violenza o coll’inganno e, ridotta alla fame e alla disperazione, fu presa talora, come dicono le storie, dai nemici e dovette sopportare inaudite calamità; eppure ha sempre opposto ai nemici una virile resistenza e ne ha trionfato.

II. – E infatti la nostra valorosa città fu presa dal pessimo Attila, re degli Unni, che, dopo lunga guerra, la invase con un immenso esercito, nell’anno del Signore 450, e la distrusse69. Allo stesso modo egli soggiogò Pavia; la quale, sebbene voglia far credere di essere sempre rimasta immune, nell’anno 475, come si legge nelle storie, fu messa a ferro e fuoco da Odoacre, poi un’altra volta dai Goti nel 478; una terza volta fu espugnata da re Alboino, una quarta da re Carlo, nel 706, una quinta dall’imperatore Enrico, nel 1001, che la incendiò70. Insomma essa fu sei volte espugnata e distrutta.

Nel medesimo tempo il tristissimo Attila occupò Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza e quasi tutte le città d’Italia, ma finalmente, così narran le storie, Giano, re di Padova, gli fe’ tagliar la testa; e scontò in questo modo i suoi peccati. Le storie dicono ancora che la nostra città fu tre altre volte in poter dei nemici; una volta tuttavia non perchè sopraffatta, ma perchè ingannata da una falsa offerta di pace; un’altra volta per difetto di difesa; da ultimo perchè stremata dalla mancanza di viveri e priva d’ogni speranza di poterne avere.

III. – E cioè: la prima volta fu presa da re Lamberto, usurpatore del dominio d’Italia. Egli, nell’anno del Signore 570, col concorso di tre re e di molti principi tedeschi, infamemente assediò, per dieci anni, la città con una infinita moltitudine di barbari. Finalmente, disperando di poterla soggiogare colla forza, conchiuse, dolosamente, coi cittadini una pace fittizia, cioè col patto che i milanesi gli permettessero di transitare per la città coll’esercito. E così entrò nella città e, traditi i patti, fece sguainare le spade contro i cittadini e distrusse le mura71. Ma anche in questa occasione, quantunque ingannati dalla falsità del re, i milanesi dimostrarono la loro fortezza, e Lamberto, per giusto giudizio divino, ebbe la fine che si meritava: mentre dormiva fu ammazzato come un cane da un figlio di Ilduino, servo di Dio, e il suo corpo fu dato in pasto agli uccelli.

IV. – Venne poi Alboino, re dei Longobardi, e, non avendo trovata alcuna resistenza perchè i cittadini erano stati in gran numero uccisi da re Lamberto, si impadronì della nostra città. Ed occupò anche Pavia e molte altre città. Ma poco dopo la moglie, fattolo massacrare a tradimento, pose fine al suo furore.

V. – Infine lo scellerato imperatore Federigo I, ribelle alla Chiesa, raccolto, dopo la distruzione di Spoleto, un grande esercito, tribolò per sette anni i milanesi72.

VI. – Infine accampò presso la città colle sue armate composte di quindicimila cavalli e di un numero infinito di fanti, nelle quali erano rappresentate quasi tutte le città della Lombardia, e v’eran toscani mescolati ai tedeschi; v’erano il re di Boemia e moltissimi duchi, marchesi, conti, vescovi e abbati. La città fu da ogni parte circondata. I cittadini, fin che poterono, accanitamente resistettero, ma la cruda fame, compagna di grandi sciagure, capace di per sè di fiaccare, senz’altra lotta, guerrieri indomiti entro le mura delle fortezze, reclamò la resa. Costretti dalla mancanza di vettovaglie, ottenuta da Federigo e da tutti i principi del suo seguito la promessa che la città non sarebbe distrutta, il primo marzo dell’anno 116173 i cittadini si misero nelle mani di Dio e dell’imperatore. Ma l’imperatore invece atterrò le mura altissime e gli edifici e per cinque anni continui angustiò i cittadini; inoltre, e questa fu per noi la più triste umiliazione, il vescovo di Colonia ci rapì, per mandarli ahimè! nella sua città, i corpi dei tre Re Magi che nel 314 il beato Eustorgio aveva miracolosamente portato da Costantinopoli a Milano74. Sì, questa fu proprio la più triste nostra umiliazione, perchè la città fu ricostrutta meglio che prima non fosse, ma il tesoro di sì preziose reliquie è sempre rimasto lontano da noi.

VII. – O Milano, o città insigne, irrorata dal sacro sangue di santi martiri, o Milano che, come leonessa, solevi avere la suprema gloria di fortezza fra tutte le città della Lombardia, perchè giacesti oppressa in tanto obbrobrio di schiavitù? dove sono le alte e solide mura che ti cingevano? dove le superbe torri? dove le consuete feste o i decantati trionfi? La tua arroganza è ora troncata alle radici. Dimmi, forse, insuperbita per la tua immensa fama, non riconoscesti essere la tua grandezza un dono di Gesù Cristo, o furono alcuni tuoi peccati che indussero il Signore a prostrarti umiliata, oppure non a tua colpa va attribuita la tua disgrazia? Ma se questa tua immensa passione, questa tua caduta fossero gli effetti della lotta da te valorosamente combattuta, contro i ribelli della Chiesa, sarebbero per te un tal titolo da tramandare ai posteri la fama del tuo valore.

A rendere ancor più evidente la grandezza della tua virtù valga il ricordo dei seguenti fatti.

VIII. – Liberata dalla schiavitù dopo cinqu’anni dalla tua cattura, subito, quasi non avessi sentito gli effetti di tanta strage, cominciasti a rinnovarti, a rifiorire; ti affrettasti a riordinare le tue milizie; poi, serenamente obliando i passati mali, con vigile cura provvedesti ai bisogni presenti e volgesti securamente lo sguardo all’avvenire. Come la spada fabbricata di saldo e puro metallo, se piegata con forza, riprende da sè, d’un balzo, la sua posizione naturale, così la città nostra, perchè il suo valore, messo alla prova, più luminoso apparisse, si curvò quasi fino a terra, ma, svanita la minaccia dell’imperatore, per naturale impulso, balzò d’un tratto in piedi. E infatti l’anno dopo, 1168, ricuperò le terre perdute e le costrinse a giurare obbedienza ai suoi ordini; e, riparate le sue forze, cominciò a combattere aspramente la prepotenza del medesimo imperatore, e con indomita costanza difese l’italiana città di Alessandria da lui stretta con accanito assedio.

IX. – Nel 1176, il giorno di sabato 29 maggio, il medesimo imperatore invaso furiosamente col suo esercito il contado di Milano, col proposito di distruggere un’altra volta la città, s’accampò a Cairate; ma i milanesi con estremo impeto lo affrontarono tra Borsano e Legnano, lo misero in fuga col suo esercito dopo aver uccisi, feriti o fatti prigionieri gran numero di tedeschi o d’alleati. E fu quella una meravigliosa, memoranda lotta. Inoltre, come raccontano le patrie istorie, con immensa, gloriosa fatica, resistettero a lui e ai suoi fautori, dovunque pugnando come leoni75.

L’imperatore finalmente, nell’anno 1192, trovandosi in Armenia, cadde in un fiumiciattolo e vi trovò, per giudizio divino, la morte76

X – Narrar tutte le gloriose imprese compiute già prima dai milanesi richiederebbe un discorso troppo lungo. Basterà esporne brevemente alcune.

Nel 1109 i milanesi combatterono contro i pavesi quella guerra che oggi chiamasi la guerra di campo77 e li batterono facendo prigioniero persino il loro vescovo. E di nuovo li batterono presso Martinengo78 facendo prigioniera quasi tutta la fanteria. E di nuovo nel 1154, a dispetto dei pavesi e dei loro fautori che combattevano pel trionfo dell’imperatore, riedificaron Tortona da Federico distrutta. Espugnarono poi Cerano, e poco dopo, rotti i pavesi nei sobborghi stessi di Pavia, ne gettaron buon numero in carcere. L’anno dopo assediarono il bello e fortissimo borgo di Vigevano e, battuti valorosamente i pavesi, se ne impadronirono e lo sottomisero. E già prima avevano disfatti i lodigiani79 e avevano distrutto Como, e sgominati i cremonesi e trattine molti prigionieri: e a Carcano messo in rotta con tutto il suo esercito l’imperatore ribelle alla Chiesa romana.

XI. – E bisogna ricordare che prima ancora, cioè al tempo di Eriberto, Arcivescovo della nostra città, l’imperatore Corrado Conan, come si legge nel libro delle imprese de’ milanesi80, a capo di un immenso esercito, aveva posto il campo a tre miglia dalla città e s’era spinto ad incendiare i sobborghi; ma i milanesi gli inflissero tali danni che, stanco e scornato, dovette ritirarsi a Pavia, quindi, incamminatosi per la Germania, fu colto da un malore e si spense81.

Queste e molte altre imprese ampiamente, descrivono le patrie storie. Da Adamo fino ai nostri giorni, e son passati 6501 anni, nessun’altra città situata in pianura, ad eccezion di Roma, la quale si sia trovata in tanti e così gravi frangenti e da tanti e sì protervi nemici sia stata combattuta, ha, per quanto ne so io, così strenuamente resistito come la nostra. E anche maggiore è il suo merito perchè quasi tutti gli stranieri contro i quali essa ha combattuto, dalla fondazione della Chiesa romana fino ad oggi, erano nemici della Chiesa. Per questo, appunto, come si legge nel primo libro «Della edificazione di Milano», anticamente gli imperatori romani, per segno d’amicizia e testimonio di nobiltà e di prodezza, mandavano innanzi alle milizie partenti per la guerra i milanesi col vessillo di mezza lana82.

XII. – Nei tempi moderni Federico II, nel 1218 coronato da papa Onorio III, ma, da quel perfido che era, allontanatosi poi da Dio, e ingolfatosi nell’errore fino a diventar nemico della Chiesa e nostro, e amico dei nemici di Cristo e della Chiesa, tentò con tutte le sue forze di distruggere la nostra città; fece quanto potè, ma alla fine si ebbe quanto meritava. Perduta ogni speranza in Dio, sconfessato e maledetto dalla Chiesa, colpito da un morbo abominevole, un cancro, si dice finisse turpemente, come i suoi peccati esigevano83.

Sento in cuor mio il bisogno di descrivere con quanto sforzo e con quanto valore questa città resistette al suddetto Federigo, dove e quando con pochi armati, con sua grande gloria, ebbe ragione di immensi eserciti. Ma poichè sarebbe troppo lungo il raccontare tutti i particolari, mi limiterò a ricordare brevemente la devastazione e la sottomissione del Vescovado dei Cremonesi e dei loro fautori fatte dai milanesi nel 121784, e la guerra combattuta contro i medesimi nel 1234 a Genivolta, nella quale i milanesi devastarono nuovamente tutto il loro territorio85, e l’aver messo, nel 1239, a ferro e a fuoco i territori di Bergamo e di Lodi, e la completa distruzione di Lodi vecchio dove le sole chiese furono risparmiate86. Taccio d’altre imprese e preferisco rammentare l’invasione del nostro territorio fatta nel 1239 con un esercito di toscani, alemanni, pugliesi, saraceni da Federigo II il quale, distrutto il borgo fortificato di Melegnano, pose gli accampamenti a Locate.

XIII. – L’esercito dei milanesi gli mosse incontro fino alla villa di Camporgnano87 si accampò ad un miglio appena dal campo imperiale. L’imperatore, dubitando del successo d’uno scontro coi nostri, avanzò per quattro miglia verso le cascine di Scanasio e lì pose le tende88.

I milanesi, sempre mantenendosi in posizioni tra la città e il campo nemico, si accamparono a Fontecchio decisi a difendere virilmente la patria e, deviate con somma abilità le acque dei fontanili verso l’esercito nemico, ne allagarono il campo, e lo costrinsero a ritirarsi sulle posizioni di prima di contro alle quali si disposero i nostri. E badate che l’esercito ambrosiano era di gran lunga inferiore a quello dell’imperatore la cui sola cavalleria contava più uomini che presso di noi la cavalleria e la fanteria insieme.

Eppure l’imperatore, dopo aver passato nel nostro contado trentaquattro giorni, sbigottito dalla audacia e dalla costanza dei milanesi, e specialmente della Compagnia dei forti, che erano fanti scelti fra i più robusti ed agguerriti, sprezzanti d’ogni pericolo, perfettamente armati, e avevan giurato di non risparmiare un sol nemico, se ne partì rattristato per la vanità del suo sforzo. I milanesi, esultanti, tornarono alle loro case.

XIV. – Nei due seguenti anni distrussero molti villaggi del Comasco, e si spinsero, tutto incendiando e devastando, fino alle porte di Como. Ma, più mi preme ricordare che quell’imperatore, nemico della Chiesa e nostro, fu dal papa Innocenzo IV scomunicato e privato della dignità imperiale, e da allora in poi i fedeli cristiani non lo chiamarono più imperatore ma il deposto.

XV. Cionondimeno egli, nell’anno medesimo, raccolto un immenso esercito, invase un’altra volta il contado di Milano89 fermandosi sulla riva del Ticinello, disposto a passare il fiume per distruggere dalle fondamenta la nostra città. Subito i milanesi posero le tende sulla riva opposta e, dovunque egli lo tentasse, gli contrastarono il passo. Finalmente, disperando di raggiungere il suo scopo, divise l’esercito in due parti: tenne con sè la maggiore, e l’altra, composta di cremonesi, pavesi e bergamaschi, mandò, sotto il comando di Enzo, suo figlio naturale, ad Abignano, nella parte opposta del contado, perchè varcasse l’Adda nuova [Muzza].

Mossero contro quest’ultimo due Porte della nostra città, la Comasina e l’Orientale90, coi contadini dei borghi e delle ville della Martesana, sino a quel fiume, e si accamparono di fronte ai nemici.

Re Enzo, vedendo che non c’era nulla da fare, una certa notte con tutta la sua cavalleria passò segretamente l’Adda al guado di Cassano, e, aggredite le scarse schiere dei milanesi, fece molti prigionieri. Ma, preso egli stesso dal nostro Capitano, Simone da Locarno, fu rinchiuso nel campanile di Gorgonzola, e dovette patteggiare la sua liberazione colla promessa di rilasciare tutti i nostri prigionieri: rilasciato, a questo patto, fu rimandato al suo esercito, e diede subito ordine di liberare i prigionieri; ma i cremonesi e l’esercito intero si rifiutarono di ubbidire. Quindi si partì colle sue genti. E Federigo, dopo trenta giorni, giudicando impossibile effettuare il suo orgoglioso disegno, deluso e triste, levò il campo.

XVI. – Tre anni dopo assediò Parma [1247], ponendo ogni sua cura nel rafforzare l’esercito, e fondò, laddove si era accampato, una nuova città chiamata Vittoria. Ma Parma era valorosamente difesa da seicento milanesi e da trecento piacentini col legato apostolico Gregorio da Montelungo. Finalmente, coll’assistenza di Dio e il costante aiuto de’ milanesi, si riuscì a battere le truppe di Federigo, moltissimi de’ suoi soldati furono uccisi, moltissimi fatti prigionieri. Il carro dei Cremonesi detto Carroccio fu portato dagli stessi milanesi in Parma; fu presa la città di Vittoria, spogliata del tesoro di Federigo e di tutti gli altri beni, quindi da cima a fondo distrutta. Federigo, vergognosamente vinto, perduti tutti i suoi beni, riparò in Puglia, dove nel 1250, colpito da grave malattia, disperato, scomunicato, privo dei sacramenti, finì la sua vita, commutando, come dice la Cronaca91, la sua morte carnale nella morte eterna.

Solo alcune, non tutte, le valorose gesta dei milanesi ho brevemente narrate. Chi desidera saperne di più legga le storie ambrosiane.

Ma perchè nessuno creda che io abbia deliberatamente taciuto le vergogne e i danni sofferti dalla nostra città, sappia, e creda, se vuole, che, avendo io letto, o udito raccontare le imprese guerresche dei milanesi, quantunque abbia avuto notizia di molte avversità, non ho mai letto o inteso che, quando si son trovati a combattere in pari condizioni coi nemici, siano mai fuggiti, nè che alcun popolo abbia su di loro riportata vittoria. Confesso di aver letto che molte volte la sorte fu loro contraria; ma non c’è da meravigliarsene: quale altra città, sbattuta da tanti e sì impetuosi venti, non ha subito danni? La stessa Roma, pur essendo densa di popolo, di tutto fornita, pur essendo per la sua potenza temuta da re e popoli e famosa in ogni parte del mondo, ha avuto le sue avversità, le sue fughe e ha dovuto soffrire da parte dei nemici catture, ferite, uccisioni e altre offese.

E basta di questo argomento.

Fu detto con quanto valore abbia un tempo combattuto contro i nemici la nostra città. Ora, essendo più ricca di popolazione, di edifici, di vettovaglie, quali re, quali tiranni, qual popolo potranno mai soggiogarla? Nessuno se i cittadini, volgendo a’ propri danni le spade, non vorranno scannarsi a vicenda.

XVII. – A questo punto non so rinunziare a parlar d’un fenomeno meraviglioso. Molti dei miei concittadini d’ambo i sessi, ormai decrepiti, ricordano un nobilissimo uomo, Uberto della Croce, figlio della nostra terra, la cui forza non ha mai trovato l’uguale nel mondo. Di questa forza voglio dare brevemente le prove in tutto conformi alla verità. Era uomo di illustre e potente stirpe, ma la sua maggior potenza stava nella sua vigoria dacchè gli atleti delle altre città appetto a lui erano come fanciulletti di fronte ad uomini fatti. Egli fermava colle braccia cavalli in corsa, e li forzava a restare immobili: portava, su per le scale fino ai piani superiori giumente di mugnai ben cariche di farina o di frumento; stando egli fermo sur un piede, l’altro levato in aria, senza appoggio, nessuno, così dicono, per quanta forza avesse, riusciva a smuoverlo; legato l’un braccio e l’altro presso le articolazioni delle mani, e sei uomini a destra e sei a sinistra tirando, co’ piedi ben puntati a terra, le funi, ei riusciva a portare con ambe le mani il cibo alla bocca; in una certa battaglia, trovatosi solo, accerchiato da una densa turba di pavesi, colla sua terribile clava la mise in fuga. La sua statura era tale che se uno lo guardava davanti parevagli pendesse all’indietro e viceversa.

Era un gran mangiatore: divorava pasti bastevoli per quattro uomini; era capace di mangiare in una sola volta, e con molto pane, almeno trentadue uova fritte in padella. Raramente fece pompa in pubblico della sua forza senza una giusta causa, mai si dice ne abusasse per recar danno altrui; era con tutti cortese. Fioriva costui nel 1215. Ebbe da una concubina una figlia così vigorosa che levava da terra un grande vaso contenente tre staia di vino, al cui peso non avrebbe resistito un uomo, e ne beveva come uno farebbe da un bicchiere.

XVIII. – Si raccontano cose miracolose anche di Viviano nato nel nostro contado, vicino al bel borgo di Lecco92. E si dice che in Milano sian nati molti altri uomini senza pari al mondo, ma a parlarne rinuncio.

Che dirò della forza d’animo dei nostri concittadini d’un tempo? quanti e quali martiri diedero alla fede di Cristo che nella nostra città e altrove riportarono gloriose vittorie? Vitale, nostro concittadino, e Sebastiano che predicarono la fede cattolica, quegli a Ravenna, questi a Roma, meritarono in queste città la corona del martirio. Protasio e Gervasio, figli di Vitale, predicanti a Milano, patirono pure il martirio per la fede di Cristo. Maurilio, vescovo, predicò nell’Anjou, Simpliciano, nostro arcivescovo, colle sue prediche a Roma reintegrò la Chiesa romana, che era divisa da molte eresie, e molti convertì alla fede. Gajo, fustigato, fu da qui mandato in esilio. Castriziano, milite novizio nel campo della religione, ottenne molte conversioni. E Calimero, per aver predicato e convertito infedeli, fu accecato, per la sua fede, flagellato, condannato all’esilio, gettato in un pozzo col capo all’ingiù, ed ebbe infine la corona del martirio. Il beato Materno, cacciati da Tortona gli idolatri, vi predicò, e sostenne per la religione molte avversità. Il beato Dionigi, arcivescovo di Milano, esiliato, gettato in un orrido carcere, fu alfine per la fede di Cristo consacrato al martirio. E il beato Ambrogio, uno dei quattro dottori della Chiesa, ridusse molti sperduti sulla via della verità, convertì il beato Agostino e liberò la nostra città dagli Ariani. Il beato Senatore predicò la religione Cristiana in Oriente. Ambrogio centurione, nostro concittadino, fu martirizzato a Ferentino93. La beata Sofia, oriunda della nostra città, e le sue tre figliuole furono in Roma così insigni predicatrici da convertire più di sedicimila persone d’ambo i sessi. Tutti questi atleti della religione furon nostri concittadini. E ve ne furono tanti altri che se volessi, ad uno ad uno, ricordarli darei noia ai leggitori.

XIX. – Ma non credo si debba tacere che la nostra città generò non solo uomini di singolar forza e valore, ma anche uomini dotati dalla natura di rara saggezza. Tra questi ultimi, che son moltissimi, ne ricorderò uno solo, il nobilissimo cavaliere, nostro concittadino, Guglielmo Pusterla, che molte persone oggi ancora viventi conobbero, il quale, senza aver studiato, ne sapeva più di tutti, dotti e indotti. Quasi tutto quello che un uomo senza studi può conoscere egli conobbe. Non si credeva che nei nostri paesi alcuno gli fosse pari in sapienza, tanto che, quando era Podestà di Bologna, accanto a dottori di leggi, questi, vedendo un uomo illetterato saper tante cose, lo chiamavano per antonomasia “il sapiente de’ laici”94. E altrettanto, se volessi andar per le lunghe, potrei dir di molti altri letterati o illetterati.

XX. – Descritte le virtù militari dei milanesi, vediamo ora la magnificenza delle armi e dei guerreschi ornamenti che portano nelle loro spedizioni. In qual mai città del mondo si può trovare un popolo così decorosamente armato di ferro? Non lo si troverà mai, o ben di rado. Non solo di cavalieri, ma anche di fanti tu vedresti in guerra magnifiche schiere, vestite di armi corrusche; loriche, corazze, lamiere, celate, elmi, elmetti; guanti d’acciaio, collari, gambali, femorali e ginocchiali; fanti muniti di lancie, aste, spade, pugnali, clave, scudi luccicanti; vedresti le schiere di cavalieri splendenti da capo a piedi pel fulgor delle armi; e l’ondeggiar de’ cavalli coperti di splendidi finimenti; tutti guerrieri senza pari, non solo per nobiltà di stirpe, ma anche per dignità di costumi e perizia dell’armi, quali invero si convengono a così grande ed insigne città. Nè ciò fa meraviglia, perché i nostri cittadini, onorevoli uomini, superano tutte le altre genti per civiltà e larghezza e, in tempo di guerra, amano le belle armi e i superbi destrieri e più d’ogni altro bramano possederli. Dov’è un valor naturale, a tempo opportuno si palesa.

Inoltre nella nostra città e nel contado è abbondanza d’armaiuoli che fabbricano senza tregua armature d’ogni foggia, che poi i mercanti portano a vendere, in numero infinito, nelle città vicine e nelle lontane.

XXI. – E infatti i fabbricanti di corazze son più di cento, e ciascuno tien sotto di sè moltissimi operai intenti al mirabile artificio delle «macchie». Innumerevoli sono quelli che fanno scudi ed armi d’altro genere95.

XXII. – Scudi e vessilli portano dipinte insegne diverse secondo le sei porte principali della città. La porta Orientale ha lo scudo bianco con leone dipinto in nero; la Nuova ha quattro quadratelli bianchi e neri: nero il superiore a sinistra e l’inferiore a destra, bianchi gli altri due. La Comasina quadratelli alternati bianchi e rossi [scacchiera]. La Vercellina ha lo scudo bipartito, rosso in alto, bianco in basso. La Ticinese tutto bianco, la Romana tutto rosso.

Altrettanta varietà d’insegne hanno le porte nei loro vessilli, oltre ai quali, quando si raduna l’esercito, altri ne vengono dati dal Comune a ciascuna Porta con croci rosse in campo bianco.

XXIII. – Dal Comune stesso viene offerto ad uno della nobilissima stirpe dei Visconti che ne sembri il più degno, un vessillo con una biscia dipinta in azzurro che inghiotte un saraceno rosso; e questo vessillo si porta innanzi ad ogni altro; e il nostro esercito non si accampa mai se prima non vede sventolare da un’antenna l’insegna della biscia. Questo privilegio si dice concesso a quella famiglia in considerazione delle vittoriose imprese compiute in Oriente contro i Saraceni da un Ottone Visconti, valorosissimo uomo96.

XXIV. – Quando l’esercito intiero muove in campo, è portato fuori un carro da tutti ammirato, il cosidetto Carroccio, coperto da ogni parte di scarlatto e ricco di ornamenti, tirato da tre paia di grandi e robusti buoi coperti di gualdrappe bianche segnate di croci rosse. Dal mezzo di esso si erge un’alta, diritta e bellissima antenna, del peso di quattro uomini, portante sulla cima una croce dorata. Da questa antenna pende, tremolando all’aria, un grandissimo, candido vessillo con la croce rossa i cui bracci raggiungono le quattro estremità. Molti uomini da ogni parte con funi mantengono diritta l’antenna. Il Maestro del Carroccio, onorevole personaggio, cui spetta per tradizione di famiglia questo privilegio, ogni volta che esce dalla città contro i nemici viene così ricompensato: il Comune gli dà subito una corazza e una magnifica spada, poi otto soldi di nostra moneta per ogni giorno di sua permanenza al campo. Il Comune elegge pure e ricompensa un cappellano che ogni giorno celebra, presso al Carroccio, la messa.

XXV. – Il Podestà che governa il nostro Comune è sempre seguìto da sei tubatori di onorevole condizione, ciascuno dei quali ha dal Comune o quattro, o tre, o almeno due cavalli: essi non adempiono solo l’ufficio di tubabori e banditori, ma, quando sia necessario, anche quello di prodi cavalieri ad onor della patria. Due di costoro hanno lo speciale incarico di distribuire le tende all’esercito, e ricevono dal Comune un decoroso stipendio.

Della fortezza della nostra ammiranda città ho detto abbastanza. Più non dico per non tediarvi. Ora passerò a dimostrare la sua costante fedeltà.

DIVISIONE DEL CAPITOLO SESTO

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I. Patimenti sofferti per amor della Chiesa. II. Perdita dei corpi dei tre Re Magi.

Elogio di Milano per la sua costante fedeltà.

I. – Di qual mai città s’è sentito dire che tanto sia stata fedele alla Chiesa romana? Non fu forse per questo che Milano, stretta alla Chiesa romana come la carne all’unghia, ostacolo perenne ai nemici di essa, spessissimo esposta ad assalti formidabili, sopportò la fame, la sete, il freddo, il caldo, fatiche, veglie, ferite, morti, lagrime e lutti, distruzioni, catture, carceri, tormenti, spese, miseria, fughe, incendi, devastazioni, rovine in più luoghi, e la stessa sua rovina? Eppure, tante volte martire, nulla mai valse a farle ripudiare la sua fede. Mentre quasi tutte le città della Lombardia, come si vide chiaro al tempo dell’imperatore Federigo, hanno qualche volta abbandonato la Chiesa, la nostra sola sempre la incoraggiò e la difese.

Nè mai ho letto, o sentito dire che sia stata in alcun tempo ribelle alla Chiesa di Roma; ma le fu sempre amica e, fin dove potè, fautrice. E per questo fu in antico chiamata «seconda Roma», come nell’epigramma:

«Viatore, giunto al varco della porta urbana, esclama: Vale, o seconda Roma, vanto e decoro dell’Impero! O città veneranda, ricolma di ricchezze, te i popoli temono, davanti a te i potenti si inchinano, tu vinci Tebe nel valor guerriero e vinci nel senno Atene!».

Dunque per la fedeltà la nostra Milano merita le più grandi lodi.

II. – Ma ahimè! ahimè! come per questa fedeltà le furon diroccate le mura da Federigo I, così, non per altra ragione, i nemici della Chiesa le rubarono i corpi dei Re Magi che nell’anno 314 il beato Eustorgio aveva portato fra noi. Questa fu la ricompensa del nostro travaglio, la perdita di tanto tesoro per aver combattuto costantemente i ribelli della Chiesa! Guai ai figli della nostra terra se, spogliati di sì preziose reliquie, vorranno danneggiarsi a vicenda anzichè cercare il modo di rivendicare, in forza del diritto ecclesiastico, e con loro grande gloria, quelle divine spoglie. Se fosse a me lecito affrontare i miei superiori, i Pastori che governano la mia città, direi: guai ai metropolitani che hanno trascurato d’invocare il braccio spirituale per esigere la restituzione di reliquie perdute non per colpa dei cittadini, ma per la loro indefessa opera a favore della Chiesa!97.

Dacchè la nostra città fu fondata, cioè dall’anno 504 avanti la nascita del Salvatore, e 200, come ci insegna la storia, dalla fondazione di Roma, io credo che Milano non ebbe mai a soffrire più grande jattura.

DIVISIONE DEL CAPITOLO SETTIMO

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I. Vani sforzi dei tiranni per possedere Milano. II. Libertà del Metropolitano.

Elogio di Milano per la sua libertà.

Non c’è bisogno di un lungo discorso per dimostrare che questa città va lodata pel suo amore della libertà.

È una cosa che sanno tutti. Dacchè si affermò la Chiesa di Dio, Milano non volle mai esser soggetta ad alcuno se non a quella. E servir la Chiesa vuol dire esser liberi.

I. – Tentarono, è vero, non pochi tiranni di stabilir qui il loro dominio, ma la bontà divina, col soccorso di Maria Vergine alla quale son dedicate, oltre la cattedrale, più di dugentottanta chiese in città e nel territorio, coll’intercessione del beato Ambrogio e di altri santi i cui corpi, in numero di sessanta, riposano sotto la nostra terra, dei monaci e delle monache abitanti, in gran numero, la città e il contado, fu spesse volte difesa dalla tirannica rabbia.

II. – Il nostro Metropolitano, che è il primo fra tutti gli arcivescovi, non è soggetto nè al Patriarca, nè ad altri Primati. E i decreti ci insegnano che il Capo della Chiesa milanese e il Patriarca d’Aquileja potevano consacrarsi l’un l’altro98.

DIVISIONE DEL.CAPITOLO OTTAVO

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Dignità di Milano: I. Come sede dell’imperatore. – II. Come luogo dove si incoronano gli imperatori. III. Per la loro presentazione fatta dal nostro Arcivescovo. IV. Per l’indipendenza del medesimo. – V. Pel rito ambrosiano che Carlo tentò di abolire e per il carnevale. – VI. Per la penitenza. VII. Per l’antichità della sede metropolitana e del rito ambrosiano. Quanti furono e quanti sono ora i vescovi soggetti al nostro Metropolitano. Numero degli Arcivescovi di Milano. VIII. Per le grandi dignità conferite ai nostri cittadini, ecclesiastici e secolari. IX. In quante prerogative Milano supera tutte le altre città. X. Due difetti di essa. XI. Milano è gloriosa per sua natura. XII. Significato del nome Mediolanum. XIII. Qualità di quest’opera. XIV. Scuse dell’autore. XV. Invocazione a Milano e ammonimento ai cittadini potenti.

Elogio di Milano per la sua dignità.

Che la nostra città sia gloriosa per la dignità sua procurerò di dimostrare con diversi argomenti, seguendo la via della verità.

I. – Qui, come in una seconda Roma, spesso risiedettero gli imperatori, cioè Nerva, Traiano, Adriano, Massimiano ed altri Gentili, i quali, prima che la Chiesa prosperasse, perseguitavano i Cristiani. Essi, come si legge, ampliarono e abbellirono la città. E in Milano spesse volte posero la loro residenza molti imperatori cattolici dopo il trionfo della Chiesa, come Filippo, Costanzo III, Costante, Costantino, chiamato Gallo, Gioviniano, Valente, Valentiniano, Graziano e, ultimo, Teodosio.

II. – In Milano prendono la corona di re d’Italia gli imperatori romani. Infatti, come si narra in un libro intilotato «Copia di Arnolfo»99, Corrado III fu unto, benedetto e coronato della corona ferrea dall’Arcivescovo di Milano Anselmo da Pusterla, in Monza, dove questa corona si conserva, nella chiesa di San Michele; quindi cinse nuovamente la corona a Milano nella basilica di S. Ambrogio.

All’Arcivescovo di Milano, quando si trovi presente (in Roma), spetta di presentare a San Pietro e al suo Vicario il Re d’Italia destinato ad assumere l’Impero e accompagnarlo in processione stando alla, sua sinistra. Si legge infatti nel libro di Benzo, già Arcivescovo d’Alba100: da una parte il Pontefice e dall’altra l’Arcivescovo ambrosiano accompagnano il Re in processione.

III. Mentre Corrado II, coronato dal nostro Arcivescovo Eriberto, doveva essere per consacrazione apostolica sublimato alla dignità imperiale, l’Arcivescovo di Ravenna, pur chiamato Eriberto, violentando, con temerario ardire, la volontà del Re, tentò di usurpare quella insigne prerogativa. La sua condotta sdegnò profondamente tutti i Presuli presenti. Ne nacque non lieve susurro, cosicchè il Re, domandatane la causa e venuto a conoscenza, del vero, salì d’un tratto sul trono e così parlò: «Certo è, venerandi Padri, che, come la consacrazione dell’Imperatore è privilegio della Sede apostolica, così la elezione e la consacrazione del Re lo è di quella ambrosiana. È quindi indubitato che la mano la quale benedice il Re e prima gli impone la corona sul capo, se è presente, deve pure presentare il Re destinato all’Impero a S. Pietro e al suo Vicario. Esige dunque il diritto che egli divenga Imperatore coll’assistenza ambrosiana dacchè per ambrosiana consacrazione è divenuto Re».

Dopo queste parole l’Arcivescovo di Ravenna, che temerariamente aveva voluto usurpare il primo posto, ne fu, pieno di vergogna, allontanato perchè altri più degno lo occupasse.

Alquanti giorni dopo l’Autorità apostolica convocò una Sinodo nella quale fu decretato che in tutti gli affari pontificali l’Arcivescovo di Ravenna non potesse mai, in alcun modo, essere anteposto a quel di Milano: se lo avesse tentato, dovesse subire la sanzione canonica. Per il che nella diciassettesima distinzione del Decreto si legge: «È pur da notare che in questo Concilio e in una Sinodo di Papa Simmaco si legge che il Vescovo di Milano ha sottoscritto e risposto prima di quel di Ravenna, onde consegue che il privilegio spettava alla Sede (milanese) prima che a lui»101. E Papa Gregorio disse a Siagrio, vescovo di Autun: «Ordiniamo che i vescovi, sia nel sedere in Concilio, sia nel sottoscrivere, e in qualunque azione, si succedano secondo l’anzianità e si valgano delle prerogative spettanti al loro grado»102.

Non stabilì forse la sua sede in Milano l’apostolo Barnaba, primo nostro Pontefice, al quale successero tutti gli altri nostri arcivescovi, mentre a Ravenna fu primo il beato Apollinare, non apostolo, ma solo discepolo degli apostoli? Non fu qui stabilita la Chiesa cristiana prima che in qualunque altra città d’Italia? Non fu forse qui, per opera del beato Ambrogio, oriundo di Roma, istituito il rito ambrosiano diverso dal rito di tutto il mondo? Non fu forse la nostra città sempre amica fedelissima di Roma? Non sopportò per amor della Chiesa romana gravissime jatture versando anche spesso il proprio sangue? Nessuno merita maggior reverenza di chi ha consacrato la propria anima agli amici. Dirò ancora: in che può Ravenna paragonarsi a Milano? A chi mi offrisse, quando fosse possibile, tutta Ravenna colla sua diocesi, io non darei in cambio neppure il clima di Milano e le sue preziose acque.

IV. – Che altro potrei dire intorno alla moltissima dignità del nostro Metropolitano quando si sa che, dopo il Sommo Pontefice, è, fra tutti i Pontefici del mondo, come il più degno degli arcivescovi, primo e indipendente, non soggetto ad alcun Patriarca o ad altro Primate, incorona in Milano i re dei Romani, e li presenta, come ho detto, colla mano destra, a S. Pietro e al suo Vicario, e quando il Papa convoca una Sinodo siede alla destra di Lui?

V. – Il capo del rito ambrosiano diverso da quello di tutto il mondo, è qui come un secondo Papa. Questa liturgia, concessa alla Chiesa milanese per beneficio del nostro patrono S. Ambrogio103, ci fu conservata per un memorando miracolo divino. Si sa infatti che l’imperatore Carlo, figlio di Pipino re di Francia e padre di Carlomagno, voleva, in odio ai lombardi, consenziente Papa Adriano, abolire la liturgia ambrosiana104. Riuscito ad avere, mentre era a Milano, o per dono, o per acquisto, tutti i libri sacri ambrosiani, parte ne fe’ bruciare, parte portò con sè oltre i monti. Finalmente, per miracoloso intervento della clemenza divina, la Curia romana decretò che fosse consentito di celebrare in perpetuo il divino ministero istituito dalla devozione del beato Ambrogio.

Tutti sanno ancora che, come noi godiamo d’una liturgia speciale, così facciamo un carnevale diverso da quello di tutti gli altri popoli. Ed anche in questo si manifesta la gloria e la particolare dignità di Milano.

VI. – La qual dignità si appalesa anche in un altro modo: essendo cioè stato sempre ammesso, fin dal tempo degli antichi Padri, che i milanesi possano far penitenza dei loro peccati senza uscir dalla diocesi, il che, se io non erro, non avviene in alcun altro luogo.

VII. – Inoltre la nostra dignità è di tanto maggiore in quanto Milano ebbe prima di Roma e di tutte le altre città d’Italia la sede metropolitana, gli uffici divini e i sacramenti della Chiesa. Infatti il beato apostolo Barnaba, quattro anni prima che Pietro stabilisse in Roma la sua dimora, cioè tredici anni dopo la Passione di Cristo, fu creato Vescovo di Milano, e sette anni durò nel suo vescovado. Egli elevò agli onori metropolitani i suoi santissimi successori e loro sottopose tutti i vescovi della Lombardia. Furono così in antico molti suffraganei soggetti al nostro metropolitano, ma il loro numero andò scemando colla creazione di altri metropolitani, cosicchè al tempo dell’arcivescovo Giordano eran ridotti a soli diciotto. In seguito ne furono sottratti altri quattro ed ora ne rimangono quattordici105.

E sappiate che dall’apostolo Barnaba fino ad oggi sedettero nella nostra città novantun vescovi, trentuno de’ quali figurati nel numero dei santi confessori, insieme col beato Ambrogio, dodicesimo arcivescovo, uno dei quattro principali dottori della Chiesa, superiore a tutti per sapienza e virtù, che contribuì ad accrescere la dignità e il decoro della nostra città. Egli, come ho detto, compilò la liturgia ambrosiana ventidue anni prima della creazione di quella romana.

VIII. – Per altre vie ancora si manifesta la dignità di Milano: tre dei nostri concittadini divennero sommi Pontefici, Alessandro II, dei Capitani di Baggio106; Celestino, dei Castiglioni107, e Urbano III, dei Crivelli108. E due imperatori romani, Valeriano e Galieno109. Van ricordati anche Pietro da Bussero che fu Legato della Chiesa romana in Ungheria e i Cardinali Pietro da Rho e Galdino da Sala, Uberto Pirovano, Goffredo Castiglioni, Conte da Casate, e Pietro dei Pietrigrossi la cui vita, dedita alla scienza e alla virtù, il Signore conservi ognor più prospera, e, dopo la morte, ne sublimi l’anima al cielo110.

Inoltre moltissimi furon chiamati a reggere diocesi straniere: e di questi nulla dirò. Vive ancora il nobilissimo Patriarca di Aquileja, Raimondo della Torre, oriundo della nostra città111. Che dirò dei tanti nostri eminenti concittadini secolari chiamati al governo di altri Comuni? Ciò si comprende: di nobilissima razza, i milanesi mostran dovunque i frutti della loro nobiltà. Che avverrebbe se, dando tregua ai rancori, si amassero a vicenda e concordi provvedessero al bene della patria? Io sono convinto che facilmente potrebbero governare tutta la Lombardia.

Avete ormai veduto le magnificenze di questa grande città che sempre avanza dal bene al meglio e più avanzerebbe se spontaneamente non si lacerasse con rabbiosi denti.

IX. – Qui è bene dichiarare che, secondo il parer mio, sei sono le particolari eccellenze per le quali Milano va innanzi ad ogni altra città: prima, l’abbondanza di ottime acque; seconda, il numero e l’onestà dei religiosi; terza, la quantità di sapienti inscritti al Collegio dei Giureconsulti; quarta, la liturgia distinta da quella di tutte le altre città cristiane, e il carnevale; sesta, la fedeltà, non mai smentita verso la Chiesa, quale risulta dalla descrizione delle imprese da Milano compiute.

X. – E due sono, se mi è concesso di confessarli, i difetti peculiari alla nostra città: la concordia civile e un porto che possa accogliere navi provenienti dal mare112. Se a queste mancanze si potesse rimediare, ne conseguirebbe il vantaggio d’una gloriosa prosperità. A riparare la prima varranno, spero, i discorsi degli uomini assennati; la seconda facilmente si colmerebbe se i potenti della nostra patria consacrassero alla esecuzione di quest’opera quell’energia che impiegano a distruggersi a vicenda e ad estorcere ai loro concittadini denari per alimentare maligne imprese.

È ormai dimostrato che la nostra città non ha pari nel mondo: che è quasi un altro mondo separato dal resto, che non solo merita di esser chiamata seconda Roma, ma, se mi permettete di dirlo senza presunzione, meriterebbe, a mio giudizio, di divenir la sede del Papato e di tutte le altre dignità.

XI. – Giacchè la nostra città è nobile per natura, mentre altre città non lo sono per sè stesse, ma traggono incremento e gloria dalla frequenza di stranieri, dal richiamo di studi o d’altri allettamenti, senza di che rimarrebbero oscure, come Parigi, Bologna ed altre dove esiste una Università di studi delle Arti liberali. Queste circostanze io non deploro, anzi le apprezzo purchè per esse le donne non divengano impudiche e i mariti non abbiano a mantenere figli altrui credendoli propri. Ma molto di più apprezzo la nostra Milano dacchè non per concorso di stranieri, ma per virtù propria è prospera e grande. E tanto più lo è in quanto la sua natural vigoria contribuisce a far prosperare altre città straniere, qual’è Como, e fino al di là delle Alpi. Qui infatti ogni giorno s’accumula roba che viene in grande abbondanza esportata altrove.

XII. – Del resto quel che sia la nostra città si rileva dallo stesso significato del suo nome. Infatti Mediolanum comincia con M e con M finisce: nel mezzo sono O ed L. L’M, che è la più larga lettera dell’alfabeto, significa l’ampiezza della gloria di Milano diffusa per tutto il mondo. L’M, che sta, al principio ed alla fine, significa anche il numero mille al di là del quale nessun numero è semplice e presentabile con una parola sola. E questo numero, perfetto nella sua semplicità, dà ad intendere che Milano dall’origine fino alla consumazione dei secoli è stata e sarà annoverata fra le città perfette. L’O, una delle due lettere che stanno nel mezzo, rotonda e perfetta, la più degna e bella di tutte, significa la rotondità, la bellezza, la dignità e la perfezione. È infatti la nostra città rotonda, come la lettera, più bella e più perfetta di altre consorelle. La L simboleggia la lunghezze e anche l’altezza della sua gloriosa nobiltà, giacchè per i meriti e le preghiere della beata Vergine Maria, del beato Ambrogio e dei santi de’ quali qui riposan le ossa, e per bontà di Dio, la sua alta gloriosa nobiltà durerà fino all’ultimo.

XIII. – Dobbiamo anche rilevare che in quel nome si trovano tutte le cinque vocali ripartite nelle singole sillabe, il che vuol dire che, come il nome della nostra città non manca di alcuna vocale, così la città non manca di alcuna cosa necessaria ai cinque sensi dell’uomo. E siccome i nomi delle altre città non possiedono il numero completo delle vocali, esse città, paragonate a Milano, mancano sempre di qualche cosa necessaria.

Tale essendo, quale fu dimostrata, la grandezza di Milano, mi sembra giusto che chi ha la fortuna di chiamarsi cittadino milanese possa di ciò gloriarsi. A un patto però, che non degeneri dalle virtù della stirpe, altrimenti non solo a sè, ma anche alla patria recherà vergogna. Imperocchè quanto più sono per nobiltà celebrate una famiglia o una città, tanto più spregevoli diventano quando si allontanino dalla probità degli avi.

XIV. – Tutto quanto ho detto in lode di Milano apparirà chiaro agli occhi di coloro che sanno vedere. Ma chi pensasse che nel tessere l’elogio di Milano io abbia sognato, o abbia scritto con leggerezza, o, per piacere ai leggitori, con malafede, sappia che ho attinto alla «Storia lombarda» e ad altri libri; e inoltre ho con non poca fatica indagato io stesso la verità o l’ho dimandata a chi era in grado di conoscerla. Molto potrei ancor dire intorno alla grandezza di Milano, ma sono stanco, ho altre cose da fare, e desidero fermarmi qui. Il detto basti. Se qualcuno crederà che l’opera mia non sia in tutto perfetta mi sia indulgente perchè l’urgenza di alcune mie occupazioni m’ha costretto a pubblicarla prima di averla potuta definitivamente correggere.

XV. – O Milano che nel linguaggio volgare potresti anche essere chiamata Mirano da mirare113, chi pensa che tu da mirabile abbia a diventar miserabile, chi dovrà deplorare che tu coperta di lana sia dilaniata?…114. Tu nutrisci nel tuo seno chi tenta dilaniarti con rabbiosi denti. Forse della tua turbolenza si compiacciono le città sorelle per timore di dover esserti soggette, quando la pace accrescesse la tua forza. Bramose di renderti loro tributaria, mentre ti vedono così ammalata, non si péritano di minacciarti e istigarti, ti disprezzano e della tua malattia pazzamente ridono.

O mirabil decoro del mondo, o città, ripiena di molteplici grazie, o città veneranda consacrata dal sangue purissimo di tanti martiri, chi son che presumono di inquietarti se non certi prepotenti tuoi cittadini che le dovizie di tutto il mondo non basterebbero saziare? Che cosa può mai inspirar loro tanta presunzione? Dovrò io dire che è l’invidia che li corrode e li irrita e li stimola ad ogni scelleraggine, o dovrò tacere? Silenzio. Spesso il tacere non fa male. Ma questo dirò: che certi invidiosi di questa terra, ignari di Dio e di sè stessi, hanno la perfida capacità di esercitare, a danno de’ loro concittadini, astuzie e violenze e preferiscono collegarsi cogli stranieri, combatter fra loro con inique armi per tiranneggiare gli altri, a disdoro della patria, piuttosto che vivere in pace, rispettandosi a vicenda, per favorire il progresso della città, conseguire l’egemonia su tutti i lombardi e una gloria trionfale. Coloro che, mentre potrebbero dominare le altre città della Lombardia, si adoprano a distruggere i concittadini per magnificare sè stessi, non tollerando che altri sia loro pari, e addentano come cani la grandezza della loro città spingendola quasi a ridursi in vergognosa servitù, coloro, mi sia lecito dirlo, non son degni neppure di pulire le scarpe ai milanesi.

Guai agli scellerati, che movendo sulle orme di Lucifero, colla loro libidine di dominio tentano sconvolgere una sì grande città; guai agli altri che, imitando gli spiriti perversi, fautori di Lucifero, aderiscono alle fazioni e istigano gli empi capi a rovinar la patria.

Guai ai religiosi che nell’ombra, favoriscon le sètte, e guai ai religiosi, indisciplinati favoreggiatori di coloro che, vaghi di dominar sui confratelli, quando fra essi trovano il male e si sentono incapaci a guarirlo, ricorrono ai potenti, al modo di Giuda Iscariota. Guai a coloro che volontieri apron le orecchie alle blandizie degli adulatori, benignamente li accolgono, e li secondano. Costoro sono autori di divisione e di discordia, e, se prima non si convertano al Signore, son degni di esser puniti come i falsi angeli ed i demoni.

Preghiamo dunque il nostro Salvatore, il Signor nostro Gesù Cristo, che si degni di accrescere la grandezza di questa città, mantenga sulla retta via i cittadini disposti a percorrerla e vi riconduca i traviati, benedica tutti gli stranieri che si compiacciono per la nostra grandezza, e gli invidiosi e i malevoli converta e riduca alla virtù della carità. Egli che vive col Padre, col Figliuolo e collo Spirito Santo. Dio per infinita saecula saeculorum. Amen.

Deo gratias amen.


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